La vita al Campo 160: che fisico, il fisico degli scampati, e che fame la fame!

   La vita nel lager continua nell’inedia e con la solita, incrollabile speranza, soprattutto con la stessa fame di sempre, che è sempre più fame. Che fame è la fame, gente! Tornano intanto la primavera e l’estate insieme; l’aria si fa tiepida e poi calda; la natura tutta si desta dal letargo e con forza risveglia l’intero creato. Il sole solletica e stuzzica le assopite e ammuffite vigorie (scarse per la verità) dei voienni, dei prigionieri.

   Nel programma cultural-ricreativo e social-proletario, anch’esso sensibile ai mutamenti stagionali, figurano pure esercizi fisici e sport di massa. - Mens sana in corpore sano - pensano in molti ma non lo dicono perché certi detti possono suscitare incomprensioni ed oscuri pensieri, oltre a guai. Meglio star sul sicuro al campo 160 di Suzdal’, non si sa mai. La cultura fisica è variegata: palla a volo, campionato di calcio con palloni fatti di stracci tenuti assieme da legacci di fortuna e poco resistenti; incontri di pugilato, corse senza ostacoli perché superarli sarebbe un grosso problema; saggi ginnici depurati da reminiscenze note e compromettenti. Quella culturale non è da meno, anzi cresce, aumenta ogni giorno d’intensità e di volume ma è sempre la stessa: biblioteca, conferenze, appelli, teatro con rivista e spettacoli vari (senza satira alcuna tranne che per le ideologie clerical-fasciste), il giornale Alba, quello murale, le discussioni, i colloqui, le tavole rotonde, gli aggiornamenti e gli indottrinamenti d’obbligo.

   Il giornale murale, che bello! Che scoperta geniale del comunismo ideologico! È una fantastica e progressistica trovata letteral-giornalistica della cultura proletaria di massa in vigore nei paesi democratici dove vige il libero pensiero, nella libera informazione informata, del popolo lavoratore. Pilastro della pluralità di stampa non stampata ma scritta, dove ognuno può far scrivere non ciò che pensa (che, giustamente, poco interessa alla collettività collettiva), ma quello che interessa al gruppo, rappresentato dal collettivo che incarna gli interessi di tutti e degli uni che son poi le parti indivisibili del tutto, cioè del popolo intero, nessuno escluso tranne la nomenklatura che è tutta una parte di singoli tutti più tutti delle singole parti del tutto. Chiari concetti in un paese comunista; poco comprensibili per chi ha avuto la sventura di nascere in un paese capitalista. Da questa invenzione morale di giornale murale immorale scaturisce anche una nuova organizzazione del lavoro, detta lavoro di gruppo, che si svolge mediante una operosa e continua interazione del singolo col tutto, degli uni con gli altri e con tutti, cioè col popolo che, proprio perché popolo, significa nessuno e conta meno di uno, eccetto qualcuno che facendo parte del partito diventa il tutto e decide per tutti, cioè per il popolo intero. Considerato però che il lavoro deve essere pur fatto da qualcuno, il partito unico, in nome e per conto del popolo tutto, lo programma e l’affida pianificato al gruppo il quale, con un appropriato lavoro di gruppo, lo trasmette per la realizzazione al singolo che poi lo esegue lavorando non certo per utilità di sè stesso, che è un singolo, ma per l’intero gruppo che è una parte del tutto e quindi del popolo che è un tutto più tutto di tutti e di nessuno. Alla teoria del singolo, del gruppo, del tutto e di nessuno fa eccezione, per diritto di costituzione, quel tale qualcuno, cioè l’unico dell’unico partito, il quale, pur essendo un uno diventa un tutto-uno più importante del singolo, della parte e del tutto-comune, cioè del popolo. Teoria anche questa un po’ confusa e complessa, forse poco comprensibile da chi non ha avuto la grazia di nascere nei paesi del comunismo reale rivoluzionario e democratico, ma semplice e chiara nel paese del tutto e dei tutti, o meglio del sistema delle parti, del tutto e di nessuno, tranne uno, cioè delle Repubbliche Socialiste Sovietiche o sovietizzate, ch’è la stessa cosa.

   Altre interessantissime innovazioni sono le conferenze proletarie, tenute da un membro del collettivo al popolo prigioniero, cioè ai celoviek con la mente ottenebrata da false ideologie. Un oratore, scelto dal collettivo, studia un argomento da illustrare agli ascoltatori. Tema: “la funzione del cervello, centralina elettrica del corpo umano”. Il docente (si fa per dire) non è medico ma fa lo stesso, in quanto ha approfondito le ricerche su testi vari di pronto soccorso e arricchito il sapere da fonti pluralistiche varie. Svolgimento:

   ”La moderna neurologia, cioè quella complessa scienza che studia l’anatomia e la patologia e altro ancora, ha individuato nelle cellule terminali nervose i protoni...”

   “Scusi, compagno oratore”, dice un medico ascoltatore, “forse allude ai neuroni?”

   “Sì, io li ho chiamati protoni, ma il termine ha poca importanza; quello che conta è il concetto, le idee che fanno lievitare i popoli e la democrazia progressista”.

   Beh! Lasciam perdere; quello che dispiace è che nessuno di noi, prodotti avariati delle scuole retrograde, non ha mai pensato com’è semplice, nei paesi del socialismo progressista, creare un generale o uno scienziato: basta che il collettivo cacci in testa a qualcuno un cappello e il gioco è fatto.

   La trovata più seria del collettivo resta però quella escogitata per risolvere i gravi e molteplici problemi che assillano spesso i prigionieri (“ospiti”, per il giornale) del lager. C’è un grave problema che oggi tormenta la comunità? Tranquilli insofferenti supplicatori, c’è chi pensa ai vostri desideri che son poi dolori: il collettivo sceglie una speciale Commissione ad hoc e nomina come presidente generalmente il più grosso bazzurlone, che tiene in serbo per ogni situazione, il quale esaminando la complessa situazione fa solitamente una grossa confusione tanto che la promessa soluzione si risolve in una semplice illusione, che in verità non si può definir risoluzione, ma sicuramente una grossa affermazione della nostra nomenklatura in gestazione.

   In questo euforico clima rinnovatore, il c.b., pervaso dal furore sportivo che aleggia nel lager, predilige la boxe: tre round di circa quattro minuti ciascuno e intervalli doppi per evitare che gli incontri terminino con un KO di entrambi i pugili per scadenti energie e mancanza di fiato. Anche le partite di calcio, che suscitano interesse e tifo a non finire, hanno tempi di durata adeguata alle reali capacità e possibilità di resistenza dei calciatori: due tempi di quindici minuti ciascuno, senza recuperi. In palio, per il Girone Distrofici, una coppa di legno scolpita in maniera egregia in un pezzo di tronco di bianca betulla. Nel torneo internazionale, al quale partecipano prigionieri romeni, ungheresi, tedeschi e di altre nazioni, la squadra italiana si fa onore grande.

   Il fatto più entusiasmante e più bello di questi giorni tiepidi e operosi è però rappresentato dall’ordine emesso dal comandante del Campo che autorizza i prigionieri, se lo desiderano, a recarsi a lavorare nei kolkos, nei sovkos o al bosco per svolgere le mansioni di solito attribuite ai cavalli, cioè trasportare (meglio: trascinare a dimora) i tronchi abbattuti. Il c.b., che è spesso insofferente, sì, e qualche volta anche incosciente, ma non stupido certamente, pensa per un poco e poi prende una decisione: al kolkos, via. Qualcosa in più da mangiare si troverà pure in campagna e, inoltre, quei vecchi mugiki non sono antipatici come quelli dalle mostrine azzurre o altri assimilati. In generale sono povera e brava gente; benestanti poco, liberi meno, rassegnati ad una vita grama tutti. Nell’attesa frenetica di ottenere il permesso di uscire da quelle ossessionanti mura, il c.b., in merito già erudito, pensa bene di documentarsi come meglio può sulle ferree regole vigenti nei paesi socialisti a proposito del lavoro. Non certamente sui pochi diritti dei lavoratori, operai e contadini poco importa, ma sui molti doveri, soprattutto sulla norma che vige in qualsiasi attività o professione; sullo stachanovismo e sui pelandroni e infine su Popòv che è l’artefice indiscusso di ogni scoperta, di qualsiasi invenzione. Che fariseo, che spudorato mentitore era stato il Minculpop nostrano. Ci aveva fatto credere che Marconi fosse l’inventore della radio; macché, era un ladro. Ci raccontava che Hertz si fosse messo ad approfondire la teoria elettromagnetica di Maxwell e compisse ricerche di elettromagnetismo sino ad arrivare, nel 1887, alla scoperta delle onde elettromagnetiche dette poi onde hertziane. Balle, tutte balle! Le onde di Hertz non erano altro che onde marine. Dava per certo che Galvani, dall’affermazione dell’elettricità animale, avesse sviluppato un complesso di leggi bioelettriche che in seguito favorirono lo sviluppo di discipline medico-biologiche. Fandonie, vergogna! Galvani aveva solo spellato una rana per friggerla assieme ai ranocchi. Sui testi scolastici fascisti si leggeva che Torricelli si fosse occupato del moto in relazione alla balistica e di idrodinamica; soprattutto della pressione atmosferica affermando che ad essa era imputabile la salita dell’acqua nelle pompe e non perché attirata internamente dal vuoto secondo la vetusta teoria aristotelica dell’horror vacui da parte della natura. Sciocchezze, favole per bambini e bambine, nient’altro! Che spudorato, che diabolico mentitore, che reazionario quel Minculpop fascista. Solo e soltanto Popòv aveva generato il tutto; gli altri avevano carpito al compagno scienziato idee, scoperte e invenzioni.

   Ritornando con la mente alla norma, legge ferrea e indiscutibile del lavoro collettivo, allora: tre metri cubi di legna da tagliare al giorno per ogni boscaiolo; quattro vagoncini di carbone da riempire al dì per ogni minatore; cinque colloqui giornalieri da espletare per ogni agit-prop; e al kolkos? Nonostante l’impegno e la volontà, il c.b. non riesce a sapere quanti cavoli, o crauti, ogni giorno un lavoratore della terra deve piantare o estirpare; quante carote o pomodori contare o raccogliere; quanti metri di terra zappare o vangare. – Pazienza, - mormora tra sé il voienni agricoltore - alla norma non accertata supplirà degnamente la vituperata iniziativa privata del singolo -. E resta in trepidante attesa dell’accettazione della domanda presentata allo starosta, al capo.

   Un certo mattino, chiaro e sereno, il c.b. con altri prigionieri, sotto adeguata scorta militare e al comando di un soldato italiano pure lui prigioniero, partono dal Campo per un Sovkos di Suzdal’. Che condottiero, il militare Mottola57, popolo! Che capo il nuovo soldato rieducato dalla nomenklatura, gente! Democratico, progressista, compagno e tutto di un pezzo; tipico rappresentante del nuovo esercito popolare qua in gestazione e fulgido esempio di rivincita della truppa proletaria sulla classe ufficiali fascisti e borghesi. Nessun preparativo per la partenza in quanto non c’è niente da preparare e poi via, in marcia a rabotare, a lavorare per la collettività.

   La vista della campagna russa piatta e sterminata, dell’orizzonte infinito, della gente comune ci fanno sentire ancora vivi e danno un senso di libertà, vigilata sì, ma almeno di semilibertà non soffocata da quelle sentinelle col mitra spianato e dalle tetre, alte mura che a mala pena ti fanno vedere un fazzoletto (meglio: un francobollo) di cielo.

   Ecco l’azienda di Stato, ma in che stato è l’azienda dello Stato! Nel magazzino c’è di tutto e di niente: gli utènsili più o meno complessi sono guasti e parecchi abbandonati nell’ampio spiazzo, cibo prelibato per la ruggine; molti utensìli o attrezzi sono inutilizzati perché ce ne sono in abbondanza (ventiquattro martelli nuovi di cui solo quattro usati); altri, necessari, mancano addirittura e da un anno li attendono dal centro o dal piccolo Padre (non si trova né un cacciavite, né una pinzetta). Tre trattori, da vecchia data, fermi in cortile attendono un pezzo di ricambio; i loro motori sono smontati, gli elementi sparsi un po’ in qua e in là, all’addiaccio perché non vadano a male. Che organizzazione, che efficienza, che risparmio in una economia pianificata e centralizzata e soprattutto programmata!

   Il nacialnik, lo starosta, cioè il capo del Sovkos, squadra con occhio clinico i prigionieri; fa loro un lungo predicozzo, dà in mano a tutti i celoviek un raschietto triangolare affilato e urla, tramite l’interprete Mottola che anche lui grida, brevi ordini:

   “Rifare le bronzine ai pistoni, osservare la norma, non parlare e davai bistrà”.

   Il c.b., che conosce sì le bronzine ma in vita sua non ne ha mai adattata una; che non è uno stachanovista ma nemmeno un pelandrone, tanto meno un mangiapane a sbafo, tenta di chiedere spiegazioni sia al russo che al connazionale, ma viene zittito con un educato, sgarbato e perentorio:

   “Lavora, stai zitto e sbrigati, fascista”.

   “Va bene, agli ordini tovarisc!”

   Si avvicina ad un bancone dove, in una morsa, c’è una biella ben stretta; ne vede altre tre poggiate sul pianale, quindi pensa: quattro bielle con due bronzine ciascuna uguale ad otto bronzine; ci sono, ecco la norma; bisogna che mi affretti. Prende il raschietto e comincia a raschiare; anche gli altri raschiano, tutti raschiano e raschia tu che raschio anch’io ad un certo punto il c.b. ha raschiato tanto che su un lato della bronzina il metallo bianco, che è tenero, è sparito del tutto tanto che già fa capolino il metallo scuro, che è di bronzo e duro che non si riesce a raschiare.

   - Qualcosa non quadra mondo cane, forse ho raschiato troppo - dice fra sé il c.b., - forse ho raschiato troppo, probabilmente ho sbagliato; mi dispiace anche, mi sento mortificato ma onestamente non è colpa mia e... e... -

   E poi s’accorge della gravità del danno qualche giorno dopo quando, come al solito, convocato alla Kommandantura si sente apostrofare dal severo terzetto inquirente e affibbiare una nuova qualifica non specialistica in meccanica:

   “Tu reazionario e fascista e ora anche sabotatore della patria socialista, da?”

   “Ma chi glielo ha detto, miseria ladra?”, sbotta arrabbiato il c.b.; “io non ho rovinato la bronzina per sabotare qualcosa o qualcuno; mi dispiace anche dell’inconveniente, ma che posso farci? Non sapevo nemmeno da dove cominciare per adattare la bronzina. Ho tentato di dire al nacialnik e a quel paesano bello di vice comandante della brigata lavorativa che non avevo mai fatto un lavoro del genere in vita mia, ma entrambi mi hanno risposto di rabotare, star zitto e basta; non mi hanno né ascoltato, né creduto e allora cosa dovevo fare? Far conto di raschiare o raschiarmi le unghie? E passi per lo starosta che potrebbe non aver capito il mio parlar russo, come dire, dialettale; ma quell’altro, che parla italiano come me, perché ha fatto conto di non capire e mi ha urlato di star zitto e lavorare? Mi risponda lei che sa tutto; dica, dica pure”

   “Zitto tu, tu sabotatore dell’Unione Sovietica”, risponde il russo.

   “Tu sabotatore della patria socialista”, aggiunge l’interprete nostrano.

   “Niente lavorare, niente Italia”, conclude il terzo assimilato.

   Per la verità e per la storia, anzi per le storielle, è giusto ricordare che non soltanto un sabotatore dell’Urss (il c.b.) venne scoperto e denunciato al comandante del lager perché ritenuto il peggiore del gruppo; anche due membri altamente non qualificati della stessa brigata lavorativa, che avevano raschiato troppo, furono redarguiti dal soldato Mottola che però non si abbassò a denunciarli, ma li punì direttamente con un forte calcione nel sedere gridando a squarciagola:

   “Buoni a nulla, voi ufficiali; né al fronte, né al sovkos dai nostri amici compagni comunisti”.

   Durante la punizione a piede libero del comandante paesano e il rimbrotto verbale del nacialnik sovkosiano, che terminarono con la minaccia, poi avveratasi, della denuncia al capo della polizia politica del c.b. (denuncia più che appoggiata proposta dal fraterno commilitone che aggiunse anche, tronfio e altezzoso: “Questo bell’esempio di ufficiale qui va punito meglio degli altri perché è uno dei più reazionari e fascisti del Campo 160”), il c.b., per non esplodere dalla rabbia e non guardare in faccia simili rappresentanti proletari rifatti, teneva lo sguardo abbassato e scandagliava i rottami che, gettati alla rinfusa dintorno, destavano attenzione e curiosità. Vide poco distante, a terra, un pezzetto di seghetto di acciaio arrugginito; pensò che nella vita tutto, prima o poi, può tornare utile, e con furtiva manovra fece in modo che quell’avanzo di utensile finisse dentro alla scarpa scalcagnata che il povero celoviek oramai da anni indossava; scarpacce, in verità, ma che riuscirono a portare nel lager quel prezioso aggeggio dal quale si potevano ricavare, oltre che una piccola sega da ferro, anche un altro affilato coltello. Arnesi non per dar inizio ad una insurrezione armata o controrivoluzionaria, ma semplicemente per soddisfare le modeste necessità quotidiane o per i piccoli bisogni dei celoviek, privi di tutto. Il tanto sospirato lavoro al kolkos o al sovkos finì, dopo un solo giorno, in maniera imprevedibile e disastrosa.

   Intanto la vita che scorre nel Campo è sempre la stessa; monotona, triste, assillante, noiosa. Il terrore delle partenze improvvise senza ritorno, o per la Scuola di mistica comunista al Campo 27 di Mosca, o addirittura per zone più distanti, cioè nel mistero; degli interrogatori senza fine; delle delazioni ripugnanti, a poco a poco si attenua e svanisce nell’apatia e nell’abitudine al peggio. Abitudine ormai consolidata dal fatto che quando uno di noi crede di averlo raggiunto, il peggio, appunto si rende conto che ci può essere sempre un peggio peggiore; perciò prima si fa l’abitudine al peggio e poi al peggio peggiore e così via.

   Vita durissima sul piano psichico, ma ancora sopportabile per molti di noi; vita da cani rognosi sul piano fisico, difficilmente superabile per tutti. Che fame! E la fame è come l’aria; dappertutto si avverte e si sente e si tocca. Infatti se molti celoviek si premono con un dito lo stomaco, riescono a percepire distintamente il duro della colonna vertebrale; segno famelico indubbio, questo. E che fisico, gente, il fisico degli scampati alla morìa staliniana! I polpacci hanno preso il posto delle cosce; i polsi si sono sostituiti ai polpacci; le costole della gabbia toracica, le scapole, lo sterno, tutte le vertebre dalle cervicali alle sacrali, osso sacro compreso, coccige e bacino pure, si leggono meglio al tatto che su una radiografia diagnostica. E l’aspetto? Che magnificenza di colori l’apparenza esteriore! Cachettico è dir poco; colorito terreo o bianco smorto è un complimento carino; occhi stralunati ipertiroidei o infossati, caratteristica genetica di tutti i prigionieri. Il peso, poi, non tien conto dei dati somatici o dell’accrescimento ponderale e staturale precattura; in genere tutta la comunità celoviekiana porta a spasso trenta-trentacinque chilogrammi di ossa, pelle, frattaglie comprese e qualche cencio pure. Stomaco vuoto, fame da lupi che stuzzicano continuamente la fantasia impegnata notte e giorno alla ricerca di piatti prelibati, reali o inventati poco importa, ma sempre ricolmi di qualcosa che se non altro sazia la mente. Ghiandole salivari, nemmeno dei dinosauri o delle balene, hanno mai prodotto tanta saliva quanto quella prodotta in un’ora dalle ghiandole di un prigioniero russo. E sia stramaledetto quell’azzeccagarbugli di mediconzolo che per primo raccomandò al paziente: stomaco leggero per dormir bene; dieta parca e modesta per campar di più.

   Il momento triste di una triste giornata è la sera, quando l’aria imbruna e scende il buio che a Suzdal’, e per almeno dieci mesi all’anno, è già buio alle cinque della sera; ovviamente ad occhio e croce, perché di orologi nessuno ne possiede; preda bellica furono, quelli. Un barattolo di latta arrugginita, pieno di petrolio e una fettuccina a mo’ di stoppino dentro, rischiarano alle prime ombre della sera il locale dove una ventina di persone o più convivono a stretto contatto di gomiti per il limitatissimo spazio a disposizione. Poi tutto, vano e gente, piombano nel buio più cupo e nel silenzio più profondo, cimiteriale. Quando passa la sentinella russa, verso le 19 o quasi, oltre agli stoppini anche le voci sommesse si spengono. Voci scambiate fra compagni di sventura in genere, ma anche e soprattutto fra amici cari e fidati. Al mattino, al chiarir dell’alba, alla sveglia le narici sono nere come la cappa del camino e forse di più. Il fumo denso e untuoso del petrolio bruciato, condensatosi nel ristretto locale dalla finestruccia ben tappata per evitare al freddo marosc di entrare, ha lasciato il segno in ogni dove, specialmente nell’aria che tutti hanno dovuto respirare. Che polmoni di acciaio quelli degli scampati!