Un testimone della resistenza dei prigionieri italiani in Russia (4)

1- Il 3° Reggimento Bersaglieri in Russia inquadrato nella Divisione Celere Principe Amedeo Duca d’Aosta

2- Nei lager di Stalin

3- Il ritorno in Italia e le polemiche del dopoguerra

4- Tra “lavaggio del cervello” e resistenza

Tenuto conto anche dei risultati della storiografia più recente e matura, e in particolare del lavoro di ricerca di Maria Teresa Giusti48, ritengo che meriterebbe di essere studiato più attentamente, e valutato sotto una luce diversa da quella usata sinora, il comportamento di una piccola ma non trascurabile aliquota di militari che nei campi di prigionia di Stalin attuarono una resistenza – spesso passiva ma non di rado attiva, anzi attivissima – di fronte alle sollecitazioni dei comandanti di Campo e dei propagandisti politici ad aderire al comunismo. Se cerchiamo di parlarne in questa sede e di spronarne lo studio (compiendo anzi uno “sconfinamento” nei campi di prigionia dei cinesi nel corso della guerra di Corea) è perché la fermezza di costoro costituisce una fattispecie di condotta, pur nell’avversa sorte, ancora oggi esemplare per i giovani quadri di tutte le Forze Armate e al tempo stesso dimostra come non pochi militari seppero reagire a una forma di guerra per loro nuova (il “lavaggio del cervello”) opponendo un netto rifiuto alle lusinghe della propaganda e mantenendo alta la loro dignità di soldati e di uomini.
L’aspetto più caratterizzante della prigionia nei campi sovietici è costituito senza dubbio dalla propaganda ideologica alla quale i prigionieri furono sottoposti in maniera metodica e martellante. Possiamo definire la “propaganda” come il tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento di una o più persone al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti del propagandista. A rendere la propaganda più o meno pervasiva è il grado di distorsione e di pressione psicologica, cioè di manipolazione, che essa esercita49.
La propaganda in Urss, per qualità e per finalità, fu ben diversa dalle azioni psicologiche che normalmente tutti i governi, anche i più democratici, attuarono nel corso della guerra mondiale per convincere i prigionieri italiani della giustezza della causa Alleata, per provocare in loro sentimenti di ostilità verso il fascismo e verso i tedeschi, per suscitare risentimento nei confronti di Mussolini e conseguentemente indurli a cooperare con la potenza detentrice per il raggiungimento del bene comune50. Il carattere antifascista della propaganda nei campi sovietici – al di là della comprensibile esigenza di acquisire la maggior quantità possibile d’informazioni utili a combattere il nemico al fronte e di utilizzare i prigionieri a tale scopo, il che comprendeva anche la sollecitazione a sottoscrivere appelli da radiotrasmettere o stampare in forma di volantini – giunse infatti ben presto a identificarsi con l’intento di provocare l’adesione ideologica dei prigionieri al comunismo. Ciò aveva, nell’immediato, lo scopo di controllarli e gestirli con minor fatica nel corso della cattività, ma aveva anche, secondo una previsione a medio-lungo termine, quello di restituirli alla loro nazione convertiti al marxismo e, magari, inseriti attivamente nei servizi informativi dell’Unione Sovietica, con tutti i pericoli che ne sarebbero derivati per uno stato aderente al Patto Atlantico. Proprio per l’importanza strategica nell’opera di “conversione”, la polizia politica sovietica si preoccupò fin da subito di attuare un programma di rieducazione politica dei prigionieri: sicché, per dirla con le parole di un reduce che ha compiuto riflessioni storiche molto interessanti, “l’organizzazione politica dei campi di prigionia era pienamente efficiente quanto quella materiale lasciava molto a desiderare”, proponendosi in sostanza “la formazione di elementi orientati favorevolmente verso l’Unione Sovietica e pronti a sostenere la sua politica al termine del conflitto” 51.
Ai prigionieri nei lager staliniani veniva frequentemente richiesto di firmare appelli o messaggi agli italiani, spesso di generica condanna del fascismo o di appoggio morale all’antifascismo o al nuovo governo guidato da Ferruccio Parri, ma qualche volta anche contro la monarchia e per la cessione di Trieste alla Jugoslavia. L’inflazionamento degli appelli provocò dopo qualche tempo reazioni negative o di distacco: come ha giustamente osservato Luca Vaglica “nella maggioranza dei prigionieri si radicò sempre di più la convinzione che tali appelli non avessero alcuna utilità se non quella di servire alla direzione politica del campo per vagliare il loro stato d’animo e per misurare il lavoro politico svolto dai commissari” 52.
Inoltre venivano messe a disposizione biblioteche circolanti, ricche di testi del comunismo; veniva distribuito il periodico L’Alba, diretto e redatto da funzionari italiani con la collaborazione di volenterosi prigionieri, il quale dietro il pretesto di informare i reclusi sull’andamento della guerra (oggettivamente sfavorevole per gli italiani) esercitava un’ulteriore pressione psicologica.
A ciò si aggiungevano i controlli capillari sulle opinioni e sulle notizie personali dei prigionieri, al fine di individuarne con sicurezza l’orientamento politico e il grado di “malleabilità”: le informazioni venivano raccolte attraverso un certo numero di delatori selezionati fra gli italiani (che in virtù della loro condizione di prigionieri potevano ottenere facilmente le confidenze dei colleghi, nonché raccogliere commenti durante la lettura collettiva dell’Alba), ma anche attraverso le poche cartoline scritte dai prigionieri alle famiglie e mai uscite dai campi. Negli spioni i prigionieri vedevano la minaccia più insidiosa e strisciante, poiché quelli vivevano la loro medesima vita, consumavano lo stesso rancio (a parte le razioni extra ricevute di nascosto in cambio delle delazioni) e finché non venivano individuati non erano fatti oggetto di diffidenza. Le cartoline, che la Croce Rossa avrebbe dovuto fare giungere a destinazione, erano sottoposte a un attento controllo per saggiare lo stato d’animo dei prigionieri e valutare gli argomenti più idonei da impiegare successivamente negli interventi di rieducazione: non è un caso che lo stesso Palmiro Togliatti, come ricorda la sua segretaria a Mosca, leggesse attentamente la posta dei soldati, sottolineandone le frasi più significative53.
Inoltre era abituale la pratica degli interrogatori notturni, operati dagli ufficiali dell’Nkvd (le cui mostrine azzurre continuarono per molti anni a popolare gli incubi dei reduci) con l’assistenza di agitatori politici italiani: per ore il prigioniero veniva sottoposto a domande sulla sua famiglia e sugli amici in Italia, sulle sue proprietà, sulle sue convinzioni in merito al comunismo e al fascismo, subiva minacce di non fare più ritorno in patria, di finire in Siberia o di marcire in carcere. Lo scopo era quello di indurre poco per volta il prigioniero a “dichiararsi”, ad assumere posizioni precise: da qui la tendenza di molti – e lo si vede anche nei primi interrogatori di Cecchini – a mantenere atteggiamenti ambigui con i commissari attenendosi alla massima cautela nel fornire risposte, nel tentativo di comprendere e prevedere quali potessero essere le strade più pericolose e quali le meno compromettenti.
I più forti moralmente, però, si raccoglievano intorno ai superiori e agli ufficiali più anziani, si ricordavano reciprocamente il giuramento di fedeltà prestato dinanzi alla bandiera del proprio reparto, escogitavano nuovi giuramenti segreti volti a confermare quello militare, nella consapevolezza che gli atti di conformismo richiesti dai comandanti dei Campi fossero in realtà un sottile strumento per indurli ad aderire al comunismo. L’idea partì da un gruppo di ufficiali per rinforzare la volontà di non cedere; si trattava in effetti piuttosto d’un rinnovamento del giuramento prestato all’atto della nomina: esso era trasmissibile a un solo altro collega nel quale si avesse completa fiducia e impegnava a restare sempre e comunque fedeli soltanto alla Patria e al Re, anche a costo della vita, nella convinzione che solo il legittimo capo dello Stato italiano potesse sciogliere dall’impegno solennemente preso e che non si potessero prestare nuove promesse o adesioni in terre straniere. Bruno Cecchini ha tramandato il “rito” del giuramento prestato dinanzi ad un collega con queste parole:

“Solo prigioniero e basta, fino al nostro rientro in Patria o alla morte; lo giuro come ufficiale del Terzo e davanti a te e al nostro Iddio, lo giuro”. Ancora uno sguardo negli occhi, un saluto militare, una lunga, forte stretta di mano e via con una incrollabile fede nel cuore, con un coraggio più grande, con la mente e l’anima in pace.

Invece i più “entusiasti” venivano inviati alla Scuola antifascista annessa al Campo n. 27/B di Krasnogorsk presso Mosca, dalla quale ritornavano successivamente nei lager per compiervi attività di propaganda e di indottrinamento, con la prospettiva poi di proseguirla anche una volta rimpatriati in Italia54. Anch’essi, come testimoniò il sottotenente Sergio Fiaschi al processo D’Onofrio, concludevano il corso con un giuramento: “Nel nome del popolo, giuro di non desistere dalla lotta intrapresa per il trionfo del proletariato e i miei compagni mi sopprimano nel sangue se verrò meno a tale giuramento” (formula poi modificata per l’opposizione degli stessi frequentatori della scuola)55.
L’attivismo dei propagandisti produsse però ben pochi risultati, al di là di qualche episodio di conformismo più di facciata che reale e proseguito per interesse politico dopo il rimpatrio. Ciò contribuì ad incattivire ancor più gli ufficiali dell’Nkvd e i commissari nostrani, i quali presagivano che gli orrori della prigionia in Russia sarebbero prima o poi divenuti di pubblico dominio, influenzando inevitabilmente anche l’orientamento elettorale del popolo italiano, e provocò inoltre anche serie preoccupazioni fra gli ufficiali italiani filosovietici che infatti, non appena giunsero in Italia, furono subito presi in custodia dai carabinieri per scampare al linciaggio da parte dei commilitoni. Di contro ai filosovietici (pochi) in partenza per la Scuola di Mosca, v’erano però anche altri ufficiali, tra gli “indomabili”, che improvvisamente venivano prelevati e fatti partire per destinazione ignota, alcuni spediti al Campo di punizione n. 171 di Susslongher o all’altrettanto famigerato Campo n. 62 di Kiev. Alcuni di essi erano destinati a scomparire nel nulla.
Per questi motivi la propaganda in Russia mostrò subito l’intenzione di non limitarsi a combattere soltanto il regime fascista e la persona del Duce, ma bensì prese a scagliarsi ferocemente contro l’intero “sistema occidentale”, ovvero contro la borghesia, la democrazia, il capitalismo e la religione, al fine di persuadere i prigionieri che unicamente il comunismo, una volta che fosse stato esportato dalla Russia nel resto d’Europa, avrebbe garantito a tutti la libertà, l’uguaglianza e il benessere materiale e spirituale. Questi furono gli slogan ripetuti più insistentemente e, per quanto inflitti a uomini già stanchi della guerra e stremati dalle marce di trasferimento e dall’ambiente del campo, venivano comunque percepiti e incamerati, sedimentando nella mente del prigioniero; altri slogan, diversi e proposti a distanza di tempo, o letti sull’Alba o ascoltati dai conferenzieri, si sarebbero poi potuti combinare con i concetti già assorbiti, anche per associazione di idee, e orientare così tutti i messaggi verso il fine desiderato, cioè quello di preparare uno stato d’animo favorevole alla potenza detentrice e disponibile ad accoglierne l’ideologia-guida.
In questa ottica la prigionia, in quanto occasione per aderire al comunismo, assumeva paradossalmente l’aspetto di una liberazione (o meglio: di un’occasione per liberarsi) dai vincoli della società borghese e il tempo trascorso in cattività non era da considerare come perduto, ma piuttosto come tempo utilizzabile per una “maturazione” personale. Bruno Cecchini, nel primo colloquio che ebbe con l’Nkvd, si sentì dire dall’ufficiale: “Tu ora sei nella patria socialista; sei libero e non più succube della propaganda fascista”. Si sentiva proporre, insomma, un rovesciamento delle certezze che su altri individui meno forti e meno motivati avrebbe provocato un effetto straniante.
Scriveva un prigioniero su L’Alba, il giornale dei prigionieri di guerra in lingua italiana, realizzato a partire dal febbraio ’43 e stampato in circa 5-7.000 copie sino al 15 maggio 1946:

Oggi, per la prima volta, decine di migliaia di operai, contadini, artigiani, impiegati, professionisti, ufficiali di carriera, che si trovano prigionieri nell’Unione Sovietica, sono messi nelle condizioni di pensare liberamente […] trovano qui la libertà di pensare con la propria testa e di parlare. La prigionia di guerra nell’Unione Sovietica apre loro una prima grande finestra sugli immensi orizzonti della libertà56.

Anche i “convertiti” al comunismo, nei loro interventi pubblici, puntavano l’attenzione sulle prospettive di libertà offerte da quell’ideologia: una libertà democratica “più alta e completa” rispetto alle “libertà democratiche elementari” vigenti nell’Inghilterra e negli Usa57. E ancora ammoniva il soldato Ferreri che occorreva “levarsi la benda dagli occhi, liberarsi le gambe dalle catene che ci hanno impedito ogni passo verso la libertà di vita e di pensiero” 58. E il sottotenente Angelo Molinari garantiva: “Da due anni che ci troviamo in Russia ci è apparsa la grandezza di questo popolo ed abbiamo capito che le radici di questa grandezza stanno nelle libertà e nell’uguaglianza che si respirano nell’aria” 59.
La suddetta “maturazione” veniva sollecitata attraverso le tecniche dell’interrogatorio (eufemisticamente chiamato “colloquio individuale”) e della discussione. L’interrogatorio, effettuato spesso di notte, non verteva tanto su argomenti d’interesse militare (che avrebbero indotto il prigioniero al silenzio) quanto piuttosto su opinioni e valutazioni in merito alle vicende generali belliche o della vita in Italia.
L’esame mirava a inquadrare “socialmente” il prigioniero, individuando attraverso la conversazione gli elementi essenziali di uno stile di vita borghese o proletario. La precisione delle domande inerenti le proprietà personali è significativa: Bruno Cecchini fu ravvisato come “borghese e capitalist” perché in Italia abitava con la famiglia in una dignitosa casa in muratura, a due piani, e perché proprietario di una bicicletta regalatagli dal padre per andare a scuola a Porretta. Gli ufficiali rimanevano confusi dal tenore delle domande, poiché faticavano a comprendere il senso di un interrogatorio mirato non su oggetti militari ma sulla loro biografia sociale e politica. Ricorda Carlo Vicentini:

Volle sapere tutto sulla mia famiglia ed i miei parenti. Padre, madre, fratelli, zii paterni e materni e di ognuno nome, cognome, indirizzo, età, professione. L’indirizzo dell’ufficio di mio padre, chi era il suo capo, i suoi colleghi. Volle sapere la trafila delle scuole che avevo frequentato, con nomi dei professori e cosa insegnavano, chi erano i miei compagni, dove abitavano, cosa facevano i loro padri. Poi la storia particolareggiata della mia vita, i viaggi, i trasferimenti di domicilio, le letture, lo sport, le ragazze frequentate, l’impiego, i miei capi, i colleghi e sempre con nomi indirizzi date.60

Oltretutto la completa ignoranza dei commissari politici sul tenore di vita degli occidentali portava a confronti degni del teatro dell’assurdo durante i quali il sovietico non accettava di credere che in Italia gli edifici fossero costruiti in muratura, anziché in legno come le isbe, e che ogni casa o appartamento fossero occupati da uno solo e non da più nuclei familiari.
I risultati dei colloqui, mirati anche a individuare l’orientamento politico del prigioniero e il suo grado di docilità alla manipolazione psicologica, venivano attentamente confrontati con le informazioni raccolte da squadre di delatori scelti fra gli stessi prigionieri che riferivano le confidenze dei colleghi e i pareri captati durante la lettura pubblica dell’Alba, ma anche con il contenuto delle cartoline scritte alle famiglie e della posta giunta da casa. Lo studio della corrispondenza e degli appunti personali (anche dei morti) era anzi basilare per cogliere i problemi che più stavano a cuore agli italiani, dall’andamento della guerra alla situazione attuale e futura del loro Paese. Ciò trova conferma nel fatto che diversi testimoni raccontano di avere rinvenuto, allorquando furono comandati in servizio di pulizia nei locali del comando del campo, mucchi di cartoline a loro precedentemente fatte compilare per la spedizione a casa e mai uscite dalla baracca-comando: erano evidentemente state fatte scrivere per poi studiarle ai fini del lavaggio del cervello e infine gettate tra i rifiuti.
Le attività culturali consistevano nella lettura di testi del comunismo (taluni campi, come quello di Suzdal’, avevano anche una biblioteca), in conferenze e relazioni, oltre che nella lettura del periodico L’Alba e dei giornali murali dei campi, ai quali peraltro era anche possibile collaborare. Per quanto riguarda L’Alba, controllato dai fuoriusciti politici italiani, è significativo il fatto che nel primo periodo della sua esistenza non richiedesse la collaborazione dei prigionieri, mentre a partire dal maggio 1943 sollecitò apertamente i lettori ad inviare articoli, commenti e note umoristiche: ciò si dovette in parte all’esigenza di rendere il periodico maggiormente popolare fra i prigionieri (come hanno sempre sostenuto i redattori), ma soprattutto allo scopo di soddisfare una duplice necessità: da un lato quella di coinvolgere in maniera sempre più attiva e “compromettente” coloro che avevano dichiarato di aderire al comunismo, rendendo in tal modo sempre meno revocabile la loro scelta (ricordo a tal proposito che nell’imminenza del rimpatrio i convertiti scrissero diligentemente pubbliche attestazioni di riconoscenza e dichiarazioni di ammirazione verso Stalin); dall’altro quella di usare i prigionieri più deboli per rendere i messaggi ideologici più credibili presso la massa.
Alle attività anzidette seguivano i “dibattiti pubblici”, generalmente condotti a piccoli gruppi con la guida di un prigioniero di fiducia del comando del Campo. Ciò aveva lo scopo di rendere il prigioniero partecipe attivamente della sua stessa opera di rieducazione politica, costringendolo a ripetere più e più volte a voce alta lo svolgimento delle vicende che l’avevano avuto come protagonista allo scopo di insinuargli pesanti dubbi sulla propria vita trascorsa e farlo giungere, insieme con gli altri, alla conclusione che tutte le sofferenze patite erano riconducibili al carattere deviato del sistema politico-sociale in cui gli Italiani erano cresciuti.
Ad aumentare l’effetto di straniamento contribuiva l’applicazione abituale del rovesciamento delle gerarchie, consistente nello scegliere i prigionieri a cui affidare compiti di comando o di gestione non in base al grado militare ma all’avanzamento nel percorso di maturazione ideologica. Capitava così che un graduato di truppa o un sottufficiale inquadrasse o punisse degli ufficiali, o che ufficiali subalterni impartissero ordini a quelli superiori: è il caso, narrato da Cecchini, del sergente Mottola al quale fu affidato il comando di una brigata di prigionieri-lavoratori.
I “potenziali simpatizzanti” venivano curati scrupolosamente, come un buon insegnante fa con gli alunni a scuola: prima veniva chiesto loro di esporre le proprie idee in un articolo per il giornale; poi il “pezzo” veniva restituito loro con la soppressione di alcune frasi e le indicazioni su come raffinare meglio i concetti; infine li si faceva giungere quasi naturalmente alle conclusioni preordinate: questo processo conduceva i soggetti a modificare lentamente le proprie convinzioni, iniziandoli all’ideologia e alla confidenza con il linguaggio criptico e le parole-chiave del sistema di valori retrostante61.
Quand’anche ciò fosse avvenuto soltanto per una finalità opportunistica, soccorreva il “principio di coerenza”: fatto uno o più passi in una determinata direzione, non si poteva poi non seguire sempre più quella direzione, senza possibilità di ritorno se non a costo di subirne pesanti conseguenze. Per quanto riguarda il testo scritto – strettamente collegato al principio di coerenza – esso era importantissimo per testimoniare che l’atto di adesione c’era stato e al tempo stesso per legare il prigioniero a quell’adesione.
Un’altra caratteristica dell’indottrinamento era la possibilità, che veniva data a coloro che si convertivano al comunismo, di emergere dalla massa migliorando la propria condizione materiale (a cominciare dal rancio più consistente, per quanto la fame fosse talmente cronica da rappresentare un problema anche per gli ufficiali sovietici) e ottenendo incarichi di fiducia. La propaganda che mira a produrre mutamenti durevoli delle convinzioni dell’individuo si basa sull’osservazione del progresso compiuto dal soggetto nella direzione voluta, e nel pubblico riconoscimento di tale progresso, anche come soddisfazione personale, per incentivare il soggetto a progredire ancora di più. Alcuni soldati scarsamente istruiti impararono a leggere e scrivere nei campi sovietici o presero il piacere della lettura (o meglio: delle letture marxiste) o impararono a parlare in pubblico e a dibattere su argomenti dati con risultati gratificanti: soprattutto costoro potevano trovare nella uniformità di idee che la rieducazione garantiva una forma di gratificazione e di rivalsa nei confronti del ceto borghese che era sempre apparso loro come detentore di una “istruzione” inaccessibile.
Un altro dei passaggi, essenziali quanto striscianti, della propaganda sovietica consisteva nell’indurre i prigionieri a “dichiararsi”, ovvero a esprimere in ogni caso pubblicamente le proprie opinioni in merito a questioni che andavano dall’antifascismo alla validità del comunismo. Questo era lo scopo immediato dei dibattiti e delle pubbliche conferenze (al termine delle quali si sollecitavano domande), della richiesta di collaborazione alle attività culturali e giornalistiche, delle proposte di sottoscrizione di appelli o messaggi indirizzati al popolo italiano. Per questi motivi L’Alba veniva distribuito nella quantità di una copia ogni dieci prigionieri, costringendo di fatto alla lettura collettiva e allo scambio di opinioni. Ricorda il soldato Settimo Malisardi:

Per qualche prigioniero ben nutrito e in ottima salute, con una certa lucidità di mente, il giornale era utile alla informazione e stimolava in essi la curiosità e il desiderio di sapere ciò che accadeva nel mondo, dopo anni di ibernazione mentale forzata. Ma per la maggioranza di noi, denutriti, rimbecilliti dai patimenti, avviliti e sfiduciati, quelle notizie non avevano alcun senso.62

Dichiararsi antifascista era in effetti per molti un gesto spontaneo, visti i risultati di una campagna militare di aggressione organizzata in modo scellerato, e ancor più lo divenne a partire dal settembre 1943 quando l’Italia non era più nemica dell’Urss. Fu proprio a quel punto però che i commissari politici cominciarono a richiedere di più, pretendendo dagli italiani il tradimento della propria patria. Verso la fine di novembre, nel corso di un interrogatorio, al sergente del Genio Luigi Venturini fu proposto il rimpatrio a Bari a condizione che, dotato di una ricetrasmittente, egli inviasse poi notizie sulle forze americane usando i codici e i contatti forniti; in cambio gli si offriva una buona paga. Il sottufficiale capì l’antifona e rispose di sentirsi legato al giuramento prestato e di non volere rimpatriare per fare la spia. Per questo diniego fu maltrattato e costretto a sottoscrivere di essere consapevole che la rivelazione di quanto si era detto gli sarebbe valsa un processo. Un invito analogo venne rivolto al cappellano Carlo Caneva, che dopo aver rifiutato fu obbligato a firmare un impegno scritto di mantenere il silenzio63.
Un non vasto gruppo di “irriducibili” oppose tuttavia un’accanita resistenza alla propaganda ideologica sovietica, rifiutando sempre di aderire alle varie iniziative proposte, sollecitando gl’incerti a fare altrettanto, ricordando agli smemorati il trattamento ricevuto dopo la cattura e i doveri giuridici dell’ufficiale prigioniero e giungendo persino a minacciare fisicamente i delatori. La resistenza morale di costoro – basata sui principi dell’etica professionale del militare e portata avanti in una situazione ambientale di grave pericolo, poiché tra le priorità delle esigenze di indottrinamento v’era anche l’eliminazione degli “indocili” – fece senz’altro da argine alle adesioni. L’opera dei resistenti sfociò spesso in scontri aperti con i commissari politici. Nella primavera 1944, al termine di una conferenza, un fuoriuscito italiano parlò dell’importanza di firmare un appello dal contenuto filocomunista; qualcuno obiettò di non poterlo fare perché legato al giuramento, ma a troncare la discussione fu il generale Battisti esclamando: “Io non firmo ed esco”. Così fece, e tutti seguirono il suo esempio; dopo qualche giorno però il generale partì per destinazione ignota. Anche Padre Pietro Alegiani fu prelevato e spedito a Mosca con accuse del tutto infondate, e così Padre Giovanni Brevi e tanti altri. Taluni rimpatriarono soltanto nel 1954; altri pagarono con la vita la fedeltà al giuramento64.
Gli studi sui prigionieri italiani in Russia – anche gli ultimi in ordine di tempo e sicuramente pregevoli – nell’affrontare la questione del sistema di persuasione usato dai sovietici presentano però a mio avviso un limite comune: quello di mantenere l’oggetto della ricerca del tutto isolato rispetto ad altri contesti in cui Stati comunisti si trovarono a detenere prigionieri di guerra65. Una ricerca comparativa di esperienze diverse di prigionia presso governi comunisti metterebbe in evidenza la continuità e le costanti nelle tecniche di persuasione in uso presso quei paesi e illuminerebbe meglio vicende che sono ben lungi dal circoscriversi al periodo 1942-‘46. A tal proposito Maria Teresa Giusti ha osservato che il partito bolscevico sin da prima dello scoppio della seconda guerra mondiale aveva preparato funzionari preposti alla formazione dell’ideologia e aveva approntato “laboratori di propaganda” allo scopo di rieducare i prigionieri di guerra alle nuove idee66; sulla scia della continuità temporale disponiamo già da tempo di studi, condotti con approcci sociologico e psicologico sufficientemente sicuri, sulla prigionia dei militari delle Nazioni Unite presso i cinesi nel corso della guerra di Corea.
La psicologia sociale, che da oltre un secolo studia i comportamenti dell’individuo in relazione agli ambienti sociali in cui egli si trova e i processi motivazionali e cognitivi nell’interazione umana di ogni tipo, dalla metà del Novecento si occupa proficuamente dell’analisi dei meccanismi del “tentativo di persuasione”, che spinto nelle sue forme estreme prende appunto il nome di “lavaggio del cervello” 67. Furono proprio i lunghi colloqui avuti con piloti e marinai statunitensi restituiti dalla prigionia nei campi cinesi a fornire, nei primi anni ’50, la base per gli studi intorno alle tecniche, nelle quali i cinesi si erano dimostrati maestri, mirate a determinare mutamenti di convinzioni interne durevoli e ben più profondi di quanto non possa essere, ad esempio, l’adesione o il conformismo dettato da mere ragioni di sopravvivenza (con la cessazione delle quali si ripristina lo stato di “normalità”). D’altro canto si voleva fornire una spiegazione alle varie forme di collaborazione col nemico (accompagnate dal ripudio della società borghese e dalla conseguente “conversione” al comunismo) che, per quanto si fossero verificate in quantità trascurabile, colpirono molto l’opinione pubblica statunitense poiché investivano direttamente il principio della fedeltà alle istituzioni.
Gli studi di Edgar H. Schein sui sistemi di propaganda dei cinesi68 hanno messo in rilievo l’impiego di tecniche analoghe a quelle usate sui nostri soldati in Russia e non necessariamente connesse alla violenza fisica: l’annuncio di una “liberazione” e della possibilità di unirsi finalmente all’esercito della pace; le terribili condizioni di vita, migliorabili però a mano a mano che il prigioniero dimostra di aderire all’ideologia che gli si offre, sino a giungere a un sistema di premi e punizioni nel quale peraltro, in molti casi, in Russia come in Corea, i “premi” promessi non venivano concessi a causa anche del disprezzo che i popoli asiatici dimostrano nei confronti dei traditori e dei servitori dei propri aguzzini; il controllo capillare delle idee attraverso la censura e le spie abilmente disseminate nel campo; l’isolamento dei recalcitranti, bollati come “reazionari” e “fascisti”; l’approccio pedagogico alla conversione, indotta attraverso interrogatori, colloqui, letture e conferenze con dibattito conclusivo. Tutto ciò poteva ricondursi, secondo Schein, a tre “stadi” che vorrei qui sintetizzare cercando al contempo di correlarli alle diverse attività di propaganda all’interno dei campi di prigionia sovietici già menzionate:
• Lo stadio dello “scongelamento”, ovvero una destabilizzazione finalizzata a provocare una crisi d’identità che “scongela” appunto i valori del passato e li fa apparire sbagliati o superati: il soggetto, sottoposto a forti pressioni da parte del nuovo sistema, vive inizialmente una forte situazione di disagio che si attenua procedendo nella revisione delle precedenti credenze e nell’ingresso nel nuovo sistema. I colloqui interrelazionari, scambiati dagli ufficiali per interrogatori, avevano tra gli altri anche lo scopo di demolire la visione della vita della classe sociale borghese, portando gli individui a riconoscere gli errori dell’intera sua nazione.
• Lo stadio del “cambiamento”, contrassegnato dalla scoperta delle possibilità concrete di cambiamento offerte dal gruppo dominante e ispirate alla nuova ideologia, che induce il soggetto ad assumere via via impegni sempre più precisi con sé stesso e pubblicamente;
• Lo stadio del “ricongelamento”, ovvero del consolidamento delle idee e dei comportamenti desiderati da parte della dirigenza attraverso premi e punizioni, critiche e correzioni varie: al termine del percorso del ricongelamento il soggetto dimostra idee, comportamenti e atteggiamenti irreversibili ed esattamente conformi a quelli del gruppo di cui non mette in dubbio l’autorità.
Un esempio di approccio “giusto”, conforme ai programmi di “lavaggio del cervello”, è fornito dall’intervento sull’Alba di un sottufficiale:

Sono uno studente. Ho frequentato a Treviso, le scuole Magistrali Superiori. Prima di venire in Russia credevo di essere molto sapiente e di saper parecchie cose. Mi accorgo invece ora, parlando con gli istruttori italiani che vengono nel campo, di essere ben lontano dal possedere la vera scienza. […] Ora sto imparando molte cose alla scuola di questi camerati italiani, onesti cittadini e bravi lavoratori, che sono stati perseguitati dal fascismo e che hanno imparato un mucchio di cose nel regime di libertà e progresso che esiste nell’Unione Sovietica.69

Gli studi di Robert Jay Lifton70 hanno portato alla definizione di otto criteri, alcuni dei quali possono essere proficuamente applicati anche allo studio della prigionia in Urss. Li ricordo cercando di riferirli all’esperienza dei prigionieri in Urss:
• il “controllo del milieu”, ovvero una forma di controllo totale dell’ambiente di vita e delle comunicazioni che in esso si svolgono: la presenza di delatori segreti pronti a denunciare gli “insofferenti” garantisce l’isolamento dei singoli recalcitranti e aumenta la diffidenza all’interno del gruppo dei prigionieri al fine di evitare forme di aperto scetticismo verso le idee-guida;
• la “pregnanza del linguaggio”, comprensibile in certe forme soltanto agli iniziati alla nuova dottrina, ma che diventa altresì uno strumento del gruppo e del singolo per selezionare implicitamente ciò che può e ciò che non può entrare nell’orizzonte etico del gruppo: i termini e le espressioni dell’ideologia marxista servono quindi a incanalare lentamente il pensiero verso l’ideologia-guida, inducendo un processo di autocorrezione e autocensura che elimina ogni possibile espressione non in linea con quella e abbatte ogni forma di resistenza interiore;
• la presenza di uno “standard di purezza” difficilmente conseguibile, ovvero l’indicazione di una meta ardua da raggiungere, che muove dal presupposto secondo cui la conversione a un sistema autenticamente democratico come quello comunista è impossibile per chi appartiene per nascita alla borghesia ed è, di conseguenza, reazionario e fascista: perciò il neofita è sempre messo di fronte all’alternativa “noi” vs. “loro”, “bene” vs. “male”, “ragione” vs. “torto”, con la conseguente necessità di assumere decisioni nette schierandosi sempre senza esitazioni dalla parte voluta dai persuasori;
• il “metodo della confessione”, cioè l’abbattimento dei confini personali con la relativa esplicitazione di ogni pensiero o azione non conformi alle regole del gruppo, specialmente in riferimento ai trascorsi “fascisti” e “borghesi” degli ufficiali, che divengono altrettante colpe da espiare e al tempo stesso potenti strumenti di controllo nelle mani del manipolatore, il quale può in ogni momento esigere l’espiazione della colpa: tutte le informazioni raccolte, comprese quelle fornite volontariamente dal prigioniero, sono interpretate come sbagli ed errori e usate come imputazioni d’accusa morali (pronte a trasformarsi in penali) per screditare la vita precedente del prigioniero, i suoi familiari e amici; al tempo stesso, però, viene sempre prospettata la strada più corretta, ovvero quella della illuminazione ideologica che garantisce la “riforma del pensiero”;
• la “manipolazione mistica”, ovvero la costruzione di esperienze finalizzate a manipolare le persone per indurle a credere di essere giunte autonomamente e senza pressioni esterne alle conclusioni indicate dal gruppo: anche in una condizione di dura prigionia, quindi, si cerca di dimostrare comunque la presenza di una certa forma di volontarietà che consiste nella “libera” adesione all’ideologia e nei progressi nella conoscenza;
• la presenza di dogmi inattaccabili e indiscutibili senza alcuna eventualità di punti di vista alternativi: i fondamenti del marxismo divengono così l’unica verità possibile nel gruppo e dal gruppo accettabile, l’unico schema interpretativo applicabile ai fatti della vita e del mondo, invisibili porte che registrano l’ingresso e l’uscita dal gruppo stesso, mentre i commissari e i gerarchi sono non soltanto i depositari della dottrina ma anche il punto di riferimento per ogni forma di “informazione” e “acculturazione”;
• l’“annullamento della persona” e dell’individualità nella dottrina comunista, che sopprime la coscienza individuale e si pone a fondamento di ogni possibile esperienza del gruppo e del singolo: la dottrina è esatta e scientifica perché è stata già dimostrata e il singolo non può che sottomettersi all’evidenza; la stessa “colpa” originaria di appartenere alla classe borghese e/o a una nazione fascista è manifesta di per sé e non necessita di spiegazioni;
• il “controllo del diritto all’esistenza”, ovvero il principio secondo cui i convertiti sono i “prescelti” mentre gli irriducibili alla propaganda, i critici e i ribelli a vario titolo perdono il diritto di esistere perché inferiori moralmente: ciò avviene attraverso il controllo dei rimpatri e l’esclusione dei “reazionari”, che sono allontanati dal gruppo e il cui viaggio di ritorno viene rimandato a un giorno indefinito, mentre ai convertiti si prospetta (astrattamente) ogni felicità futura.
Margaret Thaler Singer, che ha studiato il “lavaggio del cervello” soprattutto in riferimento alle sette, ha individuato sei condizioni necessarie per attuare la “riforma del pensiero” 71. Esse sono:
• mantenere la persona inconsapevole dell’esistenza di un progetto di riforma del suo pensiero, portandola lentamente, attraverso una serie di comportamenti e abitudini indotte, il cui scopo non è immediatamente palese, a rinunciare con una certa spontaneità alle credenze passate: dalle istanze antifasciste, che potevano essere condivise da molti, si avanza lentamente, ma inesorabilmente, su posizioni filosovietiche e gravemente antinazionali;
• controllo assoluto dell’ambiente sociale, specialmente nella gestione dei tempi, e del corpo della persona;
• creazione di un senso d’impotenza che agevoli l’intima accettazione della nuova visione della vita e del mondo consentita e approvata dal gruppo: rientrano in questa fattispecie l’isolamento in carcere o i trasferimenti dei prigionieri meno malleabili, il comando affidato a soldati semplici, l’obbligatorietà delle attività culturali e rieducative;
• gestione di un sistema di esperienze significative, premi e punizioni che consentono di inibire comportamenti legati alla precedente identità sociale;
• gestione di un sistema di esperienze significative, premi e punizioni che consentono di promuovere l’ideologia e i comportamenti conformi a quelli del gruppo: chi, per le tesi contenute negli articoli che scrive o per gli interventi in occasione di pubbliche discussioni, dimostra di avvicinarsi alla comprensione della dottrina comunista, ottiene il plauso dei commissari politici e del gruppo degli “illuminati” e anche se non ha compreso a pieno la dottrina viene comunque accolto e ulteriormente orientato verso la maturazione piena;
• contesto organizzato secondo una struttura autoritaria che non consente reazioni o modifiche se non provenienti dall’alto: soltanto il “collettivo” ha sempre ragione e il singolo può partecipare di tale condizione soltanto se si conforma minuziosamente alle posizioni ideologiche del “collettivo”.
La “conversione” è sempre vista come un momento di illuminazione che scaccia le tenebre dell’oscurantismo e apre la mente a nuova luce. Così scriveva un prigioniero sull’Alba:

“L’Alba” ha portato a noi prigionieri italiani una grande luce […] Grazie a “L’Alba” noi oggi abbiamo chiare nella nostra mente molte cose […].72

E un altro soldato scriveva alla vigilia del rimpatrio:

[…] la mia permanenza in questo paese ha fatto sì che conoscessi le vere cause per cui il fascismo mi aveva propinato un’ideologia malsana e perfida, che conoscessi qual è la vera strada che ogni italiano deve seguire, onde al mio rimpatrio contribuirò alla lotta per la libertà del mio popolo per una nuova Italia democratica e progressista.73

Un ufficiale reduce dalla prigionia, Franco Martini, avanzò una interessante osservazione sui metodi di propaganda: in un brogliaccio scritto nel 1947 egli volle vedere un legame tra la fine della grande stagione delle malattie e l’inizio dell’“offensiva psicologica”, tanto da pensare che i propagandisti abbiano in qualche modo sfruttato la malattia come prodromica a un vero e proprio lavaggio del cervello: infatti, secondo la sua personale interpretazione, quando incominciò a riprendere i sensi dopo il tifo petecchiale gli sembrò di essere rinato a nuova vita trovandosi in uno strano stato estatico che gli rendeva difficile persino il ricordo del nome suo e dei suoi cari. Dopo essersi avvicinato al gruppo antifascista, però, ne uscì quando si rese conto che i contenuti delle riunioni erano esclusivamente filocomunisti74.
Abbiamo invece poche serie testimonianze di maturazioni verso il comunismo. Il caso più eclatante è quello di Fidia Gambetti, ufficiale del XXXVIII Battaglione Camicie Nere da montagna Asti, il quale viene prestamente riconosciuto come un giovane e attivissimo funzionario-intellettuale del Partito fascista, a cui un istruttore politico propone un’operazione letteraria:

Il fuoruscito gli parla dei littoriali, delle posizioni di fronda, sa tutto su coloro che si erano esposti sulle riviste culturali, conosce i nomi dei giovani e i titoli delle riviste. Gli rivela che anche lui, Gambetti, era stato considerato uno di quei giovani “da tenere d’occhio”, e gli parla di un fuoruscito di Asti, Felice Platone, che riceveva “La Provincia di Asti”. Gambetti constata la parziale, semplificata seppur attenta conoscenza della realtà italiana da parte dei comunisti, egli sottolinea la distanza delle due esperienze, sottolinea la difficoltà di capire ma anche di farsi capire da gente che ha vissuto altre situazioni. Gambetti mostra in modo estremamente sincero la difficoltà del suo travaglio, la difficoltà di ritrovare nuove direttrici che gli altri danno per acquisite ma che gli è ancora difficile accogliere; gli è difficile scaricare ideali che continuano a sopravvivere in lui come “coni d’ombra” e che gli impediscono una definitiva chiarificazione interiore. Poi il fuoruscito gli porta un quaderno e delle matite: è l’inizio della revisione per Gambetti. I comunisti, invitandolo a scrivere poesie prima, la ricostruzione della sua vita poi, riattivano l’intellettuale. Gambetti approfondisce l’esame di coscienza: è la svolta.75

Gambetti comincia così un’approfondita ricostruzione autobiografica, pubblicata a puntate su L’Alba tra il ’44 e il ’45 con il titolo “Pagine di un diario segreto”, a partire dagli anni della prima formazione (1917-’30), segnata anche da quell’identità socialista della famiglia e dell’ambiente forlivese in cui era nato, spiegando coerentemente il passaggio prima al fascismo giovanile rivoluzionario e, successivamente alla “illuminazione”, al comunismo. I redattori dell’ Alba lo contattano subito e lo sollecitano a completare il diario: l’apprezzamento del suo lavoro intellettuale e il riconoscimento della validità dialettica della sua critica lo avvicinano ai dirigenti comunisti, dai quali gli giungono correzioni e indicazioni morali e l’invito a “reimpostare la propria figura di intellettuale, in un nuovo rapporto con il popolo, soprattutto in un nuovo sistema di rapporti di classe”. Il passaggio è compiuto.
Un’altra “conversione”, su cui Maria Teresa Giusti ha potuto compiere un accurato studio grazie a un dattiloscritto inedito da lei consultato76, è quella di Danilo Ferretti; anch’egli, guarda caso, ufficiale della Milizia col grado di capomanipolo (tenente), ex-legionario in Spagna e poi in Russia nel VI Battaglione Camicie Nere Montebello.
In conclusione, anche tenendo conto della particolare attenzione che i sovietici dedicarono allo studio del nemico, allo scopo di impiegare i suoi punti deboli nelle azioni di propaganda, non si può a mio avviso disconoscere che nei campi di prigionia sovietici esistesse un programma preordinato per il “lavaggio del cervello”. Per quanto usate il più delle volte in maniera grezza, vanificate dalla mancanza di coordinamento tra gli ufficiali dell’Nkvd e i commissari politici italiani e frustrate dalla soverchiante penuria delle condizioni di vita nei campi (e più ancora nel resto dell’Urss, di cui gli italiani poterono avere esperienza diretta), quelle specifiche tecniche del “lavaggio del cervello”, che gli psicologi statunitensi studiarono approfonditamente solo qualche decennio più tardi, furono ampiamente messe in opera nei campi di prigionia sovietici nel corso della seconda guerra mondiale. Difficile è però valutarne l’efficacia poiché non sapremmo dire quanto i cambiamenti delle convinzioni in coloro che poi abbracciarono il comunismo siano stati sinceri: pur senza generalizzare, e nel sincero rispetto umano delle opzioni personali di ciascuno, sembra ragionevole ipotizzare che la “conversione”, per molti “illuminati”, sia stata determinata durante la prigionia essenzialmente dai vantaggi contingenti che ne sarebbero potuti derivare e che sia stata poi confermata in maniera irreversibile dopo il rimpatrio a causa dell’ostilità dei colleghi ex-reduci oltre che della inopportunità di “cambiare di nuovo bandiera”. Sicché alcuni tra i “convertiti” abbracciarono definitivamente il comunismo e per decenni fecero le loro comparsate ai processi e ai convegni per cercare di ridurre le responsabilità dei fuoriusciti politici trasformatisi in deputati e senatori del Pci. Altri con tutta probabilità operarono segretamente come agenti al servizio dell’Unione Sovietica, e resta perciò ancora a tutt’oggi oscuro “il ruolo che i prigionieri antifascisti hanno avuto (se lo hanno avuto) all’interno dell’esercito e delle istituzioni italiane” 77, sicché non sapremo mai la portata dei danni che, nel dopoguerra, spie arruolate e addestrate a operare in segreto possono avere provocato all’Italia e all’Alleanza Atlantica.
Qualcuno già nei Campi aveva anche pensato, sulla base del modello sovietico, all’introduzione nelle nuove Forze Armate italiane di una sorta di commissario politico, o meglio di

appositi istruttori politici, scelti tra coloro che abbiano potuto occuparsi seriamente ed obiettivamente di questioni politiche nazionali ed internazionali e che siano particolarmente adatti a svolgere una intensa opera di agitazione e di educazione presso i reparti del nuovo esercito italiano.78

Durante il viaggio di ritorno, appena varcato il confine italiano, taluni prigionieri che avevano svolto attività di delazione vennero aggrediti e percossi dai colleghi; poi nei giorni successivi furono denunciati all’autorità militare con il supporto delle testimonianze di altri reduci, ma il Ministero della Guerra si rifiutò di procedere sulla base di accuse riguardo a comportamenti riconducibili a scelte di natura politica. Soltanto il sergente Antonio Mottola, uomo di fiducia dei russi posto al comando dei drappelli di lavoro, fu condannato a diciotto anni di reclusione per insubordinazione, ingiurie, minacce e violenze nei confronti di ufficiali. A impedire i procedimenti a carico delle spie e di coloro che avevano svolto attività antinazionale fu ovviamente il disposto dell’articolo 16 del trattato di pace che prevedeva che l’Italia non avrebbe perseguito i suoi cittadini, compresi gli appartenenti alle Forze Armate, per il fatto di avere espresso simpatia per la causa delle potenze Alleate o di avere agito in favore di quelle a partire dal 10 giugno 1940 sino alla data di stipulazione del trattato stesso (10 febbraio 1947)79. In soldoni dunque: il tradimento dello Stato in qualsiasi forma non era più da considerare reato, neppure per i militari.
Alcuni altri prigionieri (pochi), invece, reagirono fermamente già nei campi a qualsivoglia tentativo di indottrinamento, affermando la propria identità personale e quella nazionale e con tale comportamento seppero mantenere molti compagni (anche tra coloro, e furono i più, che non seppero e non vollero esporsi troppo scopertamente) sulla strada della lealtà al giuramento. Bruno Cecchini fu indubbiamente tra gli “irriducibili” e chi lo conobbe, come chi scrive queste note, non poté non restare colpito dal suo violento anticomunismo e dall’odio viscerale che egli dimostrava in ogni occasione nei confronti della nomenklatura e dell’ideologia socialista; al tempo stesso, tuttavia, i suoi ricordi (nei colloqui e negli scritti) non mancavano mai di un sentimento di affetto sincero nei confronti delle popolazioni civili con cui egli, durante la campagna di guerra, era venuto in contatto. Lo stesso memoriale qui riprodotto si concludeva con una lettera (espunta assieme a qualche altra parte di eccessiva lunghezza) idealmente indirizzata a un’anziana donna russa che col marito l’aveva ospitato nella sua isba: segno che nei loro ricordi e nelle loro passioni gli italiani sapevano ben distinguere, al di là delle posizioni politiche personali e di ogni banalizzazione, il comportamento delle singole persone. Il medesimo sentimento affettivo ricorre agli albori dell’opera artistica di Carlo Romoli che nel 1946, appena rimpatriato, disegnò frequentemente volti di uomini e donne russi, “perché è a loro che deve andare la nostra Gratitudine, la riconoscenza di tutti coloro che sono tornati, ed io fra questi, perché sono ancora qui, che scrivo” 80.
Lo stesso sentimento di riconoscenza è nei ricordi di Franco Martini, che confronta due donne, una fuoriuscita italiana e una russa, anch’egli riservando rispettivamente la più profonda avversione all’istruttrice politica e la più sincera simpatia umana alla donna pietosa:

Prima, quando entrammo nel campo, la Sig.ra Torre urlò, a noi che battevamo i piedi per il freddo: “A Mussolini battevate le mani, ora qui battete i piedi!”. Ed ogni volta che qualcuno moriva, immancabile sul suo volto compariva un sorriso, un sorriso da iena.
Ben altro sorriso vidi sul volto di quella giovane donna russa, tutta vestita di bianco, che mi prese in braccio appena uscito dal lazzaretto perché dichiarato “guarito” (potevo pesare una trentina di chili!). Io piangevo perché mi avevano dato un paio di scarpe che non mi entravano assolutamente ed avevo visto che fuori c’era la neve (era il marzo del 1943). Mi prese in braccio con un sorriso dolcissimo (lo ricorderò per il resto della mia vita), chiamò il russo e gli fece cambiare le scarpe. Poi mi diede un grosso bicchiere di latte.81

Il migliore epitaffio del fallimento del “lavaggio del cervello” nei campi sovietici è stato scritto in un recente e documentato saggio di Luca Vaglica, col quale chiudiamo questa “introduzione”:

Mentre le epidemie mietevano migliaia di vittime tra coloro che erano sopravvissuti alle battaglie ed ai trasferimenti verso i campi d’internamento, il vincitore si prodigava ad offrire alle migliaia di prigionieri il verbo della propaganda. […] Questo fu senza dubbio l’aspetto che rese più difficile, a livello psicologico, la condizione delle migliaia di prigionieri italiani, tedeschi, austriaci, ungheresi e rumeni, una volta varcati i cancelli dei lager. 82

Note

48 Maria Teresa Giusti, I prigionieri italiani in Russia, Bologna, Il Mulino, 2003.
49 Cf. Garth S. Jowett-Victoria O’Donnel, Propaganda and persuasion, Newbury Park, Sage, 1986; Denis McQuail, v. “Propaganda”, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991-’97.
50 Tali erano ad esempio le finalità della propaganda inglese nei campi di prigionia in India, che certamente non si faceva scrupolo di usare le tecniche più sottili per conseguire i suoi scopi. Si ritiene tuttavia che i governi democratici, pur senza rinunciare alla “manipolazione”, rispettino un minimum di principi democratici.
51 Valdo Zilli, “Gli italiani prigionieri di guerra in Urss”, in Gli italiani sul fronte russo, a cura dell’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia, Bari, De Donato, 1982, p. 310-311.
52 Luca Vaglica, I prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica tra propaganda e rieducazione politica: “L’Alba”1943-1946, Civitavecchia, Prospettiva Editrice, 2007, p. 143.
53 Nina Bocenina, La segretaria di Togliatti: Memorie di Nina Bocenina, Firenze, Ponte alle Grazie, 1993, p. 25.
54 Le attività della Scuola sono descritte nel volume dell’ufficiale che, con lo pseudonimo di Orlov, era allora direttore dei corsi: Nikolaj Terešcenko, L’uomo che “torturò” i prigionieri di guerra italiani, Milano, Vangelista, 1994.
55 Benassi, Il processo D’Onofrio e la verità, cit., p. 55 (1949), p. 49 (2008).
56 L’Alba, n. 1 (10 febbraio 1943).
57 L’Alba, n. 40 (15 gennaio 1944).
58 L’Alba, n. 15 (20 luglio 1943).
59 L’Alba, n. 16 (27 luglio 1943).
60 Carlo Vicentini, Noi soli vivi: Quando sessantamila italiani passarono il Don, Milano, Cavallotti, 1986, p. 220.
61 Ivi, p. 216 passim.
62 Settimo Malisardi, Presente alle bandiere, APE, Bologna, 1976, pp. 171-172.
63 Luigi Venturini, La fame dei vinti: Diario di prigionia di un sergente della Julia in Russia, Udine, Gaspari, 2003, p. 128-129, e Carlo Caneva, Calvario bianco, Udine, Grafica Friulana, 1967, p. 71.
64 Le vicende di coloro che furono rimpatriati soltanto nel 1954 sono raccontate in: Francesco Bigazzi e Evgenij Zhirnov, Gli ultimi 28: La storia incredibile dei prigionieri di guerra italiani dimenticati in Russia, Mondadori, Milano, 2002.
65 Per questi spunti rimando al mio “I militari italiani nei campi di prigionia sovietici: tra lavaggio del cervello e resistenza”, Rivista Marittima, a. CXXXVIII, n. 1 (2005).
66 Giusti, “La propaganda antifascista…”, cit.
67 L’espressione “lavaggio del cervello”(traduzione di brainwashing, dal cinese hsi nao ) proviene dal titolo del libro di Edward Hunter, Brainwashing in Red China, New York, Vanguard, 1951, nel quale a partire dall’esperienza dei prigionieri delle Nazioni Unite in Corea si cercava di spiegare, in maniera intenzionalmente un po’ inquietante e tutt’altro che scientifica, strumentale al macartismo, la tecnica che permetterebbe di svuotare la mente dei prigionieri e riempirla con altre e diverse idee. Detto metodo, utilizzato nei campi cinesi sin dal 1949, sarebbe stato svelato da un manoscritto segreto dello scienziato russo Ivan Pavlov, la cui esistenza peraltro non è mai stata dimostrata. Esemplificativo delle suggestioni del periodo è il film di John Franckenheimer, The Manchurian candidate , una produzione USA del 1962 con Frank Sinatra, Laurence Harvey, Angela Lansbury et alii . Per il problema in quegli anni cf. Joseph Zack Kornfeder, Brainwashing and Senator McCarthy , New York, Alliance, 1954. Il più recente studio italiano, che affronta il problema anche in relazione alle sette religiose, è quello di Massimo Introvigne, Il lavaggio del cervello: Realtà o mito? , Leumann (Torino), Elledici, 2002. Cf. anche il romanzo di Charles Howe, Il campo degli uomini perduti , Milano, Baldini & Castoldi, 1966.
68 Edgar H. Schein, “Reaction patterns to severe, chronic stress in American Army prisoners of war in the Chinese Republic”, Journal of sociological issues , n. 3 (1957); Edgar H. Schein, Curtis H. Barker, Inge Schneier, Coercive Persuasion: A socio-psychological analysis of the “brainwashing”of American civilian prisoners by the Chinese Communists , Norton & Co., New York, 1961.
69 L’Alba , n. 30 (2 novembre 1943).
70 Robert Jay Lifton, Thought reform and the psychology of Totalism: A study of “brainwashing”in China , New York, London, 1963.
71 Margaret Thaler Singer, Cults in our midst, Jossey-Bass, San Francisco, 1995.
72 L’Alba, n. 46 (26 febbraio 1944).
73 L’Alba, n. 127 (15 settembre 1945).
74 Martini, Fui prigioniero in Russia, cit., p. 57.
75 Luca Gillone, “Fidia Gambetti: Dal fascismo giovanile al comunismo”, Asti contemporanea, a. VI, n. 6 (1999).
76 Giusti, I prigionieri italiani in Russia, cit., p. 150-151.
77 Ivi, p. 217.
78 L’Alba, n. 67 (23 luglio 1944).
79 “Article 16: Italy shall not prosecute or molest Italian nationals, including members of the armed forces, solely on the ground that during the period from 10 June 1940 to the coming into force of the present Treaty, they expressed sympathy with or took action in support of the cause of the Allied and Associated Powers”.
80 Romoli, “Suzdal che portiamo sempre nel cuore”, cit., p. 13.
81 Martini, Fui prigioniero in Russia, cit., p. 118-119.
82 Vaglica, I prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica, cit., p. 87.