Un testimone della resistenza dei prigionieri italiani in Russia (2)

1- Il 3° Reggimento Bersaglieri in Russia inquadrato nella Divisione Celere Principe Amedeo Duca d’Aosta

2- Nei lager di Stalin

I prigionieri venivano rapidamente allontanati dalla linea del fronte, per evitare che potessero in qualche modo ricongiungersi ai reparti d’appartenenza ancora in ritirata, e perciò erano subito avviati a piedi verso le stazioni ferroviarie dell’interno. Le marce interminabili costituirono la prima causa di mortalità fra i soldati italiani, già stremati dalla fatica e dal freddo, non pochi feriti in combattimento o con gli arti in principio di congelamento come conseguenza delle operazioni di guerra. Rimarranno per sempre nelle orecchie degli scampati le grida “ davai bistrà” (“avanti presto”) con cui i russi li incalzavano continuamente affinché non perdessero il ritmo della marcia. Giunti alla ferrovia, gli italiani furono stipati su convogli bestiame che presero direzioni diverse, con viaggi di durata variabile da una settimana a dieci-dodici giorni. Anche durante i trasferimenti i prigionieri erano sfamati ben meno del minimo necessario e non era concesso loro di bere se non in occasione degli scali alle stazioni di transito.
Studi recenti, a opera dell’Unirr, hanno stimato che nel corso della ritirata 70.000 soldati italiani furono catturati dai russi; tra essi almeno 22.000 morirono durante le marce e i trasferimenti di quei primi mesi di custodia e a causa delle condizioni di emergenza in cui si trovavano sia i prigionieri che i guardiani non furono neppure censiti; degli altri 48.000 che giunsero nei campi di prigionia, soltanto 10.000 (appena uno su cinque) riuscirono a sopravvivere e a ritornare finalmente in patria. Gli scampati alla prigionia costituirono complessivamente il 14% del totale dei catturati17.
La Russia disponeva di una quantità enorme di lager e i prigionieri di guerra italiani (in numero relativamente esiguo rispetto a quelli di altre nazioni) furono internati in oltre un centinaio di campi distribuiti su tutto il territorio sovietico; in tal modo si provocò una dispersione degli italiani, sovente ridotti a una decina appena per campo, che mise i prigionieri in gravi difficoltà, soprattutto se si tiene conto anche dell’inevitabile deterioramento dei rapporti con gli ex-alleati tedeschi e rumeni dopo l’8 settembre. Tutti i lager avevano originariamente una funzione ben diversa rispetto a quella dell’accoglienza di prigionieri, e non avevano subito alcun riadattamento; perciò specialmente nei primi mesi la mortalità nei campi di smistamento fu elevatissima. Non è senza fondamento l’affermazione contenuta nel libretto polemico Russia stampato nel 1948 da un gruppo di agguerriti reduci appena rimpatriati: “Krinovaja – Micurinsk – Tambov, nessuno ne parla, ma erano peggiori di Majdanek – Buchenwald – Mathausen che tutto il mondo conosce” 18.
Il Campo n. 188 di Tambov, situato nel mezzo d’un bosco nei pressi di piste di atterraggio per gli aerei, era quasi completamente sotterraneo: i prigionieri venivano ammassati all’interno di bunker inabitabili, lunghi 15-20 metri e larghi non più di quattro, profondi due metri e del tutto privi di illuminazione e ventilazione, con il tetto fatto di rami, fronde e zolle di terra; in ciascuna baracca trovava posto una cinquantina di prigionieri delle più diverse nazionalità, cosicché era anche difficile
capirsi. All’intorno c’era soltanto il bosco, mentre dentro ai vani interrati si aveva la sensazione di essere sepolti vivi. In questo Campo, nei soli primi sei mesi del 1943, trovarono la morte 6.909 degli 8.197 militari italiani complessivamente qui deceduti. Struttura analoga aveva il Campo n. 56 di Ucostoje, nella provincia di Micurinsk: rimasto funzionante per soli quattro mesi, nel periodo gennaio-aprile 1943, poté contare la morte di 4.344 prigionieri italiani appartenenti al Corpo d’Armata Alpino.
Il Campo n. 81 di Krinovaja era stato invece ricavato da una vecchia caserma di cavalleria, le cui scuderie in disuso erano state adibite ad alloggi per i prigionieri. Nella più totale privazione di servizi igienici, ogni box originariamente destinato a un cavallo doveva alloggiare un numero eccessivo di soldati che raggiungeva anche le venticinque persone. In tal modo i prigionieri si ritrovavano costretti a stare in piedi, senza alcuna possibilità di sdraiarsi o sedersi per dormire, o addirittura gli uni in braccio agli altri; provvedeva poi la morte a liberare spazio nel corso della nottata. Tale campo ebbe senza dubbio la percentuale di mortalità più elevata, al punto che per l’evacuazione dei cadaveri si usava legare i corpi gli uni agli altri facendoli trascinare fuori dai muli. La penuria di nutrimento che si verificò in questo lager, secondo le testimonianze concordanti di molti reduci, indusse taluni prigionieri all’antropofagia: dopo aver pazientemente atteso il decesso dei moribondi, i disperati vi si avventavano sopra per lacerarne il corpo ed estrarne gli organi interni, senza peraltro che i commilitoni più sensibili riuscissero a ostacolarli nel loro intento. Le condizioni complessive erano tali che il colonnello degli Alpini Luigi Scrimin, comandante del 2° Reggimento, avanzò inutilmente al comandante del Campo una richiesta (rimasta ovviamente inascoltata) che non mi risulta sia mai stata fatta in nessun altro lager sovietico o nazista: la fucilazione per lui e per i suoi soldati.
Quelli appena menzionati furono senz’altro i lager peggiori, la cui funzione di prima raccolta e smistamento dei prigionieri, ancora nel pieno delle operazioni di guerra, spiega in parte le deficienze; perciò le condizioni infernali che la memorialistica descrive, e che i dati sui decessi confermano, non devono applicarsi indistintamente a tutti i campi di prigionia esistenti nell’Urss. Né va dimenticato che i prigionieri che giungevano nei lager erano stremati non solo dalle “marce del davai” ma anche da mesi di combattimenti durissimi e, in molti casi, dai chilometri già percorsi nel tentativo di ritirata. È tuttavia un dato di fatto che l’organizzazione dei Campi fu nella generalità dei casi completamente diversa da quanto prescrivevano le direttive emanate dal governo sovietico, quasi ineccepibili sulla carta e formalmente in linea con le convenzioni internazionali dell’Aja sul trattamento dei prigionieri di guerra, ma totalmente inapplicate19. La mortalità rimase quindi elevata anche nei campi di prigionia veri e propri, quelli che avrebbero dovuto presentare strutture più adeguate e “definitive” al ricetto degli uomini tenuti sotto la custodia dell’Urss: del resto la penuria di tutto, dall’alimentazione ai farmaci e alle dotazioni mediche, rispecchiava le condizioni di povertà e di arretratezza in cui si trovava la popolazione civile e che non potevano certamente essere imputate soltanto alla guerra. Gli stessi provvedimenti igienici assunti dalle autorità sovietiche contribuivano ad aumentare la mortalità: ricorre spesso nella memorialistica l’episodio del “bagno”, che per il brusco passaggio dalla temperatura altissima a una freddissima, e per l’esposizione dei prigionieri ancora svestiti al rigore invernale, si trasformava in uno spietato metodo di eliminazione dei più deboli. Anche il lavoro a cui furono costretti o indotti per fame i prigionieri – dal taglio della legna a lavori agricoli, dalla raccolta del cotone a lavori di officina – divenne una forma di logorio del fisico che procurò incidenti e mutilazioni. Va ricordato che gli ufficiali non avrebbero dovuto lavorare, ma nel Campo 160 per l’intero inverno 1945-’46 quaranta ufficiali svolsero per libera scelta questa attività lavorativa a beneficio dei colleghi; questo il testo dell’encomio solenne conferito loro dal Ministero della Difesa nel dopoguerra:

Prigioniero di guerra, al fine di alleviare le sofferenze degli altri prigionieri si offriva volontariamente per il traino giornaliero di slitte cariche di legna da ardere, effettuando nella steppa, per tutto l’inverno 1945-1946, un percorso complessivo di circa chilometri 2.700. Tale immane fatica, ostacolata da proibitive condizioni atmosferiche, sopportata con stoica perseveranza, diede i suoi frutti determinando la possibilità di resistenza dei prigionieri durante l’inverno.

Il Campo n. 160 di Suzdal’, a circa 300 chilometri a nord-est di Mosca, comandato dal colonnello Krastin, dall’ottobre ’43 fu destinato all’internamento degli ufficiali di tutte le nazionalità. La struttura aveva sede nell’ex monastero del Salvatore e di Eufemio le cui celle erano state adibite a carceri per i prigionieri: in uno spazio di tre o quattro metri per sei trovavano sistemazione una ventina di reclusi. Per la loro qualità di ufficiali (ma più verosimilmente per evitare che con la loro predicazione ostacolassero la propaganda comunista) anche i cappellani militari furono raccolti a Suzdal’: tutti e otto, al seguito del loro capogruppo don Enelio Franzoni, presentarono al comandante un’istanza (scritta col permanganato messo a disposizione dal tenente medico Reginato) per potere essere inviati nei campi dei soldati a prestare la loro opera di assistenza religiosa e morale dove più c’era bisogno; la richiesta fu respinta e i cappellani rimasero a Suzdal’, dove celebrarono la messa con un camice e una pianeta realizzati con lenzuola sottratte dal magazzino e decorate con la fodera delle giubbe grigioverdi e con la stoffa di una bandiera rossa: il calice (piccolo e smontabile per trovare più facilmente un nascondiglio) era stato realizzato in legno di betulla intagliato da un soldato, mentre don Carlo Caneva otteneva le ostie schiacciandole sotto il ferro da stiro20.
Oggi il complesso di edifici ecclesiastici di Suzdal’ è meta di turisti da tutto il mondo e la cattedrale della Natività della Vergine (risalente ai secoli XI-XII e parzialmente ricostruita nei primi decenni del Cinquecento), che ne costituisce il fulcro, è iscritta nell’elenco del patrimonio dell’umanità compilato dall’Unesco. Anche le tracce della prigionia degli italiani costituiscono motivo di attrazione turistica: il cimitero con l’iscrizione in italiano, specialmente, ma anche i suggestivi dipinti con soggetti floreali che ornano le pareti del refettorio, opera di “artisti-soldati”, che nel 2003 sono stati oggetto di una mostra significativamente intitolata “Rapsodia italiana”.
Nei lager il vitto non era migliore dell’alloggio: al campo-ufficiali di Suzdal’, quello dove il trattamento a partire dall’estate 1943 fu tra i meno inumani, si poteva avere pane, zuppa di ortiche e, se si era fortunati, un cucchiaio di zucchero; da bere veniva dato il ciài, una specie di infuso di the o surrogato. E tale alimentazione, nonostante fosse del tutto insufficiente, costituiva tuttavia un notevole salto di qualità rispetto al periodo immediatamente successivo alla cattura: infatti nei primi 4-7 giorni di prigionia ai soldati italiani non vennero dati né cibo né acqua, ed essi dovettero nutrirsi di neve sporca raccolta da terra, o meglio ancora di ghiaccio, che per lo meno dava l’impressione di mangiare qualcosa, immaginando con la fantasia di avere in bocca una crosta di pane croccante. Poi, nell’intera fase di trasferimento ai campi (a piedi o su carri bestiame), vennero somministrati pane e aringhe salatissime, mentre per dissetarsi si ricorreva spesso all’espediente di succhiare i bulloni del vagone, dopo averne raschiato via la brina e stando bene attenti a non “bruciarsi” le labbra sul ferro gelato.
Penso che nessuno abbia mai conosciuto il significato delle parole “fame” e “sete” quanto il prigioniero di guerra, e specialmente quello detenuto nei lager sovietici: “la fame è come l’aria – scrive Bruno Cecchini – dappertutto si avverte e si sente e si tocca”. Il prigioniero ha un peso che raggiunge a malapena i 30-35 chili, compresi gli stracci che porta addosso; se si preme con un dito lo stomaco, sente il duro della colonna vertebrale; gli occhi sono infossati; il colorito terreo o bianco smorto. Alberto Massa Gallucci, Medaglia d’Oro al valore militare, ricorda che nel lager di Tambov alcuni affamati arrivavano al punto di raccogliere il grano non digerito dai propri escrementi per rimetterlo nella zuppa dopo averlo lavato con l’acqua fresca.
Allo stesso modo però nessuno come il soldato italiano ha mai conosciuto altrettanto bene la generosità delle donne russe e ucraine che non mancarono mai di offrirgli una focaccia o un pezzo di pane, nonostante la miseria in cui esse stesse per prime si trovassero e ancorché avessero i mariti o i padri al fronte a combattere contro quegli stessi italiani. È significativo come la memorialistica trabocchi di episodi di siffatta umanità, ai quali molto spesso il reduce dovette la propria salvezza. Valga per tutti un episodio narrato dal tenente cappellano don Enelio Franzoni, che durante una marcia nella neve si trovò ad attraversare un villaggio dove la colonna di prigionieri attirò subito la curiosità delle donne:

È facile a quelle donne indovinare la fame che ci dilania; il nostro passo denuncia una fiacchezza che é sfinimento. Una si fa coraggio e si accosta a noi con un pezzo di pane. La guardia grida e la minaccia col calcio del fucile. La guardiamo scappar via, ma che fantasia, che cuore, che coraggio, donna mia! Poco dopo eccola davanti a noi che fugge ancora e si volta indietro; la vediamo gettar per terra il pane. E il pane, una briciola per ciascuno, non va perduto. Le guardie non si sono accorte di nulla. 21

Dalle condizioni alimentari, difatti, dipendevano strettamente quelle igienico-sanitarie. L’andamento della mortalità fu elevatissimo nei primi mesi del 1943, con un picco nello spazio di tempo febbraio-aprile, ovvero nel periodo dei trasferimenti attraverso le marce e i viaggi in treno e della prima sistemazione provvisoria nei campi, dove inizialmente la confusione e l’improvvisazione regnarono indubbiamente sovrane. In quei mesi invernali (circostanza che ha contribuito anch’essa ad accrescere la mortalità) la tragedia dei soldati italiani si inseriva certamente in quella più vasta dell’intero popolo russo, anch’esso stremato dalla fame; tuttavia è altrettanto vero che le condizioni sanitarie e alimentari, anche quando migliorarono, non raggiunsero mai un livello accettabile, come testimonia il fatto che, al di là delle malattie epidemiche, la stragrande maggioranza dei malati nei campi soffriva di distrofia.
L’organizzazione sanitaria nel Campo di Suzdal’ fu sempre carente e gestita da personale fortemente ostile ai prigionieri. Gelio Sartini ricorda la consuetudine di un’infermiera del lazzaretto nell’operazione di controllo delle camicie per liberarle dai pidocchi:

Era scura di capelli, paffutella in viso e rotondetta nella persona. Ad una certa ora del giorno entrava nella camerata ed imperativamente ordinava che ci togliessimo la camicia e che la ispezionassimo internamente, soprattutto nei luoghi più nascosti. Non tutti i prigionieri per le condizioni in cui si trovavano erano in grado di effettuare tale operazione, ed allora erano altre grida e se non bastavano ricorreva ad un grosso cinturone tedesco e colpiva duramente dalla parte della fibbia, coloro che si fossero attardati. Tale trattamento toccò anche all’ultimo venuto, quello accanto al mio letto. Il malato era in condizioni pietose; anche quando non si lamentava, spesso era in condizioni di non intendere e volere, perciò non obbedendo all’iroso comando di quella belva, riceveva sferzate da orbi sul corpo scheletrico. Ogni volta ne rimanevo fortemente impressionato e spaventato. Una mattina quell’infelice fu trovato esanime.22

Accanto a preziosi gesti di attenzione di cui furono talvolta autori i sanitari sovietici spiccano alcuni ricordi decisamente sgradevoli, che dovrebbero fare riflettere un po’ meglio quegli storici che, forse per affinità ideologica con i fuoriusciti nostrani, attribuiscono la moria d’italiani esclusivamente alle condizioni di guerra e alla disorganizzazione quasi fisiologica della macchina concentrazionaria sovietica. Lo stesso Sartini, dopo aver subito un’amputazione al piede che lo costrinse a muoversi trascinandosi, senza alcun ausilio, descrive il trasferimento a un altro reparto del lazzaretto:

Mi trascinavo con ogni sforzo come un vecchio bruco malconcio; l’infermiera alle mie spalle continuava a sbraitare per farmi procedere più celermente. Io non potei dare di più ed avrebbe dovuto capirlo anche lei; invece ad un certo momento sentii un colpo sulle reni per cui trasalii. Non mi fu difficile capire che era stata una pedata. Provai sorpresa, vergogna e ribellione. Mentre seguivo i pensieri del mio cervello in ebollizione, senza per altro avere aumentato la mia andatura, sentii arrivare altri due o tre calci sulle reni coi quali volle esprimere tutto il suo stato d’animo. La mia reazione si contenne; mi fermai un attimo e la guardai con occhi fermi e duri. Ripresi la strada alla stessa andatura, ma da quella posizione quasi strisciante mi sembrò impossibile riacquistare la dignità umana.23

Per passare il tempo al lager 160 si organizzavano anche rudimentali attività sportive, secondo parametri calibrati sulle condizioni fisiche dei prigionieri: palla a volo; campionato di calcio con palloni fatti di stracci e tempi di pochi minuti ciascuno; incontri di pugilato in non più di tre round e intervalli doppi; corsette senza ostacoli. Qualcuno pensò anche di darsi ad attività artistiche: è il caso del tenente Carlo Romoli, del XVIII Battaglione del 3° Reggimento Bersaglieri (come Cecchini), il quale si applicò nel disegno con materiale di fortuna che a ogni perquisizione gli veniva sistematicamente sequestrato; appena rimpatriato, Romoli ridisegnò subito tutto il complesso delle varie chiese del monastero ma, a causa della memoria che a distanza non lo soccorreva in ogni minimo particolare, poté completare i disegni soltanto nel 1990 quando ritornò in Russia e trascorse quattro giorni a Suzdal’ appositamente per ritoccare tutte le sue opere ancora in corso24.
Le attività culturali, sulle quali aleggiava costantemente l’ombra sinistra della propaganda comunista, comprendevano la lettura in biblioteca di testi di politica ed economia, conferenze, teatro con rivista, spettacoli vari con satira antifascista e anticlericale; soltanto per iniziativa autonoma degli ufficiali venne assemblata un’antologia clandestina di poesie italiane, dal Cantico delle Creature a D’Annunzio, in un manoscritto che i prigionieri interessati si passavano uno dopo l’altro.
Le inclinazioni, le preoccupazioni e i sentimenti dei militari italiani erano attentamente studiati dalle sezioni speciali di propaganda. Come spiega Marina Rossi in un interessante contributo saggistico, scritto dopo la consultazione di documenti a Mosca e interviste a ex-addetti alla propaganda di guerra,

i trofei di guerra, così vengono definiti dai sovietici gli appunti, i diari, tutti i documenti sequestrati ai prigionieri, insieme ai verbali d’interrogatorio di militari e civili delle zone occupate, come pure i messaggi di propaganda nazifascisti, sono attentamente studiati per ricavarne nuove argomentazioni da utilizzare a seconda dei casi, in prima linea, nelle retrovie, in mezzo alla popolazione, nei campi di prigionia. 25

A contrassegnare la vita dei sopravvissuti nei lager, dopo i primi terribili mesi del 1943, fu dunque l’azione fittissima dei commissari politici sovietici e degli agitatori italiani comunisti fuoriusciti dall’Italia per sfuggire al fascismo (i quali peraltro, come ha messo in evidenza la storica Elena Dundovich, non di rado trovarono nella loro patria d’elezione persecuzioni ben peggiori26). Valdo Zilli, reduce e storico della prigionia, sin dal primo dopoguerra dichiarò che a tale propaganda la maggior parte dei prigionieri reagì con molta diffidenza, mentre soltanto pochi si lasciarono attrarre: tra costoro, una parte si avvicinò ai contenuti delle “nuove idee” soltanto per interesse; altri se ne lasciarono invece conquistare al punto da farsi essi stessi organizzatori di attività culturali filocomuniste27. In realtà non andrebbe dimenticato che, se e dove la propaganda attecchì, ciò si dovette al fatto che essa veniva presentata inizialmente sotto l’ambigua veste di un generico “antifascismo” che una certa parte di prigionieri meno smaliziata, dopo l’esperienza della guerra e dei crimini nazisti, e soprattutto dopo il “dimissionamento” di Mussolini, poteva sentirsi di condividere senza per questo sentirsi obbligata a compiere anche il successivo dei passi proposti, ovvero l’adesione al comunismo. Se inizialmente le attenzioni dei propagandisti si appuntarono sui soldati, ritenendoli più permeabili per la loro appartenenza al ceto proletario e contadino, ben presto si rivolsero anche verso gli ufficiali nel proposito di costruire un gruppo di quadri comunisti per l’Italia del dopoguerra e di agitatori pronti anche a riprendere le armi al servizio del partito comunista28.
Generalmente la presenza dei comunisti italiani non era ben vista; troppo evidente era il ruolo che essi esercitavano nei campi, di sostegno alla polizia politica piuttosto che ai prigionieri italiani, e ciò non faceva che accrescere l’animosità nei loro confronti. Così scrive Augusto Fabbri, soldato di Fanteria prigioniero nel Campo n. 58/6:

Al campo arrivò un italiano, un antifascista, era venuto come istruttore politico, era un forlivese si chiamava Versari, quest’uomo era un poco di buono, puniva noi prigionieri anche per poco e trattava male noi italiani dicendoci di continuo cosa eravamo andati a fare in Russia, eravamo arrivati armati credendo di vincere la guerra, invece non c’eravamo riusciti e ci prendeva in giro dicendoci che se pensavamo di essere trattati coi guanti ci sbagliavamo di grosso. […] Versari era un ruffiano ed una spia, stava sempre in mezzo a noi italiani ci interrogava, poi andava dal capitano a riferire tutto, ogni tanto veniva chiamato qualcuno e punito, lo mandavano al campo 58/4 che era quello di punizione dove si rimaneva fino a quando non avevi scontato la pena che ti avevano inflitto.29

Eppure lo stesso Fabbri, tutt’altro che incline al rancore, ricorda come una buona persona il maggiore russo che comandava il suo Campo, il quale dopo aver fatto tagliare la legna per uso personale a cinque prigionieri, tra i quali era appunto Fabbri, li invitò tutti in casa a pranzare assieme a lui e alla sua famiglia servendoli come se fossero stati ospiti 30. Fa perciò francamente sorridere l’affermazione di uno storico secondo cui, malgrado la diffidenza dei prigionieri, “l’opera dei fuorusciti riusciva spesso preziosa, non solo come interpreti, ma quali tramiti per risolvere minuti problemi pratici di sopravvivenza, organizzativi e per migliorare ‘la qualità della vita’ anche con istanze ai comandi” 31.
Gli attivisti politici erano supportati da veri e propri delatori disseminati fra i prigionieri. Nel Campo 160 alcuni ufficiali costituirono bande particolarmente agguerrite per tenere alla larga gli spioni; lo ricorda Franco Martini:

Allora forse nacque quella specie di lega spontanea tra molti “celovieki” tesa a difendersi in ogni modo e con ogni mezzo dalla propaganda e dai propagandisti. Ricordo che con Marciano, Pontieri e Corcione (tutti bersaglieri e italianissimi), formammo inconsciamente una di tali leghe che, non avendo altro a disposizione, aveva come emblema una spranga di ferro che tenevamo accuratamente nascosta sotto il posto letto perché destinata a rompere la testa al primo che avesse ancora cercato di entrare in quella che, erroneamente, oggi si chiamerebbe “privacy”.32

Le scelte politiche dei prigionieri, di maggiore o minore avvicinamento alle idee proposte dai propagandisti, ebbero un’influenza diretta sulle loro condizioni di vita, poiché queste furono “alleggerite” ai collaborazionisti attraverso razioni speciali, mentre furono ancora più aggravate a coloro che si dimostravano ostili alle nuove idee. Il che è sostanzialmente la stessa cosa che avvenne nei campi di prigionia inglesi e statunitensi dove, specialmente dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e il messaggio di Badoglio dell’11 ottobre che invitava alla cooperazione con le potenze detentrici, coloro che rifiutarono la collaborazione furono trattati come “fascisti”, indipendentemente dai moventi più intimi delle loro scelte, e sottoposti di conseguenza a un trattamento di rigore.
Nei campi in Unione Sovietica la collaborazione fu minima, ridotta essenzialmente al lavoro cui peraltro la truppa veniva obbligata e gli ufficiali indotti dalle penose condizioni alimentari. Certamente, se nei campi inglesi e statunitensi era abbastanza facile aderire all’ideologia liberale della potenza detentrice33, rinunciando a un fascismo che aveva dimostrato sui campi di battaglia la propria inconsistenza, nell’Urss la propaganda finalizzata a presentare il paese dei soviet come uno tra i più progrediti per costituzione, per assistenza sanitaria e previdenziale, per organizzazione sociale e diritti dei cittadini e dei lavoratori, per efficienza della giustizia, cozzava terribilmente contro la realtà di cui i prigionieri avevano preso visione. Scriveva L’Alba, in un panegirico ben poco convincente:

L’Unione Sovietica è il solo stato al mondo in cui vivono in perfetta amicizia, con la più grande libertà politica, economica e culturale, tante nazionalità diverse. 34

Protetto dall’ombra amica della Costituzione, il popolo sovietico ha compiuto e compie grandiose opere di carattere collettivo, come la creazione di complessi industriali giganteschi, la meccanizzazione dell’agricoltura, l’apertura di lunghissimi canali navigabili e di acquedotti, la bonifica di estesi territori, la diffusione quasi totalitaria dell’istruzione elementare e la fondazione di un gran numero di istituti di istruzione media e superiore.35
Gli stessi “testi sacri” del comunismo, a cominciare dalle opere di Lenin, presenti in abbondanza nella biblioteca del Campo 160, non convincevano i più; il tenente Sartini li studiò attentamente, spinto dal desiderio di occupare lo spirito e di conoscere i fondamenti dell’ideologia del paese dei soviet, ma la sua conclusione fu inesorabile:

Il contrasto grande avveniva ogni volta che terminata la lettura avevo modo di ripensare a quello che avevo visto ed a quello che avevo capito in precedenza. Allora tutte le belle parole si vuotavano del loro contenuto e non rimanevano che parole.36

3- Il ritorno in Italia e le polemiche del dopoguerra

4- Tra “lavaggio del cervello” e resistenza

Note

17 Carlo Vicentini e Paolo Resta, Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia, Milano, UNIRR, 1995 (2. ed. 2005), p. 37.
18 Russia, Numero unico a cura dell’UNIRR, Roma, Tipografia La Colonna, aprile 1948, p. 7. Ovviamente la grafia è Mauthausen e non Mathausen.
19 La documentazione, resasi disponibile con l’apertura (di breve durata) degli archivi dell’ex-Unione Sovietica, fu consultata da giornalisti e studiosi. Cf.: Vladimir Galitzki, Il tragico Don: L’odissea dei prigionieri italiani nei documenti russi, a cura di Francesco Bigazzi, Milano, Sugarco, 1993.
20 Dove sei stato mio bell’alpino?: Alpini di Imola e della restante Romagna ricordano le loro esperienze in tempo di pace e di guerra, a cura di Giovanni Vinci, Imola, Grafiche Baroncini e Imolagrafiche, 1998, p. 235-246.
21 Ivi, p. 230.
22 Sartini, Campo 160, cit., p. 244.
23 Ivi, p. 233-234.
24 I ricordi di Romoli sono nell’articolo di Carlo Romoli, “Suzdal che portiamo sempre nel cuore”, L’alpino imolese, a. XXI, n. 2 (2003).
25 Marina Rossi, “Primi documenti di propaganda sovietica verso i militari italiani”, Le diverse prigionie dei militari italiani nella seconda guerra mondiale, a cura di Luigi Tomassini, Firenze, Regione Toscana, 1995, p. 92.
26 Elena Dundovich, Tra esilio e castigo: Il Komintern, il PCI e la repressione degli antifascisti italiani in URSS: 1936-38, Roma, Carocci, 1998; Elena Dundovich e Francesca Gori, Italiani nei lager di Stalin, Roma-Bari, Laterza, 2006; Elena Dundovich, Francesca Gori e Emanuela Guercetti, Reflections on the Gulag (with a documentary appendix on the Italian victims of repression in the USSR), Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2003.
27 Valdo Zilli, “Fascisti e antifascisti in Russia: Il trattamento politico dei prigionieri di guerra nell’URSS”, Il Ponte, n. 11 (1950).
28 Maria Teresa Giusti, «La propaganda antifascista tra i prigionieri di guerra italiani nell’URSS», Ricerche di storia politica, a. III, n. 3 (2000), p. 343.
29 Augusto Fabbri, I più non sono tornati, Imola, Il Nuovo Diario Messaggero, 1998, p. 85.
30 Ivi, p. 97.
31 Michele Calandri, “Quali scelte dei prigionieri italiani in Russia (1943-1946)?”, Le diverse prigionie dei militari italiani nella seconda guerra mondiale, cit., p. 119.
32 Franco Martini, Fui prigioniero in Russia, Grotte di Castro, Tip. Ceccarelli, 2001, p. 83.
33 Per i campi inglesi cf.: Bob Moore e Kent Fedorowich, The British empire and its Italian prisoners of war: 1940-1947, Londra-New York, Palgrave, 2002.
34 L’Alba, n. 9 (25 maggio 1943). Le copie anastatiche sono in: L’Alba: Per una Italia libera ed indipendente: giornale dei prigionieri di guerra italiani nell’Unione Sovietica, ristampa, Cuneo, Istituto storico della Resistenza di Cuneo, 1975.
35 L’Alba, n. 43 (5 febbraio 1944).
36 Sartini, Campo 160, cit., p. 279.