In questa casa regna la grazia di Dio

  La casa ove è nato e vissuto Giuseppe Fanin, in località Tassinara, è un edificio tipico della bassa bolognese: solido e quadrato, domina intorno i campi fertili e vasti. Accanto la stalla, il grande cortile popolato di animali, il piccolo giardino e il frutteto.
  Circa 25 ha. di terreno circondano l’abitazione. La proprietà appartiene alla veneta famiglia di Fanin dal 1910, quando il nonno Giovanni aveva abbandonato Sossano Vicentino, l’aveva coraggiosamente acquistato e duramente conservato con il lavoro e il sacrificio.
  In questa zona dell’Emilia, la popolazione è laboriosa e ardente, cordiale nelle amicizie e implacabile nell’odio.
  I rapporti di Fanin con il vicinato furono fino a pochi anni or sono amichevoli e sereni. I Fanin hanno il culto dell’ospitalità e spesso nelle sere invernali gli agricoltori del vicinato si riunivano nella grande sala da pranzo per la partita a carte, animata dal vino e dai «crostoli» Veneti. Qualche volta fra gli ospiti delle allegre serate c'era Don Enrico Donati, il Parroco di Lorenzatico per la famosa «bestia» il gioco da lui prediletto.
  La guerra è passata in questa zona lasciando gli animi sconvolti.
  Rancori nuovi ed antichi sono esplosi violentemente, seminando odio e vendetta. La paura cammina per queste silenziose strade da quando Don Enrico fu trovato cadavere in un macero, chiuso in un sacco e fracassata la bocca da colpi di pistola. Pochi mesi dopo l’orribile delitto, un altro sacerdote, Don Reggiani nella confinante parrocchia d'Amola veniva freddato sulla via.
  Episodi simili si sono susseguiti nel subito dopo-guerra con frequenza impressionante.
  Il terrore fece deserte le strade, ove l’agguato, il tradimento e il mitra vegliavano.
  «Ma i buoni qui sono buoni sul serio» dice Don Antonio, il Parroco di Lorenzatico. Il suo volto si rasserena un istante, egli pensa ai Fanin per primi. «Nell’atrio di casa Fanin c'è scritto: Dio sia benedetto! In questa casa non si bestemmia; ma io potrei scrivere: " In questa casa regna la grazia di Dio "«.
  I Fanin sono fieri della tradizione religiosa dei loro avi e con commozione ricordano la santa e indimenticabile figura della nonna. Nonna Angela!
  Quanta soavità, quanta fede irradiò questa creatura! I figli, i nipoti, non potranno mai dimenticare il suo volto luminoso che parlando di Dio esprimeva una fede totale e profonda.
  Appoggiava la sua piccola mano tremante sulle loro mani come per comunicare il suo slancio di Fede.
  «Ricordati che Dio ti vede sempre!». La vita, il dolore, il lungo colloquio con Dio le avevano insegnato il silenzio, e perciò le sue parole erano preziose. Vicina a morire, alla figlia Lidia che l’assisteva e di cui cercava particolarmente il conforto e la cura, disse un giorno: «Lidia, so che ti aspettano ad Amola le giovani di A.C, va pure, farai così il bene che ormai non posso più fare io...!».
  Alla sua scuola s'era temprata questa famiglia cristiana, che ha saputo benedire Dio anche nella più tragica sventura. «Il Signore me l’ha dato, il Signore me l’ha tolto. Sia fatta la Sua Volontà». Così la mamma di Giuseppe parlò davanti all’insanguinato corpo del figlio.
  In casa Fanin, dove i due fratelli Virgilio e Francesco vivevano con le loro famiglie, nasceva quasi ogni anno un bambino. 17 bambini in 17 anni ! Ed ogni volta era una festa piena di solennità e di entusiasmo. Si caricava il fagottino bianco su di una grande e vecchia automobile soprannominata «La carovana» che conteneva però il ragguardevole numero dei ragazzi Fanin e anche qualche loro compagno, e via alla Chiesa per il rito battesimale.
  La gente che conosceva bene «la carovana» quando alla domenica giungeva alla Chiesa, si fermava ogni volta stupita a contare i fanciulli che si precipitavano dai quattro sportelli spalancati e confessava che il calcolo era difficile.
  L’8 gennaio 1924, Giuseppe nasceva nella grande casa accolto con gioia e divenne presto un personaggio importante tra fratelli e cugini.
  Era un fanciullo robusto, con i capelli indocili color del lino.
  Amava i giochi tempestosi nei quali spesso s'ammaccava, ma non gli spiaceva ascoltare tranquillo accanto al focolare le fantastiche storie della Nerina, le meditazioni religiose che zia Lidia leggeva alla nonna e la vita di Gesù narrata da questa.
  La sua infanzia trascorse lieta ed egli cresceva sano come una giovane pianta, con un carattere dolce e incline alla pietà.
  Finite le scuole elementari mostrò desiderio d'entrare in seminario.
  Contenti di lui superiori e compagni, ma un anno e mezzo dopo, Giuseppe cercò del Rettore, il quale ricorda ancora le parole con cui gli si presentò franco e risoluto: «Mi sono sbagliato; questa non è la mia via; io diverrò un buon padre di famiglia». Il Rettore sorrise, ma siccome Giuseppe si mostrò deciso chiamò il babbo. «Prendetelo a casa, ma tenetemi informato: penso che vostro figlio ritornerà in seminario».
  Pippo non s'era sbagliato e al Seminario non pensò più.
  In un giorno di festa al paese, camminava tra la folla quando due ragazze gli si avvicinarono per offrirgli un mazzo di violette. Era la giornata della Doppia Croce. Una delle due fanciulle lo incantò. Aveva un visetto bianco incorniciato da capelli nerissimi; parlava e rideva gaiamente nel chiedere le offerte, ma un riserbo gentile traspariva in ogni suo gesto. l’aveva già notata a scuola, dove frequentava un'altra classe e ne seppe il nome: Lidia. Nel cuore del ragazzo quindicenne s'accese quel giorno una fiamma che non doveva più spegnersi.
  Licenziatosi dall’Avviamento s'iscrisse all’Istituto di Agraria di Imola. La Direttrice prof. Sara Soldati ricorda la sua decisione nella scelta della professione: «Siamo una famiglia di agricoltori: amo la terra, non potrei staccarmene». E lo rivide studente all’istituto agrario di Imola. «Veniva sovente a trovarmi: gentile, compito, mi portava con la sua aperta cordialità il maggior conforto che sia dato ad un insegnante: la certezza del ricordo grato ed affettuoso di uno scolaro».
  Diplomatosi in agraria venne all’Università di Bologna, dove nel 1948 si laureò Dottore in Agraria. Pippo dottore rimase esattamente l’allegro e franco ragazzo che i famigliari e gli amici amavano.
  S'era fatto un bel giovanotto: statura slanciata, corpo elastico, volto abbronzato. Gli occhi chiari sotto l’alta fronte erano sinceri e ridenti come tutto il volto. Non si dava arie dottorali. Quando era libero lavorava nei campi insieme ai fratelli e al padre, pieno di interesse e di iniziative. Coltivava il suo giardino del quale era molto geloso poiché amava i fiori ed era sensibilissimo alla loro grazia e bellezza. Quanti fiori! Ce n'erano per tutti: per l’altare, per la fidanzata, per la casa.
  Le violette di Pippo, fragranti e vellutate erano conosciute da tutte le Fucine di Persiceto. Quando Pippo morì, nel giardino già spoglio, fiorivano le salvie splendide, rosse come il suo sangue. Gli furono portate al cimitero.
  Amava la casa e non era cosa rara vederlo intento a rimetterla in ordine e a spazzare il cortile. Aveva il culto del focolare. «Saper far fuoco è un'arte» diceva. E volentirei imitava nonno Giovanni che soleva mettere a fuoco enormi cataste di legno, rimaste proverbiali in casa Fanin.
  Pippo amava sopratutto la famiglia, il babbo che spesso consultava anche per questioni sindacali e del quale ammirava l’intelligenza e la ferrea volontà. Era fiero della sua mamma ed era felice d'uscire con lei. Allora le sceglieva l’abito, l’aiutava a pettinarsi, la voleva giovane e bella, le offriva il braccio e ci teneva a farsi vedere con lei. Nutriva affetto riconoscente per zia Lidia alla quale ricorse sempre con fiducia, sentendosi compreso e incoraggiato, specialmente nei momenti decisivi della sua vita. Zia Lidia fu sempre congiunta nel suo ricordo affettuoso, a un'altra zia, Suor Dionisia, che gli fu tenerissima mamma durante la degenza a Castelfranco.
  Alle sorelle e fratelli fu sempre molto vicino, con comprensione e gentilezza e diceva che sposandosi non intendeva «mettere su casa» per proprio conto, ma voleva restare con loro.
  Pippo era sopratutto un tipo, un carattere. Un tipo fatto di schiettezza per cui diceva senza esitazioni quanto sentiva anche a costo di scottare talvolta e di mortificare. La sua schiettezza era congiunta ad un senso di sicurezza, quasi di baldanza che non era però superbia, ma gli veniva dalla certezza delle sue opinioni e dalla purezza della sua vita.
  E la maturità che gli aveva dettato a 13 anni quel suo «Sarò un buon padre di famiglia» 1' accompagnò sempre, per cui mentre sembrava a volte affrontare problemi superiori alla sua età, stupiva poi per l’abilità con cui sapeva risolverli. Singolare era la sua precisione tanto connaturale in lui che la portava in tutto: nell’abito elegante dalle pieghe inappuntabili dei calzoni che stirava da solo per non disturbare la mamma; nel suo metodo di studio, negli oggetti personali, all’altare dove serviva la messa con l’esattezza di un seminarista, agli esercìzi spirituali di cui restano gli ampi e diligenti riassunti delle prediche. Queste qualità che preparavano in lui il futuro padre di famiglia nel senso più pieno, erano valorizzate da una solida fede e da una sentita pietà cristiana. Pippo non aveva rispetti umani e volentieri s'accompagnava per le strade e le piazze coi sacerdoti. Il suo professore di diritto agrario, al quale era legato da un'intima amicizia, dice di averlo notato per la prima volta mentre faceva la S. Comunione.
  E un sacerdote della basilica di S. Petronio, quando i giornali all’indomani del delitto riportarono in prima pagina la fotografia di lui, fu molto stupito e addolorato nel riconoscere il giovane fino allora sconosciuto che tante volte aveva servito Messa e ricevuto da lui la Comunione.
  Di Giuseppe così parla il suo Parroco: «Il contegno sobrio, semplice, sereno, ordinato con cui si accostava all’altare, talvolta anche per servirmi Messa, non aveva nulla di diverso dal contegno che assumeva in tutti i suoi atti, in modo che la sua vita esterna aveva una continuità perfetta ed era manifestazione della sua interiore formazione».
  Pippo aveva naturalmente anche dei difetti. A chi s'accingeva a narrare la sua vita, amici e fratelli dissero: «Non raccontate delle storie! Pippo era un ragazzo vivo e non irrigiditelo». Infatti Pippo era vivo con le sue virtù e con i suoi difetti, ma, come pochi, sapeva sforzarsi, ogni giorno della sua vita, per migliorare e continuare la via diritta che s'era scelto.
  Al momento della morte portava nel portafoglio i propositi fatti negli ultimi esercizi spirituali.
  Dopo averli con costanza realizzati in vita, li ha sigillati con il suo sangue.