Prefazione


  Quando Don Bedeschi mi ha chiesto una prefazioncella per questo suo libretto sui Preti caduti nell’Emilia gli ho risposto candidamente che io, di questa prefazioncella, non sentivo proprio nessun bisogno e, osavo affermare, che i suoi venticinque... mila lettori erano, e sono, dello stesso mio parere.
  Don Bedeschi conosce l’arte di farsi leggere e lo leggiamo quasi tutti i giorni, o sull’
Avvenire d'Italia o in altri giornali cattolici, senza nessun bisogno di prefazione e con gusto moltissimo.
  Ma Don Bedeschi ha insistito toccando un tasto per me debolissimo: ha detto, cioè, che, come anziano, io ho qualche cosa da dire su questa truce e gloriosa storia del martirio dei preti italiani.
  L’anzianità mi seduce, come mi sedusse fino a una ventina d'anni fa la gioventù. Non guardo (ahimè) a quella del calendario; guardo a quella dei fatti e delle esperienze.
  Come anziano, dunque, posso dire questo: che l’odio settario contro il Prete, l’odio che uccide, è cosa straniera al nostro paese. Ricordo — sempre come anziano — questo giudizio di Alessandro Manzoni nella sua
Morale cattolica (1819): «... Non c'è forse nazione cristiana dove i sentimenti di antipatia col pretesto della religione abbiano avuto meno occasione di nascere e d'influire sulla condotta degli uomini. In verità, riguardando a questa parte della storia, noi troviamo piuttosto da piangere su quella Francia e su quella Germania che ci vengono opposte. Ah! tra gli orribili rancori che hanno diviso l’Italiano dall’Italiano, questo almeno non si conosce; le passioni che ci hanno resi nemici non hanno almeno potuto nascondersi dietro il velo del santuario. Purtroppo, noi troviamo ad ogni passo nei nostri annali le nemicizie trasmesse da una generazione all’altra per miserabili interessi.... Purtroppo, da questa terra infelice sorgerà un giorno gran sangue in giudizio, ma del versato col pretesto della religione, assai poco. Poco, dico, in confronto di quello che lordò l’altre parti di Europa...».
  Dopo centotrent'anni da che fu scritto, questo giudizio manzoniano può essere, dunque, in parte smentito dagli eventi dolorosissimi che Don Bedeschi ci documenta?
  Certamente, dopo il 1820, le passioni politiche, esasperate dagli ideali e dai pretesti della libertà e del patriottismo, suscitarono anche fra noi episodi di odio — che diremo, col Manzoni,
odio religioso — contro il Clero e segnatamente ciò avvenne nelle provincie pontificie (specie Emilia, Romagna, Marche) nelle quali la propaganda settaria contro la calotte veniva esercitata, con finalità politiche, dagli agenti giacobini prima, napoleonici poi, che cercavano trapiantare in Italia il gusto delle stragi di preti e di suore che il Terrore francese aveva esaltato nel nome del Libero Pensiero - con le maiuscole.
  Nelle cronache della Repubblica Romana del 1849, non mancano, nelle provincie e a Roma medesima, fatti atroci nei quali preti e frati sono vittime di assassinii che si dicono «politici». Fatti atroci che Giuseppe Mazzini riprovò altamente perchè disonoravano l’Italia e la Repubblica.
  Il 2 agosto 1879, il P. Cardoni, domenicano, cadeva a Roma, in piazza Venezia, di pieno giorno, colpito di coltello da un omicida che gridò:
Finiamola una volta tanto; per voialtri è finita!
  Il delitto suscitò una vasta risonanza. Si preferì pensare al gesto di un pazzo più che alla violenza che si abbatte criminosamente contro l’innocente e l’inerme ministro di Dio.
  Bisogna giungere al primo dopoguerra per segnalare i nefasti dell’odio settario: il 15 agosto 1920, ad Abbazia S. Salvatore (Siena) i rossi provocano un tumulto in una celebrazione religiosa e trucidano il P. Angelico Galassi, dei Minori, mentre esce dalla porta della Chiesa, tenendo al braccio la vecchia Mamma; il 23 agosto 1923, ad Argenta (Ferrara), una mano di squadristi fascisti assassina Don Minzoni, il glorioso cappellano militare, il parroco impareggiabile, l’apostolo invitto.
  Queste due vittime venerate si elevano, come simboli, sulla folla dei sacerdoti che, in guerra e in pace, hanno reso la testimonianza suprema del Sangue.
  Nei tre anni nei quali pubblicai Rabarbaro, io raccolsi oltre cento biografie di preti e religiosi italiani che hanno santificato il loro dovere con una morte illuminata dall’eroismo più puro.
  Tra questi eroi, la guerra ha suscitato numerosi i preti cappellani i quali, nell’adempimento del dovere militare debbono portare la fedeltà più alta allo spirito del Vangelo, negando l’odio pure nel turbine della discordia sanguinosa che dichiara gli uomini, gli uni agli altri, nemici a morte.
  Nell’eroismo e nel sacrificio del prete cappellano splendono spesso i bagliori del martirio, cioè la testimonianza, suggellata dal sangue, alla Parola di Cristo: «Noi sappiamo di essere assunti dalla morte alla vita perchè abbiamo amato i fratelli» (San Giovanni, Lett. I, 3, 14).
  Ma questo martirio diventa splendore nella gloriosa passione dei preti assassinati nelle oscure vicende della guerra civile e negli agguati delle macchinazioni faziose: questi cadono, inermi e innocenti, divorati da un odio che spesso supera la loro persona, e investe, tremendamente, il loro abito, la loro missione,l’idea e la Fede, che è ragione della loro vita.
  Costoro realizzano il vaticinio sublime di Gesù che disse ai suoi:
«Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (San Matteo, X, 16).
  Di costoro traccia una rapida commossa storia il nostro Don Lorenzo, il quale — per l’ardente amore della terra nativa — ha limitato le sue ricerche ad un settore geografico ben determinato, nel quale la propaganda di avversione al Prete ha una tradizione più annosa e collegata con saldi vincoli ideologici. Qui il
mangiapretismo è la traduzione pratica della negazione religiosa; il senza Dio si confonde nel senza prete, con la logica infiammabile dell’ingegno pronto e della mano lesta e la passione avvelenata dell’odio scende, irresistibilmente, dal cervello al cuore, dall’idea alle persone.
  E l’odio è per definizione omicida.
  L’odio uccide.
«Colui che odia il fratello è omicida» (San Giovanni, Lettera citata).
  Solo il Vangelo è riuscito, col tocco di Cristo, a spezzare questa terribile logica della umanità corrotta, secondo la quale l’odio scende dall’idea alle persone. Solo il Vangelo ha potuto e può dire che dobbiamo odiare l’errore, odiare il peccato, odiare il delitto e, al tempo stesso, amare l’errante, amare il peccatore, amare il delinquente. E non uccidere.
  Mettere insieme questo odio e questo amore è difficile. Tanto difficile che c'è voluto Gesù Cristo per operare — con la sua parola e il suo sangue — questo miracolo, di dichiarare la guerra all’odio che uccide, di comandare l’odio all’odio che uccide.
  È molto più facile — più comodo, più bestiale —
far fuori quelli che non la pensano come noi, che si mettono contro i nostri diritti, i nostri interessi, i nostri capricci. È più facile, è più spiccio, è più (come dire?) gustoso. Gli stessi cristiani, nei venti secoli da che predicano il Vangelo (e venti secoli nella vita della Chiesa e del mondo sono appena, si e no, venti giorni) quante volte hanno ceduto anche loro alla tentazione insidiosa, di cercare la morte del nemico, del delinquente?
  Dobbiamo sottolineare questa parola, «delinquente», perchè nel Vangelo non si trova una parola che approvi, non diremo la. morte del nemico, ma nemmeno la condanna a morte, legale, del delinquente. E dobbiamo pure soggiungere che nel Diritto canonico — cioè il diritto vigente nella Chiesa, nel governo dei fedeli — la Chiesa non conosce la pena di morte.
  Questi cinquantadue preti assassinati, in poco più di due anni, in una delle più nobili provincie italiane, stanno a dimostrare, con la ineguagliabile eloquenza del martirio, la perennità sovrumana della missione della Chiesa nella storia, dell’«inestinguibile odio» e dell’«indomato amore» che ella suscita nelle anime, a conferma della Parola divina.
  «Pecore in mezzo ai lupi». Questo è il destino — questa è la promessa, la ricompensa, il premio — che Gesù ha annunciato ai suoi, a quelli che prendono nome da Lui, sacerdoti e laici, prescrivendo loro di non cercare la lotta, di non cercare il martirio stesso (di essere pronti a fuggire, anzi, se è possibile farlo senza viltà e senza danno alle coscienze); ma di essere sempre, virilmente e serenamente pronti a morire senza reagire, innocenti ed inermi, «pecore in mezzo ai lupi».
  In tutte le cronache raccolte da Don Bedeschi, nelle forme più diverse e talvolta contrastanti, noi riconosciamo le pecore, immagini di fedeltà e di mitezza, e i lupi, immagini dell’
inestinguibile odio che divora, massacra, uccide.
  Le parti sono ben distinte e definite. La Chiesa conta le sue vittime ma non conosce, fra i servi, un assassino. Qui sono cinquantadue preti assassinati: quanti sono i nemici della Chiesa che sono stati assassinati, almeno a titolo di rappresaglia, dai cattolici?
  Guardiamo oltre l’Emilia rossa — e rossa, soprattutto, di questo sangue innocente — e pensiamo all’
inestinguibile odio che infuria nei paesi della cortina di ferro, in Russia, in Romania, in Ungheria, in Bulgaria - dove i preti e i fedeli perseguitati, imprigionati, fatti morire di fame e di tormenti nel carcere; in Cina, nella lotta accanita contro le missioni cattoliche; si contano a centinaia e migliaia le pecore in mezzo ai lupi.
  Perchè oggi — come ieri e come sempre — si contano a migliaia i cristiani, sacerdoti e laici, che accorrono volenterosi all’appello del Maestro divino, il quale non promise loro nè facili onori ne facili trionfi, ma la persecuzione e la morte:
 
«Se il mondo vi odia — Egli disse — sappiate che prima di voi ha odiato me.... Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi— Questo vi dico, perchè, giunta l’ora, vi rammentiate che io ve ne ho parlato» (S. Giovanni, XV e XVI).
  Queste divine parole hanno echeggiato senza dubbio nel cuore dei cinquantadue sacerdoti nell’ora suprema, quando si realizzava per loro il vaticinio tragico e i carnefici, nella follia del loro odio cieco, non facevano che avverare col delitto la profezia di Cristo.
  Pensando alle parole del Manzoni con le quali abbiamo iniziato questa nota di elogio e di augurio alla pubblicazione di Don Bedeschi, due conclusioni (chiamiamole pure, così) ci sorridono in cuore, al margine di queste tristi eppure gloriosissime cronache del martirio.
  L’odio omicida contro la Fede ha dunque macchiato la storia del popolo italiano, dal P. Angelico Galassi a Don Umberto Bracchi, dalla prima alla seconda guerra mondiale. Speriamo che questa serie di delitti orrendi — diciamo pure, questa parentesi odiosa — sia, nella nostra storia, chiusa per sempre. E che l’Italia, ancora e sempre, possa dire che
«in confronto delle sventure e dei furori dell’altre nazioni» non le spetta il primato fosco e disonorante dell’odio religioso.
  Quanto all’Emilia, la documentazione severa di Don Bedeschi, necessaria, urgente, ammonitrice, non ci offre solamente la percezione orribile dell’
inestinguibile odio che uccide, ma ci scopre anche la visione bella e confortante dell’indomato amore. Se la generosa e ferace terra emiliana ha dato (chi sa?) non pochi dei carnefici, ha dato pure, quasi nella totalità, i Martiri gloriosissimi.
  Il sangue di costoro, congiunto col Sangue del Crocifisso, cancella con la porpora santa, i segni del delitto, ed accende negli occhi nostri e nei cuori le speranze più ardite, per il trionfo dell’amore e della vita nel mondo — e innanzi tutto nelle coscienze nostre — contro l’odio e la morte.
  Gesù ha detto: «Io sono venuto a portare la Vita...».

EGILBERTO MARTIRE