La parola del papa e dei vescovi - 35

OMELIA NELLA MESSA PER IL 40° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE

Basilica di San Petronio
Venerdì 19 aprile 1985

In questa basilica, dedicata al Santo che più di ogni altro è suo, la gente bolognese conviene e si raccoglie nei momenti più intensi e gravi della sua storia.
Qui siamo stasera venuti a quarant’anni da quel 21 aprile 1945, quando l’ingresso in città delle truppe polacche del generale Anders segnò la fine di un lungo incubo e diede consistenza alla speranza di avvenire migliore.
Ancora una volta questo tempio ci vede radunati a ricordare, a capire, a pregare, a tentare di diventare più saggi e più coerentemente cristiani.
Ricordare; anzi, ripensare i fatti lasciandoci illuminare dalla fede: la fede di Petronio, nostro grande e non dimenticato pastore, la fede dei nostri padri, la fede che vogliamo trasmettere intatta e fervida alle generazioni future.
Capire, cioè accogliere in profondità, nel loro significato perenne, i valori di libertà e di resistenza che questa commemorazione propone.
Pregare per i vivi e per i morti; per tutti i vivi e per tutti i morti, perchè tutti, oltre ogni possibile contrapposizione, abbiamo bisogno della misericordia di Dio e della salvezza portataci da colui che dei vivi e dei morti è il Signore e l’unico Giudice.
Diventare più saggi e più coerentemente cristiani: ogni saggezza anche umana ci invita a non esasperare, dopo quasi mezzo secolo, le lacerazioni del nostro popolo, ad abbandonare la cultura della sopraffazione, della emarginazione, della nostalgia di rivincita; e l’antica civiltà cristiana, che portiamo dentro di noi, ci spinge a riscoprire finalmente la difficile, la santa, la doverosa attitudine a perdonare e a rimettere i debiti dei nostri debitori, senza della quale non siamo neppure in grado di recitare con cuore libero il "Padre nostro".
Noi non abbiamo paura di ricordare. Sappiamo benissimo che la nostra storia — la storia che ha costruito Bologna, le ha dato un’anima, l’ha resa nobile e grande — non è cominciata quarant’anni fa: è una storia millenaria che sarebbe stoltezza voler ignorare. Ma sappiamo altresì che ciò che è avvenuto quarant’anni fa ha avuto nella vicenda di questo secolo un’importanza decisiva: tutto il travaglio di uomini che hanno saputo lottare, fino a dare la vita, per gli ideali che ritenevano giusti; tutta la grande sofferenza dei poveri e dei semplici che, senza aver voluto nessuna avventura ideologica e senza aver altro desiderio che quello di condurre in pace la propria esistenza onesta e laboriosa, hanno tuttavia dovuto pagare un prezzo altissimo di lacrime, di sangue, di dolore; tutto il dramma dei giovani strappati ai loro giusti affetti e troppo spesso costretti a diventare feroci e a farsi nemici e uccisori dei fratelli; tutto questo cumulo di accadimenti oscuri e angoscianti — come da un crogiuolo tragico ma non sottratto alla provvidenza misteriosa di Dio — ha originato un’epoca nuova, più consapevole e più matura.
Dalla luce che viene dalla divina parola, davanti a questo groviglio di casi, di passioni, di lutti, siamo oggi indotti più alla pietà che al giudizio; più che a esaltare o a condannare le persone, a cercare di discernere i veri valori, per continuare a salvaguardarli e a nutrircene, pur nelle mutate condizioni dei tempi.
Il primo valore che ci viene offerto è la liberazione, cioè la continua e instancabile conquista della libertà.
Libertà è parola che fiorisce sulle labbra di tutti ed è da tutti magnificata. Ed è anche una parola cristiana.
"Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà" (Gal 5,13), dice san Paolo ai cristiani di Galazia. Del resto, Gesù stesso, presentandosi come Messia alla sinagoga di Nazaret, aveva applicato a sè le antiche parole profetiche: "Il Signore mi ha mandato... per proclamare ai prigionieri la liberazione" (Lc 4,18).
Questi prigionieri siamo noi, gli uomini tutti, che crediamo di essere liberi e siamo quotidianamente insidiati dall’errore, dall’insignificanza, dal peccato, che inceppano il nostro cammino.
La libertà di Cristo, come si vede, è anzitutto interiore, si riferisce al cuore dell’uomo; e primariamente proprio questa libertà noi vogliamo e dobbiamo ogni giorno riguadagnare e difendere. Ma questa libertà dello spirito non è senza riverberi nel campo della vita civile. Chi custodisce come un proprio tesoro la redenzione che il Figlio di Dio ci ha regalato a prezzo del suo sangue, deve a se stesso, alla sua dignità e alla dignità dei suoi fratelli, di opporsi a tutte le forze che vogliono asservirci e di lavorare perchè la liberazione dell’uomo non si riduca a vuota parola.
L’uomo è libero quando può parlare senza essere intimidito da nessuno, può muoversi senza impacci, può scegliere a suo giudizio i suoi rappresentanti, può senza rischi manifestare pubblicamente la sua fede. E’ una libertà che noi abbiamo; e ne dobbiamo ringraziare il Signore, soprattutto pensando a quante nazioni nel mondo non sia ancora concesso questo bene primario dell’uomo.
Ma questo non basta: l’uomo è veramente libero, quando è libero dal bisogno, dalla paura del domani, dallo spettro della disoccupazione, quando non deve umiliarsi di fronte a nessuno per trovare lavoro, quando può concretamente educare i propri figli secondo le sue convinzioni e non secondo quelle che gli vengono imposte dal sistema. Una comunità di uomini è veramente libera quando può, nei fatti e non solo nei diritti astratti, avere una propria vita culturale, ricreativa, assistenziale.
E potremmo continuare a elencare questi traguardi ancora lontani di una società seriamente liberata.
La liberazione, più che festeggiarla, è il caso di proseguirla, perchè è un’opera ancora incompiuta e un’impresa che ancora attende di essere perfezionata.
Senza dubbio, il cristiano sa che il suo vero liberatore è Cristo, che, come dice san Paolo, "ci ha liberati per la libertà" (Gal 5,1). Tutti gli altri, che si presentano come liberatori, devono essere esaminati con attenzione, perchè non siano di quelli di cui ci parla la seconda lettera di san Pietro: "Promettono libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione, perchè uno è schiavo di ciò che l’ha vinto" (2 Pt 2,19).
E c’è un’altra persuasione propria del cristiano: solo chi nella fede accetta Gesù come l’unico Signore, può difendersi con logica ed efficacia dal pericolo di dover presto o tardi piegare il ginocchio davanti ad altri padroni. Dove c’è la fede, lì c’è la libertà.
Il secondo valore che ci è presentanto in questa commemorazione è la resistenza.
Noi onoriamo coloro che con grandi sacrifici hanno saputo interiormente resistere alla prepotenza e alla violenza, in vista di un avvenire migliore e più degno. Ma più che altro vogliamo raccoglierne la lezione sostanziale ed eterna: non si finisce mai di resistere alle forze malvagie.
I reduci, si sa, sono sempre più numerosi dei combattenti. Ma nelle battaglie per la civiltà dell’amore e per la piena vita dello spirito c’è soprattutto bisogno di impegno per il tempo presente.
Tanto più che anche la "resistenza" è parola cristiana, che noi ritroviamo ripetutamente usata nelle raccomandazioni che gli apostoli rivolgono alle prime comunità dei credenti, e quindi anche a noi.
"Prendete l’armatura di Dio — dice san Paolo — perchè possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove" (Ef 6,11). San Pietro esorta: "Resistete saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi" (1 Pt 5,9).
E quando siamo tentati di stanchezza e pensiamo di abbandonare il combattimento, la Lettera agli ebrei ci ricorda: "Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato" (Eb 12,4).
Noi chiediamo dunque il dono di una maggior fermezza d’animo e di una miglior chiarezza di idee: se è nostra indubitabile regola di comportamento il rispetto delle persone, la comprensione degli stati d’animo altrui e il desiderio di vivere in buona armonia con tutti, è nostro proposito altrettanto fermo di non fa mai pace con l’errore, con la menzogna, con la cultura di disperazione e di morte, che in ogni epoca tentano di soggiogare e avvilire l’uomo, immagine viva di Dio.

Questa è anche una celebrazione di suffragio per quanti quarant’anni fa sono periti nella grande tempesta che si è abbattuta sulla nostra regione. Divisi, contrapposti, ostili tra loro in quei giorni funesti, o anche vittime ignare e senza difesa di tensioni alle quali si sentivano estranei, tutti sono comparsi al tribunale dell’unico Dio, bisognosi tutti della sua trascendente misericordia. Noi eleviamo per tutti il sacrificio del Signore, perchè la morte li assimila tutti e rende tutti meritevoli del fraterno aiuto della nostra preghiera.
Meditiamo sulla loro sorte, ascoltiamo la loro voce: le loro vite brutalmente stroncate ci dicono quanto sia insipiente, crudele, senza esiti di bene per nessuno il magistero dell’odio; ci invitano a deporre i rancori che ancora avvelenano troppi cuori; ci esortano ad abbandonare anche le parole del malanimo e del disprezzo e a percorrere sul serio la strada della riconciliazione.
Tutti gli uomini che abitano questa nostra terra hanno gli stessi diritti. Questi diritti non sono posseduti da nessuno per titolo di conquista: vanno riconosciuti a tutti in forza della identica natura umana e della uguale appartenenza alla nostra libera comunità. Tutti possiamo e dobbiamo concorrere al benessere della nostra gente e a un futuro migliore da preparare per le età che verranno.
Tutti, per la loro dignità di persone, vanno rispettati, amati e, se si dà il caso, perdonati. Su ogni altro, il sentimento della fraternità deve prevalere nella nostra civica convivenza.
A Cristo, unico vero riscattatore degli uomini, per l’intercessione della Madonna di san Luca, che da secoli maternamente ci guarda e ci ispira dal suo colle, e di san Petronio, nostro maestro di fede e di vita, affidiamo la nostra implorazione: possa tutto il popolo bolognese vivere e prosperare nella libertà, nella pace, in uno spirito di concordia fattivo e sereno.

La parola del papa e dei vescovi
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