II capitolo - Cattolici e democratici cristiani

All'indomani della Liberazione, i democristiani sono in prima linea nell'opporsi alle violenze e ai miti della rivoluzione "rossa".

Cercano, all'interno dei Cln, nei consigli comunali che si sono insediati subito dopo la Liberazione di portare ordine, moderazione, equilibrio. In diversi casi non tacciono di fronte ai prevaricatori e agli esagitati che sono presenti in quegli organismi e soprattutto in seno alla polizia partigiana. Non chiudono gli occhi di fronte alla sparizione e alla soppressione di persone, alle irregolarità amministrative, ai furti e alle rapine che sono all'ordine del giorno. E ad alcuni costerà molto caro l'opposizione a qualche "ras" locale che freme per la rivoluzione e non compie molti distinguo tra fascisti, democristiani o possidenti.

In provincia di Modena, tra il maggio ed il luglio 1945, vengono uccisi quattro dirigenti dc: il 10 maggio Carlo Testa; il 2 giugno Ettore Rizzi, assassinato insieme al padre Antonio; il 13 giugno Emilio Missere; il 27 luglio Bruno Lazzari, che cade insieme all'azionista Giovanni Zoboli. In provincia di Bologna, il 7 febbraio 1946, viene ucciso il segretario della sezione di Anzola Emilia Luigi Zavattaro).

Solo nel caso di Missere si arriverà ad individuare e condannare i responsabili. 34

a) Emilio Missere

L'omicidio del ventitreenne Emilio Missere è, tra i delitti a sfondo prettamente politico consumati nei mesi successivi alla Liberazione quello che in provincia di Modena desta più viva impressione e più forte indignazione. Innanzitutto per la personalità cristallina della vittima; poi per le cariche politiche ricoperte sia come membro del Cln di Medolla sia come segretario della locale sezione della Dc; ed infine per le circostanze della sua soppressione che risultano tali da essere inequivocabilmente collegate alla sua attività politica e da far pensare ad un omicidio premeditato ed organizzato con cura.

Emilio Missere è figlio del giudice del Tribunale di Modena Ermanno e di Gina Tosatti. Esonerato dal servizio militare, durante il periodo bellico può dedicarsi agli studi di giurisprudenza fino alla laurea che consegue presso l'Università di Modena nel dicembre 1944. Non partecipa attivamente alla Resistenza per un'istintiva repulsione alla violenza ma, all'indomani della Liberazione, si iscrive alla Democrazia cristiana di Medolla di cui diviene quasi subito segretario. Possedendo una "topolino" è in grado di tenere contatti frequenti con la segreteria provinciale di Modena e curare i collegamenti con le vicine sezioni di Modena e Cavezzo. Nei giorni successivi alla liberazione è stato designato dalla Dc in seno al Cln comunale "come l'uomo più rappresentativo e più dotato per svolgere il compito di moderatore e per agire da freno a quelli che possono essere gli eccessi degli altri rappresentanti quasi tutti partigiani comunisti". 35

Missere svolge i suoi nuovi compiti con entusiasmo. Il suo zelo lo porta a chiedere continuamente resoconti sull'attività degli uffici contabili del Cln comunale in cui sospetta la commissione di illeciti; al tempo stesso cerca di vedere chiaro in alcuni episodi di violenza consumati dalla polizia partigiana del luogo. Questa sua attività lo mette in cattiva luce presso il gruppo di estremisti che governa il Cln di Medolla. "Il Missere - scrive la "Gazzetta di Modena" nel 1952 - aveva posto in atto suggerimenti dati dal suo partito, perchè si facesse opera di vigilanza e si coadiuvasse coll'Autorità giudiziaria allo scopo di frenare l'ondata di delitti per vendetta scatenati dagli estremisti. Ciò aveva provocato il risentimento di alcuni elementi del luogo, facenti parte del Cln, i quali non tolleravano che si facesse luce sul loro operato. Il Missere, la cui condotta morale e politica era irreprensibile, era ritenuto un testimonio inopportuno e pericoloso per le loro molteplici illegalità compiute mediante perquisizioni, sottrazioni di beni mobili, ed imposizioni di offerte ed estorsioni che alimentavano la bramosia di sfruttare la situazione ad esclusivo vantaggio personale".

I moventi esatti dell'omicidio però non si conobbero mai. Al processo contro gli assassini di Missere, l'ex presidente del Cln di Medolla ammise che "in seno al Cln c'erano ragioni di contrasto a causa della contabilità che il Bertoli (accusato di essere il mandante, ndr) trascurava molto". Nello stesso dibattimento si parla anche degli accesi contrasti tra Missere ed esponenti della locale polizia partigiana circa la soppressione, avvenuta poco dopo il 25 aprile senza alcun processo, dei cinque fascisti Eva, Angelo e Santina Greco, Renato Neri e Pasquale Genni. 36

Quello che risulta con certezza è che Emilio Missere, nel pomeriggio del 13 giugno 1946, viene avvicinato da un certo Alfio Calzolari e da un altro partigiano, poi non identificato, che gli chiedono di condurli a Modena su ordine scritto del Cln di Medolla firmato dal vicepresidente Ennio Bertoli. In caso contrario hanno l'ordine di requisire la "topolino" di proprietà del Missere. Il giovane è costretto ad accettare e deve lasciare anche la guida ad uno dei tre. Prima di partire Emilio vede una conoscente e l'incarica di avvertire la famiglia della sua assenza e di rassicurarla che tornerà al più presto. La macchina viene vista transitare da un altro componente del Cln e da una donna, che nota anche che la macchina è seguita da un terzo individuo in motocicletta. Da quel momento di Missere e della sua vettura non si saprà più nulla. Qualche settimana dopo, trascorsa un'attesa inutile quanto snervante, e dopo concitate ricerche condotte dal padre a Modena, la famiglia denuncia la scomparsa di Emilio.

Le indagini dei carabinieri riescono lentamente a penetrare nel muro di omertà e di paura che incombe su Medolla e nel giro di un anno sono in grado di individuare i responsabili: oltre all'esecutore materiale Alfio Calzolari, gli organizzatori dell'omicidio risultano essere Jaures Cavalieri e Marino Malvezzi, ed i mandanti Ennio Bertoli e Alfredo Barbieri, anch'esso componente del Cln di Medolla.

Alla cattura sfuggono il Calzolari ed il Cavalieri. Del primo, ricercato anche per l'omicidio dell'ingegnere Gino Falzoni di Finale Emilia consumato il 17 giugno 1945, non si ritrova traccia e solo dopo qualche tempo le indagini riescono a stabilire che il Calzolari era stato soppresso poco dopo il fatto dai suoi stessi complici nel timore che rivelasse i particolari dell'omicidio; il secondo, sul quale il ministero degli Interni mette una taglia di cento mila lire, riesce a riparare in Jugoslavia e poi a Vienna dove, nel 1949, viene infine catturato.

Al processo, che si svolge alla Corte d'Assise dell'Aquila nel febbraio del 1952, gli imputati si trovano dunque a rispondere di due omicidi, quello di Missere e quello di Calzolari. 37

Durante il dibattimento una testimonianza inchioda i responsabili: certo Canzio Costantini dichiara di aver trovato rifugio, dopo una sua fuga dal carcere, presso l'abitazione di Jaures Cavalieri e di avere appreso da costui che "Missere era stato ucciso con un colpo di rivoltella sulle rive del fiume Secchia"; e che, successivamente, "Alfio Calzolari era stato attirato dagli altri compagni nello stesso punto ove era stato soppresso il Missere, ed era stato pure esso ucciso nel timore che andasse a riferire i nomi degli autori dell'omicidio consumato ai danni del democristiano". 38

Un altro particolare che aggrava la posizione degli imputati è il ritrovamento degli abiti del Missere nel podere di proprietà del Cavalieri: due donne che cercavano tracce di congiunti scomparsi, rinvengono in una buca, a poche settimane dalla scomparsa del giovane, un sacco contenente un paio di scarpe, un vestito grigio a righe ed un impermeabile chiaro. Accertato che non si tratta dei vestiti dei propri parenti, li ripongono nella buca. Quando i carabinieri, su loro indicazione, si recano a cercarli di quegli indumenti non v'è più traccia. Su richiesta del presidente della Corte, le donne riconoscono però con sicurezza un pezzo della stoffa dell'impermeabile che Missere indossava al momento della sua scomparsa.

Anche in questo procedimento, l'avvocato di parte civile Marinucci cerca nella sua arringa di escludere il movente politico del delitto per non consentire agli imputati di rientrare nei benefici della legge di amnistia: "Non si tratta di un delitto politico, ma di un delitto personale per causa privata. Bertoli ordinò ad Alfio Calzolari di uccidere il Missere e gli dette per compenso 34 mila lire; successivamente fece uccidere lo stesso Calzolari da Jaures Cavalieri". Da parte loro, gli accusati negano ogni addebito, mentre la difesa cerca in ogni modo di invalidare la credibilità dei testi.

La Corte accoglie sostanzialmente la tesi accusatoria e condanna a trent'anni Bertoli e Jaures Cavalieri, a ventuno anni Malvezzi, a quattordici Dotti ed il fratello di Cavalieri Moris, limitatamente all'omicidio del Calzolari. 39

b) Giorgio Morelli ("Il solitario")

Il 9 di agosto del 1947 muore ad Arco di Trento il partigiano cattolico reggiano Giorgio Morelli. È la tubercolosi a stroncare la vita di questo giovane di soli 21 anni, ma a quella malattia non è estranea una pallottola sparatagli da ignoti attentatori l'anno prima e che gli ha trapassato un polmone. A procurargli quella ferita sono stati i suoi articoli, a firma "Il solitario", pubblicati sul settimanale "La Nuova Penna". 40 Articoli duri e scomodi che denunciano i numerosi delitti rossi compiuti nel reggiano durante e dopo la Resistenza, indicano i responsabili, chiedono giustizia alla magistratura. Morelli e gli altri redattori de "La Penna", tutti giovani come lui, sono coscienti del pericolo e del fastidio che provocano nel rendere pubblica la verità, ma non si tirano indietro. E i comunisti tentano in ogni modo di fermarli. Tra il 1945 ed il 1946, "La Nuova Penna" è costretta a cambiare per 11 volte tipografia, una di esse l'Age di Reggio viene devastata, numerose edizioni vengono prese dalle edicole e bruciate in piazza. Morelli, partigiano della prima ora, viene definito dai comunisti un "fascista repubblichino", lo si espelle dall'Anpi, gli si nega la qualifica di partigiano. Ed infine, il 27 gennaio 1946, due sconosciuti gli sparano contro sei colpi di pistola mentre rincasa di notte nella sua casa di Borzano. Ma neppure l'attentato attenua la prosa intransigente de "Il solitario", che fino alle ultime settimane di vita prosegue imperterrito nelle sue "Inchieste sui delitti" e gira per le strade di Reggio, a mò di sfida, con indosso l'impermeabile bucato dai proiettili. Solo la morte fa tacere Morelli e mette fine all' esperienza de "La Penna". Per sua espressa volontà, "Il solitario" viene sepolto a Cà Marastoni di Toano, nell'Appennino reggiano, in una cappella dedicata ai partigiani cattolici delle "Fiamme Verdi" caduti in uno scontro a fuoco con i tedeschi nella "Pasqua di sangue" del 1945, a poche settimane dalla Liberazione.

Giorgio Morelli ha appena diciassette anni quando, sul finire del 1943, comincia a collaborare con la Resistenza pubblicando articoli sui "Fogli Tricolore", ciclostilati diffusi a Reggio Emilia che mettono "in allarme le autorità della Rsi e che incoraggiano alla Resistenza passiva e a quella armata". In questi frangenti stringe amicizia con un altro partigiano cattolico Eugenio Corezzola ("Luciano Bellis"), di tendenze liberali, inaugurando il sodalizio da cui successivamente nascerà "La Penna". I due si ritrovano in montagna, partigiani delle Brigate Garibaldi e rimangono sfavorevolmente impressionati dal settarismo politico dei comunisti e dagli eccessi di violenza con cui conducono la lotta armata. Sfuggito miracolosamente alla cattura, "Il solitario" entra nella 284esima Brigata "Italo" delle "Fiamme Verdi", una formazione, comandata dal sacerdote don Domenico Orlandini ("Carlo"), in gran parte composta da partigiani democristiani o comunque cattolici. 41 Nel marzo del 1945, su proposta di Morelli e di Corezzola, e d'accordo con Giuseppe Dossetti, le "Fiamme Verdi" danno vita ad un loro foglio clandestino che si chiamerà "La Penna". Questo settimanale, che uscirà in soli quattro numeri prima della Liberazione, è quasi per intero redatto da Morelli e Corezzola. Negli articoli ricorre un tema caro alla Resistenza cattolica: la lotta di Liberazione come strumento ed esempio del riscatto morale e civile del paese precipitato nella tragedia del fascismo, prima ancora che come lotta armata, come fatto puramente politico o militare. "Voi sapete - scrivono nel primo numero uscito il 1 aprile del 1945 - con quale intento è sorta nell'estate scorsa la nostra Brigata: appunto quello di dare vita ad un blocco di energie giovanili, non solo fermamente decisa a portare per la lotta comune per la liberazione dell'Italia, un contributo d'azione e d'entusiasmo, ma anche ben convinta che tale contributo sarebbe sempre di scarso valore, se non fosse accompagnato da un deciso sforzo di resurrezione morale, individuale e collettiva. Questo era il nostro proposito; quello di combattere con la medesima fermezza l'oppressore della nostra terra, il distruttore delle nostre case, il torturatore dei nostri fratelli, il violatore delle nostre libertà ed insieme combattere in noi stessi ogni deviazione, ogni debolezza, ogni germe di male morale, si da far distinguere la nostra Brigata per la sua disciplina, il suo tono".

Il giorno della Liberazione di Reggio, il 24 aprile 1945, Giorgio Morelli, è il primo partigiano della montagna ad entrare in città su di una bicicletta avuta in prestito da Ermanno Dossetti. La guerra contro i nazifascisti è finita ma non è conclusa la battaglia per la libertà. Cominciano anche nella provincia di Reggio Emilia le esecuzioni sommarie, il dilagare dei delitti a sfondo politico, le prepotenze e le intimidazioni dei comunisti. Morelli, ed insieme a lui Corezzola ed altri, sentono compromessi gli ideali di libertà e di giustizia per i quali si sono battuti, avvertono la necessità di reagire, di fare qualcosa. Nasce così, a partire dall'ottobre 1945, il "settimanale indipendente" "La Nuova Penna", che anche nel nome vuole dare continuità con la precedente esperienza partigiana dei redattori. Caratteristica peculiare del giornale è la sua indipendenza politica, anch'essa orgogliosamente rivendicata in continuità con la loro precedente militanza partigiana in cui avevano rifiutato ogni coloritura partitica in contrapposizione all'esasperata politicizzazione delle formazioni comuniste.

Morelli è democristiano, come la gran parte dei collaboratori, Corezzola è liberale, ma non vi è alcun ossequio a direttive di partito, fatto questo che provocherà a "La Nuova Penna" una certa presa di distanze - almeno a livello ufficiale - anche da parte della Dc, impegnata in quel momento nella difficile gestione unitaria dei Cln. 42 Sarà però sempre loro accanto il comandante delle "Fiamme Verdi" don Domenico Orlandini, che sovvenzionerà con offerte il settimanale e pubblicherà anche qualche articolo. Successivamente Corezzola ha definito "La Nuova Penna" "un autonomo ed interessante fenomeno cattolico-liberale che, seppure ignorato, confutato, avversato dalle organizzazioni partitiche ufficiali, fu l'unica forza effettivamente in grado di contrastare l'ipoteca comunista sulla Resistenza armata". 43 E in effetti, nonostante tutte le accuse mosse dai comunisti, "La Nuova Penna" non rinnega nulla dei valori autentici della Resistenza, ma anzi afferma esplicitamente di condurre la propria battaglia in nome di essi per impedire che vengano confusi o deturpati dagli atti di delinquenza e di banditismo compiuti dai comunisti.

Gli articoli de "Il solitario" sono duri, precisi, documentati e partono dall'inchiesta sulla misteriosa morte, avvenuta nella Pasqua del 1945, di un suo intimo amico della lotta partigiana, il vicecomandante della 76esima Brigata Sap, Mario Simonazzi ("Azor"), il cui corpo viene ritrovato nell'agosto 1945 con un foro di pallottola alla nuca. L'inchiesta su "Chi ha ucciso Azor?" prosegue per tre numeri del giornale e suscita un vespaio di polemiche. 44

Senza fare in nomi, "Il solitario" addita i comunisti come mandanti dell'uccisione. Essi avversavano il cattolico "Azor" perchè era politicamente indipendente e non condivideva i loro metodi violenti e settari. Di seguito Morelli, si occupa di un'altra "vittima dell'odio": don Giuseppe Iemmi, parroco di Felina, trucidato il 19 aprile 1945, a pochi giorni dalla Liberazione. Rievoca il suo calvario e fa i nomi dei "garibaldini" uccisori: "Briano", "Aspro", "Vulcano"... 45 In un altro articolo riferisce dell'uccisione di don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo, ucciso il 18 agosto del 1944, anche questa volta da partigiani comunisti. 46 Per questo delitto "Il solitario" chiama direttamente in causa come mandante l'incontrastato capo del Pci reggiano del tempo, "Eros", ovvero Didimo Ferrari.

E la reazione di "Eros" non si fa attendere: i partigiani de "La Nuova Penna" vengono espulsi dall'Anpi. Per tutta risposta "Il solitario" risponde al dirigente comunista sulla colonne del giornale con un editoriale fiero e provocatorio dal titolo: "Eros per chi suonerà la campana?". "La nostra espulsione dall'Anpi, da te ideata, è per noi un profondo motivo d'onore", scrive Morelli. "Ad ogni modo, permetti, Eros, che l'opinione pubblica sappia quali sono i veri motivi della tua decisione. Il lavoro che stiamo svolgendo dalla Liberazione ad oggi è per te e i tuoi compagni un grave intralcio all'attuazione dei tuoi propositi. La nostra voce che chiede libertà ed invoca giustizia è una voce che ti fa male e ti è nemica. (...) Noi abbiamo semplicemente chiesto che tra i patrioti veri della resistenza più non avessero a rimanere i delinquenti comuni, i ladri di professione, gli uomini dalle mani sporche di sangue innocente. Abbiamo chiesto giustizia per le vittime ed abbiamo voluto, come vogliamo ancora, che sia ridato intero l'onore all'ideale della nostra lotta. Comprendiamo bene che l'atto da te compiuto - continua "Il solitario" nell'articolo - ha il segreto scopo di additarci all'odio dei tuoi fedeli per incitarli a compiere il fatto di sangue. (...) Eros, puoi attuare il tuo piano come e quando ti fa comodo. Ricordati però che quello che noi sappiamo di te e del tuo passato, rimarrà; anche quando non ci saremo. E rimarranno gli amici che come noi, chiederanno giustizia e parleranno". 47

Poche settimane prima di scrivere questo articolo Morelli aveva subito l'attentato che lo porterà a morire. Ma non per questo rinuncia a scrivere con un coraggio temerario, e sfidando apertamente i suoi avversari, con la stessa prosa tagliente e precisa. Nel corso del 1946, denuncia l'uccisione dell'industriale di S. Ilario d'Enza Giuseppe Verderi, di don Giuseppe Pessina48, delle fosse comuni di Campagnola, del capitano Ferdinando Mirotti, del sindaco socialista di Casagrande Umberto Farri. 49 Sono gli stessi delitti che sono tornati agli onori della cronaca dopo il "Chi sa parli" di Otello Montanari.

Due giorni prima di morire annota nel suo diario queste parole che hanno il valore di un testamento spirituale: "Ho una tristezza infinita nell'anima (..) Quasi un presentimento che debba avvenire qualcosa di inatteso, di acerbo. Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l'alba di domani. Non mi spaventa la morte. Mi è amica, poiché da tempo l'ho sentita vicina, in ore diverse: sempre bella. Nell'istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia: quella di aver poco donato (...) Oggi, la mia confessione ultima sarebbe questa: l'odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in Dio, perché la sua fede è stata la sola ed unica forza che mi ha sorretto". 50

c) Giuseppe Fanin

È la sera del 4 novembre 1948 a San Giovanni in Persiceto, un comune della pianura bolognese ai confini con la provincia di Modena. Giuseppe Fanin sta rientrando in bicicletta alla sua abitazione dopo aver fatto visita alla fidanzata. Il matrimonio è già programmato per la primavera successiva, ma i progetti del giovane non avranno futuro. C'è nebbia sulla via Biancolina, non c'è illuminazione e a quell'ora - sono all'incirca le 22 - passano pochi pedoni e biciclette. Il luogo ideale per un agguato. Fanin vede solo all'ultimo momento i tre individui che gli sbarrano la strada e lo fanno cadere. Tenta disperatamente di difendersi ma non può fare nulla contro la gragnola di colpi inferti con una spranga di ferro che lo colpiscono ripetutamente alla testa. Per uccidere. Si accascia al suolo privo di conoscenza. Gli assalitori, compiuta la "missione", tornano a scomparire nella notte. Passano venti minuti prima che un passante ritrovi il corpo di Fanin agonizzante e dia l'allarme. I soccorsi sono inutili: le ferite alla testa sono troppo gravi perché i medici possano fare qualcosa. Il giovane muore dopo poco all'ospedale. 51

Ma chi è Giuseppe Fanin per essere oggetto di tanto odio? È un giovane ventiquattrenne, laureato in agraria, attivo militante della Fuci, pieno di energia e vita, come tanti. Ma è anche e soprattutto un sindacalista, un mestiere che ha scelto per essere più vicino alla terra che ama. La sua è una famiglia numerosa - è il terzo di otto figli - di origine veneta e profondamente cattolica, che si è trasferita a San Giovanni nel 1910 dopo aver acquistato un podere in località Tassinara di circa 40 ettari. Fanin è segretario provinciale delle Acli-terra e come tale si occupa delle vertenze agrarie, una materia incandescente in quei tempi in cui si scontrano frontalmente due concezioni opposte: da un lato i comunisti che spingono per la collettivizzazione delle terre - "la terra non si compra, si conquista" è il loro slogan - dall'altro i democristiani che si battono per l'estensione delle proprietà coltivatrice e per la compartecipazione. Una situazione resa ancor più tesa dalla scissione della Cgil e dalla costituzione dei sindacati liberi che rompono l'egemonia comunista sul fronte sindacale. 52

E Fanin è tra i sindacalisti bianchi uno dei più attivi e quindi pericolosi agli occhi dei comunisti. Sa stare tra la gente, ascoltarne i problemi, attira consenso ai sindacati liberi. Ha messo a punto proprio in quelle settimane un progetto di patto agrario basato sulla compartecipazione dei braccianti ai frutti del loro lavoro, "per strappare questi dalla loro condizione di salariati e insieme da quella di organizzati nel chiuso sistema di "collettivi" di tipo sovietico". Il 7 novembre dovrebbe tenere al convegno dei sindacalisti cattolici di Molinella proprio una relazione sul nuovo patto agrario.

Fanin è dunque un bersaglio scelto non a caso: attraverso di lui si colpisce tutto il coerente impegno dei cattolici in campo sociale diretto a promuovere l'emancipazione dei lavoratori al di fuori delle scontro sociale e all'interno delle regole democratiche. Va osservato che alla fine 1948 gli eccidi indiscriminati del post Liberazione sono ormai un ravvicinato quanto terribile ricordo (solo nella zona di San Giovanni in Persiceto nel 1945 vengono uccisi due sacerdoti: don Enrico Donati, arciprete di Lorenzatico, e don Alfonso Reggiani, parroco di Amola di Piano). Da quasi due anni ormai lo stato e la polizia di Scelba hanno ripreso il controllo della situazione. L'ordine pubblico è stato rafforzato, gli organi di polizia riorganizzati ed aumentati, gli assassini del "biennio di sangue" cominciano ad essere arrestati e processati. Ma ciononostante il clima politico-sociale continua a rimanere pesante, soprattutto nelle campagne, e si inasprisce con la vittoria della Dc nelle elezioni del 18 aprile. Essa infatti provoca "una rabbiosa volontà di recupero da parte dei socialcomunisti per riaffermare la loro supremazia in tutta l'area provinciale", che porta breve all'instaurazione di un stato di "terrorismo ideologico" nei confronti dei partiti democratici, attraverso il ripetersi di "scioperi, di agitazioni, di interminabili cortei di lavoratori e di lavoratrici della terra da un paese all'altro, di tumulti e minacce senza fine". 53 Il 18 ottobre alla Camera dei deputati viene discussa un'interpellanza presentata dagli onorevoli Bersani, Casoni, Manzini e Salizzoni al ministro degli Interni "per denunciare la grave situazione determinatasi in provincia di Bologna per la violenta azione persecutoria esercitata dai social-comunisti e delle Camere del lavoro, per impedire la libera costituzione di nuovi organismi sindacali democratici, azione che ha condotto a numerosi episodi di violenza fisica e morale, come nei comuni di Castel San Pietro, Ozzano e Santa Agata ed ha
determinato, in larga parte della provincia, una situazione che impedisce l'esercizio degli elementari diritti dei cittadini e crea un clima intollerabile di intimidazione e di minaccia". 54

I sindacalisti bianchi sono particolarmente nel mirino, additati per nome al pubblico disprezzo. Fanin è tra essi. Solo due settimane prima della sua uccisione, la Camera del Lavoro-Lega braccianti di San Giovanni in Persiceto diffonde un volantino del seguente tenore: "Lavoratori dei campi e delle officine! La mano ossuta degli agrari appoggiata dagli organi di Governo, stretta a quella dei servi sciocchi tipo Fanin, Bertuzzi e Ottani (gli ultimi due sono i segretari delle sezioni dc rispettivamente di S. Giovanni e di Decima ndr), tenta di stendersi di nuovo rapace nelle nostre campagne per dividere i lavoratori e instaurare un regime di sfruttamento e di oppressione poliziesca di tipo fascista". 55

Il delitto suscita scalpore ed emozione in tutto il paese:56 al funerale partecipano migliaia di persone provenienti da molte regioni. La matrice politica è più che evidente, così come l'ambiente politico nel quale è maturato. La Democrazia cristiana di Bologna prende una posizione durissima in cui, dopo aver sottolineato che Fanin è stato vittima "della violenta campagna di odio e di manifesta istigazione al delitto provocata e voluta dai dirigenti sindacali social-comunisti", reclama che le autorità competenti infrangano "il giogo di terrore che i social-comunisti tentano di imporre fra le nostre case", ed auspica che tutti gli onesti insorgano "a far da barriera perchè la sanguinosa catena di violenze e delitti sia senz'altro spezzata". 57 La Federazione comunista bolognese respinge però ogni addebito affermando che la barbara uccisione "contrasta con i costumi civili che sempre, nella nostra provincia, hanno improntato le lotte dei lavoratori". 58 I comunisti hanno anzi l'impudenza di arrivare ad insinuare che il delitto è stato ordito all'interno delle Acli di S. Giovanni: "Mercoledì scorso, alle Acli, vi fu una riunione tempestosa. Era presente il dottor Fanin? Non sappiamo. Sappiamo solo che ventiquattro ore dopo il dottor Fanin veniva assassinato". 59 Ma la campagna di menzogne dietro la quale i comunisti tentano di celare la vera natura del delitto, si spinge oltre. Prendendo spunto da una frase attribuita, ma subito smentita, all'on. Giulio Pastore fondatore dei sindacati liberi - secondo cui vi erano persone pronte a recarsi a San Giovanni per vendicare l'omicidio di Fanin - la stampa comunista scrive a tutta pagina che "con l'appoggio dei dirigenti democristiani si organizzano squadre di terroristi" e afferma l'esistenza di "squadracce nella nostra provincia, bene armate e pronte a seminare violenza e morte tra i lavoratori". 60

Passano pochi giorni e la verità viene a galla. In un primo tempo i carabinieri, indagando negli ambienti del Pci e della Camera del Lavoro di S. Giovanni, fermano 17 persone su cui gravano i maggiori sospetti; tra esse vi è il segretario del Pci del luogo Gino Bonfiglioli, operaio canapino. Gli indiziati vengono però messi in libertà per mancanza di prove. Pochi giorni dopo, in seguito a nuove ed accurate indagini, il Bonfiglioli viene nuovamente fermato e nel giro di poche giorni crolla di fronte agli interrogatori e confessa di essere l'organizzatore del delitto. Agli inquirenti fa i nomi dei tre esecutori: Gian Enrico Lanzarini, Indro Morisi e Renato Evangelisti, tre giovani braccianti. L'arresto degli assassini scatta la notte del 24 novembre. Nello stesso momento l'on. Giancarlo Pajetta sta tenendo un comizio nel Teatro comunale di San Giovanni in cui lancia invettive contro il prefetto che "si sente in dovere di smentire le parole d'un certo Pastore e di smentire l'esistenza dei dinamitardi e permette invece che degli innocenti vengano maltrattati senza colpa". 61 "Gli assassini non bisogna certo cercarli in mezzo a voi; ben sappiamo dov'è che si educa all'odio". Ma Pajetta non sa che Lanzarini ha già vuotato il sacco, come non lo sanno Lanzarini e Morisi che sono presenti e si spellano le mani nell'applaudire l'onorevole comunista. Nel giro di un paio d'ore sono anch'essi in galera, rei confessi. 62

Sulla via Biancolina, nel punto in cui Fanin cadde è stato eretto un cippo che porta scolpite queste parole: "La strada bagnata dal sangue porta sicura alla meta".

NOTE

34 Carlo Testa resta mortalmente ferito da una raffica di mitra mentre a bordo della sua "topolino" sta percorrendo un viottolo di campagna. Nelle stessa circostanza rimangono feriti don Giuseppe Boselli, presidente del Cln di Bomporto, ed un maresciallo dei carabinieri che viaggiano con lui. Pur rimanendo sconosciuti gli autori dell'agguato, la scomparsa di Testa viene messa in relazione all'uccisione di sette fascisti mirandolesi (il senatore Enrico Tabacchi ed il figlio Ferdinando, Mario Ceschi, Domenico Paltrinieri, Glauco Spezzani, Gino Malaguti e Giulio Castellini) avvenuta pochi giorni prima nei pressi di Bomporto su di un camion che li sta trasportando a Modena dove devono essere interrogati. Testa, medico di professione, viene chiamato a stilare il referto di morte e probabilmente viene a conoscenza dell'esatta dinamica della strage e della sua natura premeditata che contrasta con quella ufficiale dei partigiani della scorta, i quali asseriscono di aver sparato perché aggrediti dai prigionieri. Cfr. "Gazzetta di Modena, 1 luglio 1949.
Antonio ed Ettore Rizzi vengono prelevati di notte dalla loro abitazione di Redù di Nonantola ed uccisi in un campo a pochi chilometri di distanza. Ettore Rizzi durante la Resistenza ha militato nel servizio informazioni (Sim) delle Brigate partigiane cattoliche "Italia", e successivamente viene nominato dalla Dc quale proprio rappresentante in seno alla Commissione provinciale per l'alimentazione (Sepral). Il fatto suscita grande emozione in tutta la provincia. Il Cln provinciale di Modena scrive immediatamente una lettera di cordoglio alla vedova di Ettore Rizzi: "Un delitto atroce ed orribile ha spento una generosa vita che tanto aveva dato con entusiasmo, disinteresse e decisione alla causa di liberazione e con quella generosa vita è pure stata stroncata quella del padre". "L'Unità Democratica", 7 luglio 1945. Nel 1947 si svolge un processo, a carico di certo Raul Dal Vacchio, che finisce con un'assoluzione per insufficienza di prove. Cfr. "Gazzetta di Modena", 15 luglio 1947.
Chiaro è il movente dell'assassinio di Bruno Lazzari e di Giovanni Zoboli, consumato in pieno giorno a Ponte Fosco, sulla strada che da Nonantola porta a Bologna. Lazzari e Zoboli stanno infatti recandosi a Bologna in bicicletta per consegnare una denuncia sulle gravi irregolarità compiute da esponenti comunisti in seno all'ufficio materiali abbandonati dai tedeschi di Nonantola. La cartella che contiene la relazione, stesa dallo Zoboli, viene sottratta dagli assassini prima della fuga. Nel 1952 si arriva al processo contro i presunti responsabili, ma anch'esso si conclude con un'assoluzione generalizzata per insufficienza di prove. Nel corso del dibattimento si assiste ad una sequela di ritrattazioni, false deposizioni, alibi artefatti, testimoni reticenti ed impauriti. La pubblica accusa osserva che "a Nonantola si sa quali siano stati gli autori di questo duplice delitto ma si tace perché c'è una cortina di omertà". Cfr. "Gazzetta di Modena", settembre-ottobre 1952.

35 Sulla figura di Missere cfr. Germano CHIOSSI, Emilio Missere nel quarantesimo anniversario della scomparsa, a cura della sezione "E. Missere" della Democrazia cristiana di Modena, Modena, 1985.

36 L'ipotesi di un collegamento tra la soppressione dei cinque fascisti e l'assassinio di Missere è ventilata in "Gazzetta di Modena", 2 luglio 1947.

37 "Gazzetta di Modena", 14 febbraio 1952

38 Sui particolari della scomparsa di Missere citati nel testo cfr. i resoconti processuali in "Gazzetta di Modena", febbraio-marzo 1952. "Alla vigilia del processo - scrive la Dc provinciale in una nota - che, rievocando il nome e la memoria di Emilio Misere, fa rivivere le ore di dolore e di martirio dei primi che si batterono per l'Idea e per il ritorno della legalità contro l'odio e la violenza, sostituiti all'arbitrio criminoso di singoli all'autorità della Legge, la Dc modenese sentendosi moralmente parte civile nel processo stesso, attende il sereno responso della Giustizia non per brama di vendetta, ma quale monito severo a chi tale Giustizia agognasse ancora lo scempio". "Gazzetta di Modena", 14 febbraio 1952.

39 Il sacrificio di Emilio Missere, a cui è stata intitolata una sezione cittadina, è stato ricordato in numerose circostanze dalla Democrazia cristiana modenese. Cfr. CHIOSSI, op. cit., pp 22-23.

40 Per tutta la vicenda de "La Penna" e "La Nuova Penna" cfr. Ercole CAMURANI, Eugenio COREZZOLA (a cura di), La Penna, Roma, s. d. (ma 1966). Il volume contiene la ristampa anastatica di tutte i numeri del periodico ed un'introduzione (pp. VII-XXVIII) di Corezzola.

41 Sulle "Fiamme Verdi" reggiane cfr. don Luca PALLAJ, Le Fiamme Verdi delle Brigata Italo, Reggio Emilia, 1970 (in cui è contenuta - pp. 223-227 - anche una rievocazione di Morelli) e Associazione Liberi Partigiani Italiani (a cura della) , Memoriale di "Carlo", Reggio Emilia, 1983.

42 Su "La Nuova Penna" del 24 maggio 1946 interviene Pasquale Marconi, nel periodo clandestino Vice Commissario generale del Comando Unico delle forze partigiane reggiane in rappresentanza della Democrazia cristiana. Marconi, che sarà a lungo deputato, durante la Resistenza aveva duramente polemizzato con "Eros" circa il funzionamento del Tribunale partigiano e sulle esecuzioni sommarie dei prigionieri praticate dai comunisti. Chiamato indirettamente in causa dalla redazione de "La Nuova Penna" sulla responsabilità delle uccisioni avvenute durante il periodo clandestino, l'esponente democristiano descrive i suoi interventi per mitigare i metodi violenti dei comunisti e le minacce ricevute da "Eros" che "in un eccesso d'ira insorse, minacciandomi di fare la stessa fine dei fascisti, che secondo lui difendevo". Al tempo stesso però rivolge ai giovani del giornale un invito alla moderazione nelle loro inchieste sui delitti: "E' fuor di dubbio che la bellezza della causa partigiana, se è stata illustrata da tanti eroismi e da tanti sacrifici, è stata anche macchiata da delitti e da speculazioni, che per il buon nome di tutti non devono essere nascosti bensì deplorati. Ma, se è giusto che, dove è necessario, si faccia luce e giustizia, non è bene rimescolare continuamente tutto quello che vi può essere stato di marcio: rischieremmo di essere ingiusti verso quello che vi è stato di bello e rischieremmo soprattutto di perdere di vista l'avvenire, che deve sorgere dalle rovine materiali e morali del passato, fascista e non fascista".

43 CAMURANI, COREZZOLA, op. cit., p. IX.

44 L'inchiesta "Chi ha ucciso "Azor"? viene pubblicata a puntate su "La Nuova Penna" il 10 novembre 1945, il 14 dicembre 1945 ed il 31 gennaio 1946.

45 "La Nuova Penna", 21 febbraio 1946. Come testimonia Morelli, don Jemmi simpatizzava e collaborava con il movimento partigiano. La causa della sua morte fu dovuta alla disapprovazione fatta pubblicamente in Chiesa per l'uccisione immotivata di due innocui fascisti.

46 "La Nuova Penna", 24 maggio 1946. Don "Carlo" chiese ripetutamente ad "Eros" che venissero individuati e puniti gli assassini del sacerdote senza peraltro ottenere alcun risultato. "Il Solitario" respinge decisamente le voci che tratteggiano don Ilariucci come una spia e lo definisce "una figura di eroe della nostre resistenza, caduto per vili mani comuniste".

47 "La Nuova Penna", 20 aprile 1946.

48 "La Nuova Penna", 28 giugno 1946. Per il delitto don Pessina "Il Solitario" denuncia apertamente l'esistenza di un'unica organizzazione politica responsabile di questi crimini. E' stato necessario quasi mezzo secolo per appurare come Morelli avesse visto giusto quando scriveva: "Chi ha dato l'ordine di ucciderlo? Lo si sarebbe potuto sapere all'indomani stesso, ma troppi hanno paura. Sì, paura. Perché con le prove che l'autorità ha in mano si può scoprire tutto. Tutto. Non soli delitto di S. Martino di Correggio, ma anche gli altri; i precedenti. Perché l'ordine di soppressione parte sempre dallo stesso punto. Perché l'organizzazione è sempre la stessa. Perché oltre agli autori materiali dell'omicidio ci sono gli indicatori, i pali, i ricettatori, i mandanti. Ed è un'organizzazione politica".

49 "La Nuova Penna", 18 maggio 1947.

50 PALLAJ, op. cit., pp. 226-227.

51 Sulla figura di Giuseppe Fanin cfr. Alessandro ALBERTAZZI (a cura di), Per Giuseppe Fanin 1924-1948. Documenti, Bologna, 1987 e s. a, Giuseppe Fanin, Bologna, 1949.

52 Sulla situazione economico-sociale nelle campagne negli anni del dopoguerra cfr. AA. VV., La ricostruzione in Emilia-Romagna, Parma, 1980, e le note di ALBERTAZZI in Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 123-153.

53 Giovanni ELKAN, Giuseppe Fanin nel clima del '48 bolognese, cit. in Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 53-54.

54 Per il dibattito relativo all'interpellanza, cfr. Per Giuseppe Fanin, cit., pp. 51 e ss.

55 "Giornale dell'Emilia", 6 novembre 1948.

56 L'omicidio di Fanin dà luogo ad un intenso dibattito parlamentare che si svolge alla Camera tra il novembre ed il dicembre 1948. Cfr. Per Giuseppe Fanin, cit. pp. 65-123.

57 "Giornale dell'Emilia", 6 novembre 1948

58 "Il Progresso d'Italia", 6 novembre 1948.

59 "Giornale dell'Emilia", 26 novembre 1948.

60 Cfr. "La Lotta", 15 novembre 1948 e "Giornale dell'Emilia", 16 novembre 1948. La Democrazia cristiana bolognese replica a queste accuse con un comunicato in cui dichiara che la "speculazione comunista è destinata ad esaurirsi nel compatimento della cittadinanza" in quanto "è chiaro come si tenta di rovesciare le posizioni e di capovolgere la verità: allontanare da sè la condanna morale che la coscienza pubblica ha già pronunciato per la propaganda che il partito comunista ha fatto e fa quotidianamente".

61 "Il Progresso d'Italia", 25 novembre 1948.

62 Bonfiglioli verrà condannato a venti anni di reclusione come Lanzarini. Quindici anni saranno irrogati a Morisi ed Evangelisti. La pena sarà scontata solo parzialmente grazie ad un indulto facilitato dal perdono della famiglia Fanin.

Bologna 1991