Preti «reasionari»

Le bandierine nostalgiche del Parroco di Correggio

    A Correggio (la simpatica cittadina reggiana patria della Gambara e dell'Allegri), l'ultimo giorno di carnevale del 1953 la signorina C. S., traendo dai fondi di bottega maschere, coriandoli e vecchie bandierine ne aveva fatto dono ai bimbi della città. Fatalmente fra le vecchie cosucce e bandierine ve n'era anche un certo numero con lo stemma sabaudo, ma non per questo i piccoli correggesi si rifiutarono di accettare il dono tradizionale. «L'Unità» invece (nella sua edizione reggiana del 10 Marzo 1953) insorgeva prontamente accusando il Parroco di Correggio, Mons. Corradi, di aver distribuito ai bimbi «delle bandierine di carta con lo stemma sabaudo». Il qual contegno del Prevosto di Correggio sarebbe stato addirittura «fazioso e inqualificabile».
    Si dirà: e perchè «L'Unità» ha attaccato il Prevosto di Correggio? L'ha attaccato per una evidente ragione generale di cavarne pretesto per urlare contro i preti, ma anche per una ragione specifica, personale, che è questa: l'API aveva organizzato per quel giorno un «matinèe», invitando tutti i ragazzi di Correggio.
    Mons. Prevosto avverti dal pulpito che avrebbe lui stesso sorvegliato i fanciulli e tenuto d'occhio chi avesse messo i piedi nei locali dell'API promettendo in pari tempo una grande festa in Canonica per tutti i fanciulli. E nessuno si presentò all'API. NESSUNO! Da notare che succede sempre così a Correggio! Quando sulla facciata del Palazzo del popolo appare un invito dell'API, in Chiesa c'è l'avvenimento.
    Mons. Prevosto alla Messa delle 9, davanti a tutti i fanciulli spiega il significato dell'invito ed elettrizza talmente i ragazzi che nessuno osa andare all'API. È un avvenimento perchè è il giorno in cui le Delegate vedono tutti i fanciulli in Canonica. Tutti.
    È una contropartita che ha sempre giovato! I bimbi ci hanno preso gusto... Una volta Mons. Prevosto li portò in gita sul treno! A riprendere i ragazzi alla stazione si era rovesciata tutta la città. Anche i comunisti c'erano!
    Altre volte prepara il cinema gratis, le tombole con graditissimi premi, la merenda coi biscotti, ecc.
    È qui «l'inqualificabile e fazioso comportamento di Mons. Corradi!». Altro che sabaude bandierine... di fondo di bottega!

Lo scandalo di Migliarina

LAJOLO, INGRAO E C. SCENDONO A COMPROMESSO CON UN PRETE PER NON ANDARE IN PRIGIONE

    Siamo costretti, per spiegare come Davide Lajolo (Ulisse), direttore dell'edizione milanese de L'Unità, e tre altri suoi compagni, abbiano evitato otto mesi di galera, senza condizionale per grazia di un prete, a trascrivere quanto L'Unità di Roma in data 2 Novembre 1950 pubblicava in terza pagina sotto vistoso titolo:
    «A Migliarina, piccolo paese in provincia di Modena, sentivo cantare la stessa monotona canzoncina da tutti i ragazzi che incontravo. Si interrompevano improvvisamente appena mi avvicinavo. E poichè il dialetto emiliano è per me incomprensibile, dovetti rivolgermi a una donna del luogo per avere qualche spiegazione. — Che colpa ne hanno — rispose con risentimento la donna, — se certi fatti non avvenissero non ci sarebbero le canzonarne! «Ma io volevo sapere solo cosa cantano. Non faccio colpa a nessuno...». Beh! Insomma — fece la donna guardandosi la punta delle scarpe — non ha sentito forse? È la canzone dell'armadio.
    «Ah! Sì. La canzone dell'armadio. Che graziosa!» esclamai con falsa ammirazione. Basta! disse la donnetta sdegnata, piantandomi in mezzo alla strada. — Lei crede di fare lo spirito con me. La storia se la faccia raccontare da qualcun altro in paese. Se davvero non la conosce.
    La storia dell'armadio, venni infatti a saperla dopo, è recentissima e la conoscono tutti a Migliarina e nei paesi intorno.
    Alcuni mesi or sono un giovane della zona, prossimo a sposarsi, si recò alla sua parrocchia per chiedere i certificati di battesimo e di cresima da allegare agli altri prescritti documenti. Erano le prime ore del pomeriggio ed egli trovò chiusa la porta principale della Chiesa, ma, avendo molta fretta, non desistette dal suo proposito e andò a bussare all'ingresso della sagrestia. Bussa, bussa ancora, ma nessuno risponde. «Dormirà — pensò il giovanotto, — ma io debbo insistere. Vuol dire che poi gli darò un'offerta per la Madonna». Il pio proposito lo riportò col pensiero all'infanzia e alle lezioni di catechismo in parrocchia. Ricordò così che, saltando un muretto, avrebbe trovata una porticina che dava dietro all'altare maggiore. Saltò il muretto come ai tempi della sua infanzia e la porticina, appena ebbe una spinta, si aprì. Il promesso sposo, penetrato finalmente in Chiesa, si diresse subito verso la porta interna della sagrestia ma trovò anche (mesta chiusa. Ma questa volta ebbe appena toccato il legno con le nocche, che subito rispose la voce allarmata del parroco: «Chi è? Fermo; un momento! Chi è?». Finalmente la porta si aprì e il parroco appare (segue un doppio senso scurrile. Ndr.). Il giovanotto mortificato spiegò la ragione della sua fretta: «Va bene!, disse il parroco dopo avere inutilmente tentato di mandare via il giovanotto, «Sia fatta la volontà di Dio! Oggi un povero prete non può fare nemmeno la sua siesta in pace».
    Si avviò quindi verso la scrivania, cercando nervosamente i moduli dei certificati ma, aveva appena intinto la penna che le porte del monumentale armadio, che era alle sue spalle, si spalancarono con rumore infernale, e all'interno apparvero due donne completamente nude, che tentavano di nascondere il volto fra le mani. Il giovane parrocchiano rimase impietrito e in principio credette ad una miracolosa visione di angeli. Ma passato il primo stupore, non fece molta fatica a riconoscere due giovanissime paesane: una tale, Anna C, appartenente a facoltosa famiglia e considerata la più bella della zona, l'altra meno bella e sopratutto nota attiva democristiana...».
    Il brano continua colla solita scurrilità, ma noi ci fermiamo qui perchè ciò è sufficiente per i fatti che dobbiamo narrare.
    I lettori debbono sapere che Migliarina è un piccolo paese del Comune di Carpi (Modena) che confina cogli ultimi comuni reggiani, Rio Saliceto e Correggio.
    Da dodici anni regge la parrocchia Don Oves Diazzi. Pochi però lo conoscono con il suo vero nome, poichè tutti lo chiamano «Don Camillo». Egli ha infatti una marcatissima rassomiglianza con Fernandel, il popolare attore interprete del personaggio guareschiano. Don Diazzi, trovandosi un giorno a Modena, mentre era in visione il film di Duvivier, nel passeggiare sotto i portici si trovò assalito dagli sguardi dei passanti che ridevano alle sue spalle. Credendo egli di avere qualche difetto negli abiti, domandò spiegazione al primo incontrato. Questi rispose: «Ma non Le ha detto nessuno, reverendo, che Lei è la copia del Fernandel-Don Camillo?». Don Diazzi, che di Don Camillo non ha soltanto l'aspetto esteriore, ma anche la irruenza e la forza d'animo, non ha abitudine di tacere alle accuse dei comunisti, anzi risponde e ribatte vigorosamente. Venuto a conoscenza dell'infamante articolo fece i suoi passi. Il brano, che in parte abbiamo riportato, era firmato da Riccardo Longone. Lo stesso obbrobrioso attacco venne ripetuto, sempre in terza pagina, il 14 Novembre del 1950, nell'edizione milanese de «L'Unità» e il giorno 11 Novembre 1950 sul settimanale comunista «La voce della nuova Etruria», edito a Volterra e diretto dal signor Rolando Giannelli. Don Diazzi quindi querelava immediatamente i seguenti calunniatori: Sergio Scuderi, direttore de «L'Unità» di Roma per conto dell'On. Pietro Ingrao; Davide Lajolo (Ulisse): direttore de «L'Unità» di Milano; Riccardo Longone, estensore dell'articolo, e il direttore del settimanale «La voce della nuova Etruria», Rolando Giannelli. La posta in gioco per i comunisti era grossa: si trattava di salvare dalla condanna per reati i due direttori dell'edizione milanese e romana de L'Unità, e altri due fedeli «compagni» di giornalismo. Per questo essi hanno mobilitato nel processo i cani più grossi. Basti sapere che hanno scomodato perfino l'On. Terracini. Per raccogliere poi testimonianze onde confermare la veridicità dell'articolo incriminato, essi hanno chiamato come     testi in Tribunale i migliori comunisti di Migliarina e di Carpi. Da parte sua Don Diazzi era difeso dall'Avv. Antonio Grandi di Reggio Emilia e dall'Avv. Sergio Setti di Carpi. L'arringa è stata tenuta dall'avvocato Grandi che ha letteralmente stravinto al processo come vedremo in prosieguo di cronaca. Iniziatisi tre distinti procedimenti penali a Milano, Roma, e Pisa (i querelati sono quattro ma le querele sono tre, poichè Don Diazzi ha riunito il Longoni e il Giannelli in una sola querela), gli atti venivano rinviati alla Suprema Corte di Cassazione, la quale in data 18 Maggio 1951 designava il Tribunale di Roma, quale giudice competente per i tre procedimenti sopra indicati. I vari rinvii delle udienze, dalla prima a quella della sentenza, sono dovuti al fatto che la difesa ha sempre chiesto ed ottenuto la proroga di nuovi testi, per riuscire a rabberciare qualche indizio di prova. Scene buffe a questo proposito sono successe. Per esempio, essendo stata sospesa un'udienza per l'assenza di tre testimoni degli imputati, per caso Don Diazzi si portò a Montecitorio ad assistere ad una seduta della Camera e si vide con sorpresa, spalla a spalla, coi tre che dovevano essere a casa ammalati o a lavorare. Il querelante, a suo tempo, aveva concesso le più ampie facoltà di prova agli imputati i quali se ne sono avvalsi per fare escutere vari testi onde dimostrare la veridicità dell'episodio riferito nell'articolo incriminato.
    Nell'ultima udienza furono addotti dalla difesa i testi Vecchi Giuseppe, Padovan Bianca, Bulgarelli Alfredo e Bagni Romano, nessuno dei quali però è risultato essere testimone diretto dal presunto fatto.
    Anzi, tranne il Vecchi, tutti hanno detto di ignorare l'episodio. Lo stesso Vecchi non è stato in grado di dire altro di «aver sentito» da un certo Becchi Artemio un'altra versione completamente diversa del presunto fatto.
    Dalle testimonianze è emerso poi che il Becchi Artemio (il «giovinetto» che avrebbe scavalcato il muricciolo e sarebbe penetrato in sagrestia) era un mezzadro di Migliarina quasi settantenne, con moglie e figli e che si sarebbe recato, sì, in canonica ma anni addietro, per fare celebrare delle Messe; ciò ha suscitato spassosa ilarità nell'aula. In quanto poi al famoso armadio che avrebbe dovuto contenere le due donne, da accertamenti fotografici è emerso che un armadio esisteva non in sacrestia ma in canonica e che era completamente pieno di volumi e incartamenti. Anche se fosse stato vuoto l'armadio, che era tutt'altro che monumentale, non avrebbe potuto contenere due persone. Don Diazzi però, ora che la vicenda è finita, afferma che con un potente scapaccione potrebbe farci stare dentro una ventina di comunisti. In quanto poi alle due ragazze, la giovane figlia del facoltoso e la attivista democristiana, un teste ha deposto: «Ignoro del tutto se in Migliarina esiste una ragazza bella e di facoltosa famiglia che si chiami Anna e col cognome che cominci con C. Fino al tempo della pubblicazione incriminata il parroco Don Diazzi era stimato da tutti. Dopo la pubblicazione qualcuno incominciò a dubitare di lui. Ad altra domanda lo stesso teste rispose: «Non è mai sorta alcuna voce a scapito della dignità e della moralità del reverendo».
    Quindi le due ragazze non potevano certo essere state viste in casa del sacerdote, ma solo nella fantasia libidinosa dell'articolista. Abbiamo poi vista noi stessi la chiesa e l'adiacente canonica di Migliarina. Di muretti nemmeno l'ombra e se ve ne fosse stato uno il «giovanotto» di 67 anni non lo avrebbe scavalcato colla stessa facilità di quando, ragazzo, andava alla dottrina.
    Ci ha fatto sbellicare dalle risa la deposizione nel corso del processo dell'articolista Riccardo Longone, il quale a domanda ha risposto: «Riconosco di essere io l'autore dell'articolo incriminato, pubblicato sui tre giornali menzionati, ma dichiaro che non ebbi nessuna intenzione di diffamare il parroco di Migliarina». Noi ci domandiamo cosa scriverà mai il Longone quando vorrà diffamare qualcuno! Dopo lo spassoso processo, la verità sull'innocenza del prete sarebbe saltato agli occhi anche ad un profano di materia giuridica. Il Tribunale emise la sentenza. Condannò ciascuno degli imputati ad otto mesi di reclusione senza condizionale e a 70.000 lire di multa ciascuno. Tutti gli imputati venivano anche condannati in solido al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni verso la parte civile, Don Oves Diazzi; danni che, avuto riguardo alla diffusione dell'articolo incriminato, in tutta Italia, alla posizione sociale del querelante e alla delicatezza delle sue funzioni sacerdotali venivano computati in 300.000 lire. Altre 50.000 lire gli imputati dovevano pagare a Don Diazzi in solido, a titolo di riparazione pecuniaria a norma dell'art. 12 della legge sulla stampa, nonchè 200.000 lire a titolo di rimborso spese fino ad allora sostenute dalla parte civile. Veniva pure ordinata la pubblicazione per estratto della sentenza sui giornali a suo tempo denunciati.
    I condannati si appellavano immediatamente contro la sentenza, i cui effetti quindi venivano sospesi. Il processo d'appello veniva fissato per la data 8 Novembre 1952. Prima di quella data però i papaveri rossi chinavano miseramente la testa e inviavano a Migliarina, per cercare un compromesso, i loro avvocati.
    Don Diazzi, ormai stanco di Tribunali, di avvocati, di testimoni e di sentenze, entrava in trattative. Noi pensiamo che a questo punto siano entrati in gioco anche i sentimenti di pietà e di carità che specialmente un sacerdote esercita verso i più acerrimi nemici. Il compromesso veniva raggiunto a queste condizioni: 1) ritrattazione completa dell'articolo incriminato sulle due edizioni nazionali de «L'Unità», il cui testo venne preparato dallo stesso Don Diazzi e che noi riportiamo più sotto; 2) pagamento di tutte le spese processuali da parte degli imputati; 3) risarcimento dei danni morali in L. 1.250.000 da pagarsi in solido a Don Diazzi. I condannati, pur di evitare il processo di appello, e quindi la sicura galera, preferivano capitolare prima, meno rumorosamente, davanti all'«odiato prete». Perchè quindi Davide Lajolo non è andato in galera? Perchè non vi sono stati con lui gli altri imputati? Quanto detto basta a spiegare tutto l'arcano. Coi quattrini avuti dai comunisti Don Diazzi molto probabilmente acquisterà un «poderoso e monumentale armadio» per archiviare gli atti del processo, e se gli rimarrà qualcosa potrà acquistare una «lambretta». Per il momento però continua ad andare a piedi, fischiettando, al vicino caseificio col pentolino del latte in mano, guardando con aria trasognata i suoi «buoni parrocchiani» che avevano tentato di deporre contro di lui nel rocambolesco processo.
    Il giorno 8 Novembre 1952 sulle due edizioni, milanese e romana, de «L'Unità» appariva in un angoletto di seconda pagina la seguente rettifica a proposito della questione che abbiamo esaminato: «In riferimento all'articolo apparso su "L'Unità" di Milano il 14 Novembre 1950 a firma di Eiccardo Longone nel quale vi erano elementi ritenuti lesivi della onorabilità del M. E. Don Oves Diazzi, parroco di Migliarina di Carpi, si dichiara che l'articolo stesso è stato redatto su informazioni che sono risultate completamente destituite di fondamento. Conseguentemente si riconosce la completa onorabilità del M. R. Don Oves Diazzi colle espressioni di rammarico per l'accaduto».