III capitolo - Sacerdoti

Nell'arco di poco più di un anno, dalla Liberazione al 18 giugno 1946, cadono in Emila-Romagna, uccisi dall'estremismo rosso, sedici sacerdoti.

Un sacrificio che si va aggiungere a quello altissimo già sopportato dal clero nel corso del conflitto, in cui perirono altri trentacinque religiosi in gran parte per mano nazifascista. 63

Nel caso dei sacerdoti, le uccisioni si concentrano esclusivamente nelle province a più forte radicamento comunista: Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ravenna.

Ad essere colpiti sono semplici parroci di campagna che abitano per lo più in canoniche isolate. Nella quasi totalità è difficile individuare una movente plausibile alla loro soppressione se non il feroce odio religioso che fa del sacerdote un naturale, anzi un privilegiato, bersaglio politico da colpire. Nella figura del sacerdote come rappresentante della Chiesa gli estremisti vedono il compendio simbolico dell'ordine politico e sociale d abbattere. Non importa che il clero abbia nella stragrande maggioranza simpatizzato per la Resistenza, offrendo appoggi e rifugio sicuro alle formazioni partigiane. Non importa che molti sacerdoti abbiano direttamente militato tra le file dalle Resistenza e che decine di loro siano stati uccisi nelle rappresaglie. Non importa neppure che anche molte delle vittime abbiano dato un contributo in viveri e denaro alla causa della Resistenza o svolto assistenza ai perseguitati dai tedeschi e dai fascisti in campo di concentramento. Il prete è un nemico, e come tale viene visto con sospetto e con diffidenza, quando non con vero e proprio odio. Basta il ricordo di qualche lontana simpatia fascista od una semplice voce, magari propalata ad arte, di aver intrattenuto rapporti con i tedeschi, od una predica in Chiesa di tono anticomunista, e scatta la condanna a morte. Nella determinazione a colpire i sacerdoti rivive poi l'antico e fortissimo sentimento anticlericale diffuso nelle campagne emiliane e già sperimentato nella violenza iconoclasta della "settimana rossa" del primo anteguerra; ed inoltre, almeno in alcuni casi, nella spinta ad uccidere si intrecciano motivi più o meno sordidi d'interesse personale di qualche bracciante od affittuario dei benefici parrocchiali, essendo la figura del prete non di rado collegata a quella del padrone "sfruttatore".

È bene comunque ripercorrere in successione temporale le singole tappe della via crucis affrontata dal clero emilianoromagnolo nel dopoguerra.

Don Domenico Gianni, parroco a San Vitale in Reno (Bologna), è la prima vittima. Lo fucila un gruppo di partigiani nei pressi del cimitero di Calderara, dopo averlo prelevato in Canonica, il 24 aprile 1945, a due giorni appena dalla Liberazione. È accusato di aver indicato, sul finire del 1944, ai tedeschi impegnati in un'operazione di rastrellamento, l'identità delle persone da catturare. In realtà si trattò di un tragico equivoco, poichè don Gianni era stato costretto da un ufficiale delle SS a salire sulla vettura e a girare per le strade del paese nel corso del rastrellamento. Alcuni dei parrocchiani che lo videro ritennero che fosse una spia e per tale ragione fu costretto a lasciare il paese, anche dietro consiglio del cardinale di Bologna Nasalli Rocca. Pensando di non aver fatto nulla di male e di potere agevolmente chiarire il suo comportamento in quella circostanza, commise l'errore di ripresentarsi in paese il giorno stesso della Liberazione. 64

Anche a don Carlo Terenzani, parroco a Ventosa (Reggio Emilia), un' imprudenza costò la vita. Era stato semplice cappellano della Milizia fascista, ma dopo aver subito due tentativi di rapimento pensò bene di ritirarsi nel rifugio sicuro dell'Arcivescovado di Reggio. Il giorno 29 aprile il Vescovo celebrò solennemente la Festa della Madonna della Ghiara e don Terenzani volle parteciparvi. Uscì mischiandosi alla numerosa folla. Ciononostante venne riconosciuto e caricato a forza su di un camion nel pieno centro di Reggio. È portato a Ventosa dove viene fatto girare per le strade tra scherni e dileggi. Poi alla sera la fucilazione nei pressi della chiesa di San Ruffino. 65

Raccapricciante è invece la sorte toccata al canonico della Collegiata di San Giovanni in Persiceto don Enrico Donati. Verso le 22 del 13 maggio si presentano in Canonica due individui per invitarlo in paese con la scusa di apporre una firma ad un documento. Don Donati è costretto a seguirli in bicicletta. Lungo la strada si aggiungono al gruppo altri quattro sconosciuti. Il sacerdote capisce il tranello e scende dalla bicicletta rifiutandosi di proseguire. Viene trucidato all'istante a raffiche di mitra. Gli assassini tentano poi di occultare il cadavere in un macero poco distante: infilano il corpo esanime di don Donati in un sacco e lo legano a due grandi sassi e lo buttano in acqua. Poi tornano in canonica a fare razzia dei beni del prete. 66

Don Tiso Galletti, parroco di Spazzate Sassatelli (Imola), viene invece freddato davanti alla porta della sua canonica, il 18 maggio 1945. Dalla motocicletta Guzzi che si ferma davanti alla porta della sua canonica scende un individuo e gli si avvicina, mentre un altro aspetta con il motore acceso. Avuta conferma dell'identità del prete gli spara a bruciapelo alcuni colpi di rivoltella. Poi la moto risale per compiere nella stessa sera altre missioni di morte nella zona. Il movente di questa uccisione, come di altre, viene fatto risalire ad alcune prediche "anticomuniste" fate dal sacerdote in Chiesa. 67

Pochi giorni dopo, il 21 maggio festa del Corpus Domini, a Campanile in Selva in comune di Lugo viene soppresso il parroco don Giuseppe Galassi. Chiamato da due persone ad accorrere sul luogo di un incidente automobilistico per prestare assistenza a dei feriti, don Galassi esce dalla Canonica e si inoltra con gli sconosciuti per i campi. Il giorno dopo i famigliari lo rinvengono cadavere lungo un fosso. Nella zona grava una un clima di terrore, al punto che nessuno si presenta a rimuovere il cadavere. Don Gianstefani, parroco in una località vicina, è costretto ad andare di persona con un carretto per raccogliere i resti dell'ucciso. "Durante l'occupazione si era recato qualche volta al comando tedesco per pattuire e placare l'esosità delle richieste. Sufficiente, in questa zona, per decretare la morte ad un prete". 68

Nella notte del 23 maggio 1945 due individui si presentano presso la Canonica di don Giuseppe Preci, parroco di Montalto di Zocca (Modena). Quando la domestica Teresa Tamburini va ad aprire, essi invitano il sacerdote a seguirli. La donna, che ha riconosciuto i due nelle persone di Giuseppe Galluzzi ed Ivo Zanni, si unisce al sacerdote. A poche centinaia di metri dalla canonica, Zanni estrae una pistola e fa fuoco sul prete. Poi gli assassini tornano in canonica e fanno razzia dei beni di don Preci. Alla Tamburini viene dato del denaro per comprarne il silenzio. E così per alcuni anni l'uccisione del parroco di Montalto resta un mistero. Poi, nel 1949, le indagini subiscono una svolta: la Tamburini confessa ed i responsabili vengono assicurati alla giustizia. Il movente accertato è quello dell'"odio antireligioso" e della rapina: gli assassini cercavano infatti "una forte somma di denaro incassata dal parroco per la vendita di alcuni capi di bestiame". 69

Di lì a poco nel modenese cade vittima un altro sacerdote, questa volta ad opera della banda del "triangolo della morte" di Castelfranco. Si tratta di don Giuseppe Tarozzi, parroco di Riolo di Castelfranco. Nella notte tra il 25 ed il 26 maggio, due vetture si fermano davanti alla porta della canonica di don Tarozzi. Alcuni sconosciuti, che si qualificano per "polizia partigiana", chiedono di entrare e di parlare con il parroco. Don Tarozzi comprende il pericolo e si barrica in casa insieme alla domestica e alla figlia di lei. Dall'esterno, visto che il prete non si decide ad aprire, con un'ascia abbattono la porta ed entrano in casa, mettono le mani su quanto capita loro a tiro, fanno salire don Tarozzi su di un camioncino e si dileguano nella notte. Il cadavere di don Tarozzi non sarà più ritrovato. I responsabili dell'omicidio del sacerdote e di altri numerosi delitti avvenuti nella zona di Castelfranco tra il 1945 ed il 1946 sono giudicati in un processo-fiume che si svolge nel 1951 alla Corte di Assise di Bologna. 70

Ancora nel modenese, nella parrocchia appenninica di Mocogno, si consuma un altro delitto. Nella notte tra il 9 e 10 giugno, Garibaldino Biagioli ("Tarzan") e Giacomo Rossi ("Bega") due ex partigiani dal passato poco raccomandabile, che si sono già resi responsabili di furti e di rapine, bussano alla canonica di Mocogno. Quando il parroco don Giovanni Guicciardi si reca ad aprire, gli intimano di consegnare cento mila lire. Il parroco protesta di non essere ricco, di non avere tanto denaro. I due allora salgono in canonica e rubano i soldi che trovano, oggetti ed indumenti. Poi ridiscendono e chiedono al prete di consegnare loro un grammofono. Il sacerdote si arrende e si avvia per andare a prendere l'apparecchio. Ma mentre don Guicciardi volta le spalle, improvvisamente "Tarzan" gli spara a bruciapelo un colpo alla testa. Qualche giorno dopo, nei pressi di Lama Mocogno, "Tarzan" resta ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Gli trovano addosso la maglia di lana di don Guicciardi. 71

L'omicidio di don Raffaele Bortolini, parroco a Dosso (Bologna), è consumato verso le 22, 30 del 20 giugno 1945, per le strade del paese. Il parroco si è appena recato a chiedere un mezzo di trasporto con cui recarsi il giorno successivo a Bologna, e sta rincasando in Canonica. Due individui nel frattempo sono entrati in paese ed ordinano il coprifuoco. Poi fermano don Bortolini, il quale tenta di divincolarsi e di fuggire. Fa in tempo a percorrere pochi passi ed una raffica di mitra lo raggiunge mortalmente. 72

Nell'afoso pomeriggio del 2 luglio 1945, don Giuseppe Rasori, parroco di San Martino in Casola (Bologna) è seduto tranquillamente nel suo studio. Sente una scampanellata e si reca ad aprire: sono due giovani che dicono di volere della legna, poi uno chiede di una rivoltella che dovrebbe, a suo dire, essere in possesso del parroco. Compreso il pericolo, don Rasori tenta di chiudere la porta, ma prima di riuscirvi è raggiunto mortalmente da un colpo di rivoltella al petto. Il cardinale Nasalli Rocca nella omelia funebre, di fronte alla bara di don Rasori, dice: "Ci chiudiamo sgomenti nel triste pensiero che i castighi di Dio non debbano cadere terribili su tutti, se la sete di sangue di menti sconvolte e traviate dovesse continuare a seminare vittime e se non ci levassimo concordi a farla cessare". 73

Crocette di Pavullo è una località isolata dell'appennino modenese in cui è anziano parroco don Giuseppe Lenzini, dal "carattere battagliero". Nelle sue prediche condanna apertamente i "metodi estremisti di far fuori la gente". Sono parole di troppo che gli costano la vita. Nel cuore della notte del 21 luglio 1945 il parroco viene svegliato dallo squillo del campanello della canonica. La domestica si affaccia ed il gruppo di persone che sta sotto chiede l'assistenza del parroco per un ammalato. Don Lenzini risponde che, avendo visitato l'ammalato la sera innanzi, sarebbe tornato soltanto la mattina dopo. A questo punto gli sconosciuti si avvicinano alla canonica con una scala iniziando nel contempo una sparatoria. Quindi i malviventi penetrano nella casa ed inseguono don Lenzini, che frattanto ha cercato rifugio nel campanile, lo raggiungono e lo trascinano fuori. Ad un chilometro dalla canonica, anche in seguito alle torture subite, don Lenzini sviene: ripresosi viene obbligato a continuare. Poi uno dei malviventi gli sferra un colpo con il calcio della rivoltella fracassandogli la fronte. Don Lenzini è finito con una scarica di mitra. Il cadavere è gettato in una piccola fossa e coperto malamente di terriccio. 74

Più volte la canonica di don Achille Filippi, parroco di Maiola (Bologna) era stata razziata, tanto da indurre il sacerdote a scrivere al cardinale una lettera in cui tra l'altro diceva: "Sono state ben cinque le visite che ho avuto e sono state inesorabili; lascio immaginare come mi sono potuto trovare. L'ultima volta, andato in chiesa per trovarvi conforto, alle sparatorie che udivo svenni e mi ritrovai a letto portato da loro e... lasciamola lì per non rinnovare "l'infandum dolorem". Coraggio ancora e speranza nel buon Dio". Prima della lettera giunge però la notizia della morte del prete. Evidentemente non soddisfatti di aver razziato tutti i suoi averi, i malviventi decidono di farla finita con don Filippi. La notte del 25 luglio 1945 irrompono in canonica, trascinano fuori il sacerdote e lo uccidono con due colpi di pistola. 75

Il parroco di Castelfiumanese (Bologna), don Teobaldo Daporto, viene invece ucciso con il forcale da un suo contadino nel pomeriggio del 14 settembre 1945. Mentre sull'aia sono a discutere circa la ripartizione di una castellata di mosto, ad un certo punto il contadino inferocito gli si scaglia addosso e gli spacca la testa con il manico dell'attrezzo. Constatata la morte di don Daporto, lo trascina per la tonaca fino ad un letamaio ove nasconde sommariamente il cadavere. Quindi si reca alla Camera del Lavoro per vantarsi di aver eliminato il proprio "pretepadrone". Viene subito fatto arrestare dai carabinieri e tradotto in carcere. E qui, approfittando di un momento di scarsa sorveglianza, l'assassino del prete, sconvolto da quanto ha appena compiuto, si lancia dentro ad un pozzo suicidandosi. 76

Nel pomeriggio del 5 dicembre don Alfonso Reggiani, parroco di Amola di Piano (Bologna), sta tornando a casa in bicicletta dopo aver visitato gli ammalati dell'ospedale di San Giovanni in Persiceto. Giunto a poche decine di metri dalla sua chiesa, due individui gli tagliano la strada. Un breve dialogo repentinamente e tragicamente concluso da una raffica di mitra. Sono le due nipoti, avvertite dagli spari, a trasportare il cadavere in canonica. Al funerale di don Reggiani intervengono pochissime persone: cinque bimbi della scuola e qualche donna. Su don Reggiani grava il falso sospetto che già era costato la vita a don Gianni, e cioè di aver fatto la spia per i tedeschi in rastrellamento nel dicembre del 1944 quando trecento uomini del paese erano stati ammassati in chiesa ed il parroco piantonato in canonica. Qualcuno pensa che sia stato lui ad indicare i nomi dei trenta partigiani che, dopo essere stati sommariamente processati, erano stati passati per le armi ai calanchi di Paderno. In realtà erano stati due disertori tedeschi ad indicare le persone da eliminare. 77

Anche il 1946 vede proseguire il martirio dei sacerdoti. Il 14 gennaio é la volta di don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli di Carpi (Modena), ad essere barbaramente soppresso. Don Francesco é stato assistente spirituale degli internati nel campo di concentramento di Fossoli durante la guerra. Ha portato conforto spirituale e materiale ad ebrei, antifascisti, prigionieri alleati. Dopo la guerra continua a prestare la sua assistenza religiosa ai fascisti che vengono rinchiusi a Fossoli. "La Voce del Partigiano", organo dell'ANPI di Modena, lo accusa di simpatizzare per i fascisti. A pochi giorni dalla pubblicazione di quell'articolo don Venturelli viene trovato morto sul ciglio di una strada non lontano dalla sua abitazione. Aveva seguito nella notte uno sconosciuto che lo invitava a prestare soccorso ad un moribondo ferito in un incidente stradale. Un espediente già usato in altre occasioni ma che ha quasi sempre effetto su un sacerdote. Il fatto suscita violente polemiche. La Dc di Modena addita "La Voce del Partigiano" come mandante di quel crimine: "È l'articolo di quel foglio che ha armato la mano dell'assassino". 78

a) Il caso Don Pessina

A quasi mezzo secolo di distanza, l'omicidio di don Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo di Correggio, continua a riservare sorprese e colpi di scena, quasi fosse un dramma diviso in atti in ciascuno dei quali il cerchio delle responsabilità si confonde e si allarga senza però arrivare ad una verità inoppugnabile e definitiva. I clamorosi sviluppi del caso, che si sono registrati recentemente sull'onda delle polemiche sul "chi sa parli", offrono comunque uno spaccato fedele del clima di violenza che avvolgeva le campagne emiliane di quel tempo e degli stretti legami che esistevano tra i vertici del Pci di allora e gli autori dei delitti.

Il primo atto del dramma si apre con l'uccisione del sacerdote la notte del 18 giugno 1946. Verso le 22 Don Umberto Pessina esce dalla canonica per recarsi in una casa vicina dove deve provare delle tonache per chierichetti. Non fa in tempo che a percorrere pochi passi: un colpo di pistola sparato da distanza ravvicinata lo raggiunge mortalmente. 79

È l'ennesimo omicidio di un sacerdote nella diocesi di Reggio, ed anche in questo caso è evidente il movente politico. Il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, che da appena quaranta giorni è entrato in diocesi proveniente da Cesena, reagisce con forza, ed esponendosi in prima persona, a differenza degli altri presuli emiliano-romagnoli che di fronte agli assassini dei propri sacerdoti preferiscono evitare prese di posizione troppo nette, forse per non inasprire ulteriormente gli animi. 80 Quattro giorni dopo l'assassinio di don Pessina, ultimo degli otto sacerdoti reggiani uccisi dai comunisti prima e dopo la Liberazione, in occasione della festa del Corpus Domini, nella cattedrale di Reggio dice solennemente: "Abbiamo fulminata la scomunica agli assassini (di don Pessina ndr), riservandone a noi personalmente l'assoluzione eventuale; e gli assassini sono tanto i mandanti quanto gli esecutori materiali. Abbiamo inflitto l'interdetto alla parrocchia di S. Martino di Correggio ed abbiamo proibite tutte le processioni nei tre vicariati di Correggio, San Martino in Rio e di Canolo. Domandiamo pronta e piena giustizia di questo delitto orrendo e sacrilego. Abbiamo fiducia nelle autorità della provincia. Ma si sappia da tutti che non ci fermeremo ma andremo fino in fondo per fare luce su questi delitti che tengono in un incubo di terrore le nostre popolazioni. Aspettiamo quanti giorni ci vorranno perchè sia scoperto il bandolo di questo esecrando delitto, poi, se eventualmente non ci si riuscisse, faremo palese all'Episcopato cattolico del mondo le condizioni di terrore in cui si trovano i nostri paesi. Se poi si pensasse di uccidere anche il Vescovo, sappiate che il Vescovo sarà ucciso perchè voleva, a qualunque costo, andare fino in fondo a questo orribile delitto, affinché cessino per sempre le condizioni terroristiche di questa nostra povera vita per causa di pochi facinorosi". 81

È una denuncia aperta ed insieme una dichiarazione di volontà di andare fino in fondo sull'omicidio di don Pessina. Ed il Vescovo Socche manterrà, per tutta la vicenda, un atteggiamento fermo e deciso. 82

Dopo alcuni mesi di indagini inconcludenti, proprio per sollecitazione del vescovo, nel dicembre 1946 viene inviato a Reggio Emilia il capitano dei carabinieri Pasquale Vesce con l'espresso incarico di fare luce sul delitto. 83 "Per prima cosa - si sente dire Vesce dal proprio comandante - vai dal Vescovo e fatti dire tutto quello che sa". E nell'incontro tra Vesce e Socche che si svolge di lì a poco viene fatto per la prima volta il nome del mandante del delitto. Socche riferisce il nome di una donna che "qualche giorno prima del delitto, trovandosi nell'anticamera del Sindaco di Correggio Nicolini, aveva avuto distintamente la voce alterata di costui dire a qualcuno presente nell'ufficio 'quel prete va fatto fuori'". Un indizio labile, e comunque nullo sotto il profilo processuale, anche perchè la donna si era confidata con il presule premettendo che, nel timore di rappresaglie, non avrebbe confermato le sue parole nel corso di un interrogatorio. Da questo colloquio è stata fatta principalmente derivare la tesi del complotto ai danni di Nicolini, ma vale ed a maggior ragione anche il contrario: se Socche e Vesce avessero organizzato davvero una combine, non avrebbero certo rivelato, come hanno fatto ed in modo così esplicito, il contenuto del loro incontro.

I primi tempi delle indagini di Vesce sono comunque estremamente difficili in mancanza di testimoni disponibili a collaborare con la giustizia oltre che per il clima di timore ed omertà diffuso in quella zona, non meno che nelle altre campagne emiliane.

Per mesi Vesce cerca indagando su altri delitti commessi in quei luoghi e nello stesso periodo, un "rampino" che gli consenta di risalire ai responsabili dell'uccisione del sacerdote. Ed infine lo trova seguendo le tracce del delitto del capitano di artiglieria Ferdinando Mirotti, ucciso a Campagnola il 20 agosto 1946. Uno dei presunti responsabili dell'omicidio di Mirotti, certo Antenore Valla, fa capire al capitano dei carabinieri di sapere qualcosa anche sul delitto di don Pessina ed infine rivela di aver ricevuto in casa di Antonio Prodi la confidenza che lui, insieme ad Elio Ferretti, avevano eliminato il parroco di San Martino Piccolo dietro ordine di Germano Nicolini, sindaco di Correggio, soprannominato "Il Diavolo". Nicolini ha fatto la Resistenza come ufficiale dell'esercito meritandosi una medaglia d'argento al valore. È giovane e gode di ascendente presso i suoi anche se in realtà è un comunista abbastanza anomalo. Appartiene infatti ad una famiglia benestante, ha studiato, è cattolico praticante. Si iscrive al Pci solo dopo la Liberazione e l'anno successivo sarà eletto sindaco. Quando Antonio Prodi confermerà la testimonianza resa da Valla - anche se in seguito darà versioni abbastanza contrastanti con la prima -, Nicolini respingerà ogni accusa sdegnosamente e da allora fino ad oggi continuerà a protestare la propria innocenza gridando alla congiura ordita ai suoi danni da monsignor Socche e dal capitano Vesce, a cui ha aggiunto più di recente anche il suo ex partito.

Il possibile movente diretto è in effetti abbastanza oscuro: tra i tanti che vengono presi in considerazione, due paiono trovare maggiore credito. Il primo riguarda una partita di cavalli abbandonati dai tedeschi in ritirata prima di attraversare il Po. Quei cavalli vengono presi in consegna da Nicolini che provvede a venderli - avendone però a suo dire ricevuta l'autorizzazione - a 19 persone tutte di San Martino Piccolo due giorni prima dell'uccisione del parroco. L'altra vicenda è relativa all'assunzione di una sessantina di mondariso di Correggio promossa da don Pessina insieme ad un altro sacerdote don Ezio Neviani, in sfida alla Camera del Lavoro che pretendeva di avere il monopolio del collocamento. 84 Di fatto la grave pena che verrà inflitta a Nicolini terrà conto, oltre che del suo ruolo di mandante, anche dei moventi comuni che lo avrebbero spinto ad uccidere don Pessina.

Prima del processo, agli inizi del 1948, avviene il primo colpo di scena: due ex partigiani comunisti Ero Righi e Cesarino Catellani, prima di espatriare in Jugoslavia, si autoaccusano del delitto depositando presso un notaio di Milano il testo della confessione. Indicano anche il luogo ove hanno sepolto la pistola con cui era stato ucciso don Pessina. L'arma, dello stesso calibro di quella del delitto, in effetti viene rinvenuta ma una perizia accerta che era stata sepolta da poco tempo e non certo dal 1946. In conseguenza di ciò, Righi e Catellani verranno in seguito condannati a due anni e mezzo di reclusione per autocalunnia.

Ed ecco il secondo atto del dramma - che si svolge presso la Corte d'Assise di Perugia nel febbraio del 1949 - aprirsi con un altro coup de theatre. Antenore Valla, testimone chiave del processo, ritrattando le proprie precedenti dichiarazioni, afferma che al tempo del delitto si trovava nella prigione di Grenoble in Francia per scontare una lieve condanna per espatrio clandestino. Anche questo alibi viene smontato dal capitano Vesce che riesce a dimostrare la manipolazione dei documenti che comprovano la presenza di Valla in carcere in quel periodo.

La difesa degli imputati si manifesta quindi abbastanza maldestra: le prove e gli alibi più o meno contraffatti, invece di contribuire a respingere le accuse aiutano a confermarle. Così come appare singolare il comportamento di Nicolini che si mantiene nella negativa più assoluta: non dice nulla, dichiara di essere all'oscuro di tutto. Eppure Nicolini, ammesso che sia davvero completamente estraneo al fatto, non può non sapere che il Pci sta coprendo qualcuno e non dice la verità. Ma ugualmente tace, accetta che la verità di partito prevalga. Il suo partito per la verità mostra di fare di tutto per aiutarlo: oltre che al processo lo difende strenuamente sulla stampa, spinge all'autoaccusa Righi e Catellani, quando, tra un processo e l'altro, viene liberato lo accoglie trionfalmente come un eroe nella sua Correggio, tanto da far scrivere a mons. Socche una lettera veemente dal titolo "Apologia dell'assassinio". 85 Ma è una difesa di facciata, quella del Pci, intesa più che a salvare Nicolini a tenere celati i veri responsabili e soprattutto la trama politica che sta dietro al delitto. E non può essere altro che la fede nel partito a sorreggere il giovane ex sindaco di Correggio e ad accettare il suo sacrificio. Anche perchè occorre dire, come ha ricordato Enzo Biagi che seguì il processo come giornalista, che il processo non si svolse nello stile stalinista della Lubianka, ma fu un procedimento regolare da cui scaturì una condanna basata sugli elementi di fatto e sulle testimonianze che in quel momento erano disponibili. Anche se ora Nicolini - senza portare un solo elemento a suffragio - parla di manipolazione degli atti processuali, sottrazione di prove, ecc... 86

Il processo si chiude con la condanna di Germano Nicolini, Elio Ferretti ed Antonio Prodi, rispettivamente a 22, 21 e 20 anni di carcere. Tale sentenza sarà confermata senza modifiche in quattro ulteriori gradi di giudizio. Nicolini sconterà dieci anni effettivi di carcere, gli altri condannati sette.

Una volta uscito dal carcere, Nicolini, a cui la condanna toglie anche i diritti civili, riprende la battaglia nel Pci per vedere riconosciuta la propria innocenza e per avviare la revisione del processo. Ma il Pci non ne vuole sapere di riaprire un caso che, se ripreso, riserverebbe verità assai imbarazzanti. Fino a quando, nel 1972, di fronte ad un ulteriore diniego del suo partito a seguirlo sulla strada della riapertura del processo e di fronte alla sua esclusione dal Comitato federale, decide di stracciare la tessera del Pci. Finalmente, accorgendosi di essersi prestato a fungere semplicemente da capro espiatorio per le colpe di qualcun altro, ripudia definitivamente la "morale comunista" che lo ha sorretto fino allora e che richiede "la subordinazione dei propri interessi e delle proprie volontà, il sacrificio costante di sè e delle proprie famiglie in attesa di una ricompensa che sarebbe venuta un giorno quando la 'profezia' si sarebbe avverata". 87

Occorre arrivare al 1991 per aprire il terzo atto del dramma e fare in modo che la verità, se di verità si tratta, cominci a fare capolino. Ai primi giorni di settembre William Gaiti, ex partigiano della 77esima Sap, confessa al procuratore della Repubblica di Reggio Elio Bevilacqua, che ha riaperto le indagini sul caso, di essere l'esecutore materiale del delitto: "Eravamo in tre - dichiara a quasi mezzo secolo di distanza dai fatti e spinto, pare, dal figlio - tutti armati, io ero il più giovane, il capo mi aveva detto solo che dovevamo fare un lavoretto. Don Pessina mi aggredì schiacciandomi contro il muro. Mi voltai di scatto, feci fuoco d'istinto". 88 Una versione che deve essere attentamente valutata poichè nella sommaria deposizione di Gaiti vi sono punti ancora oscuri. Certo è che se la dinamica dei fatti fosse davvero quella cadrebbe l'impalcatura dell'accusa e si potrebbe arrivare ad un nuovo processo per rendere giustizia alle persone ingiustamente condannate. Anche in questo caso resterebbe però intatta la sostanza e la natura politica del delitto: autori dell'omicidio - a dire di Gaiti con lui quella notte c'erano anche Righi e Ferretti i due che non vennero creduti al processo di Perugia - sarebbero comunisti. La trama politica che fece da sfondo al "lavoretto" non cambierebbe di un millimetro.

Eppure tanto è bastato al Pds per buttarsi lancia in resta contro il "processo alle streghe" e la "macchinazione" di monsignor Socche e di Vesce contro Nicolini, colpevole soltanto di essere "un giovane e determinato sindaco comunista". 89 Da parte sua Pasquale Vesce, oggi generale in pensione, interpellato, ha ribadito la correttezza delle indagini e la sua convinzione della colpevolezza di Nicolini90; mentre la Curia di Reggio ha difeso con vigore la memoria del vescovo Socche definendo "intollerabili calunnie" le insinuazioni su una sua presunta orchestrazione di tutta la vicenda: "Appare incredibile e paradossale che si tenti di trasformare in persecutrice proprio quella Chiesa che ha subito l'uccisione dei suoi preti, attribuendole addirittura la 'filosofia dell'inquisizione'. La vera macchinazione è l'odierno tentativo di imputare al vescovo monsignor Beniamino Socche la deliberata condanna di un innocente sindaco comunista". 91

D'altra parte, se fosse vera la teoria della congiura ai danni di Nicolini, il vescovo Socche si sarebbe in realtà prestato ad una manovra di depistaggio del Pci per allontanare il pericolo di vedere scoperta la propria responsabilità nell'organizzazione delle squadre di azione che preparavano la rivoluzione e che intanto toglievano di mezzo gli avversari scomodi. Come don Pessina, appunto. "Se fosse emersa subito la verità - ha detto Nicolini - avrebbero finito per essere coinvolti anche alcuni dirigenti provinciali del Pci", quelli che utilizzavano come "strumenti" Gaiti ed altri "per tenere in piedi una vera e propria organizzazione paramilitare che non operava certamente solo a San Martino Piccolo". 92 A poco a poco è anche emerso anche il nome di questa struttura paramilitare direttamente od indirettamente responsabile di questo come di tanti altri delitti di matrice politica nel reggiano: si tratta della Cars (Commissione di assistenza ai reduci e ai soldati). Una vera e propria "Gladio rossa" nel cui culto sono cresciuti tanti extraparlamentari reggiani poi approdati al brigatismo rosso da Alberto Franceschini a Prospero Gallinari. 93

E che il partito fosse direttamente coinvolto in quelle torbide vicende di violenza politica e dello stesso assassinio di don Pessina, stanno a testimoniarlo le dichiarazioni dell'ottantottenne fondatore del Pci reggiano, Aldo Magnani, che ha ammesso di aver mandato in diverse occasioni delle "ronde" per sorvegliare la canonica del sacerdote sospettato di fare "traffico d'armi" (sic!). Inoltre Magnani ha confermato che il giorno seguente il delitto tutto il vertice del Pci reggiano era perfettamente a conoscenza del fatto e dei responsabili e decise la strada del silenzio, con il conseguente sacrificio di Nicolini che in quanto all'oscuro di tutto non era in grado di fare i nomi dei mandanti. Di tutto questo era stato informato anche Togliatti, che alla fine del 1946, compresa la gravità della situazione, decise di trasferire alcuni dirigenti in altre province. 94

Siamo all'ultimo atto della tragedia? Probabilmente no. E non è escluso che si arrivi ad un nuovo processo per fare luce una volta per tutte su chi armò la mano agli assassini di don Pessina e sulle trame di odio e di violenza che fecero da sfondo a quello come ad altri delitti.

b) Martirologio

1. Gianni don Domenico, San Vitale in Reno, Bologna, 24 aprile 1945
2. Terenzani don Carlo, Ventosa, Reggio Emilia 29 aprile 1945
3. Donati don Enrico, Lorenzatico, Bologna, 13 maggio 1945
4. Galletti don Tiso, Spezzate Sassatelli, Bologna, 18 maggio 1945
5. Galassi don Giuseppe, Campanile in Selva, Ravenna, 21 maggio 1945
6. Preci don Giuseppe, Montalto di Zocca, Modena, 24 maggio 1945
7. Tarozzi don Giuseppe, Riolo, Modena, 26 maggio 1945
8. Guicciardi don Giovanni, Mocogno, Modena, 10 giugno 1945
9. Bortolini don Raffaele, Dosso, Bologna, 20 giugno 1945
10. Rasori don Giuseppe, San Martino di Casola, Bologna, 2 luglio 1945
11. Lenzini don Luigi, Crocette, Modena, 21 luglio 1945
12. Filippi don Achille, Maiola, Bologna, 25 luglio 1945
13. Dapporto don Teobaldo, Castelfiumanese, Bologna, 14 settembre 1945
14. Reggiani don Alfonso, Amola di Piano, Bologna, 5 dicembre 1945
15. Venturelli don Francesco, Fossoli, Carpi, 16 gennaio 1946
16. Pessina don Umberto, San Martino Piccolo, Reggio Emilia, 18 giugno 1946

NOTE

63 I sacerdoti uccisi da partigiani comunisti durante la Resistenza furono: don Corrado Bortolini, Bologna, 1 marzo 1945; don Aldemiro Corsi, Reggio Emilia, 21 settembre 1944; don Giovanni Ferruzzi, Imola, 3 aprile 1945; don Luigi Ilariucci, Reggio Emilia, 19 agosto 1944; don Giuseppe Jemmi, Reggio Emilia, 19 aprile 1945; don Luigi Manfredi, Reggio Emilia, 14 dicembre 1944; don Sante Mattioli, Reggio Emilia, 11 aprile 1945; don Ernesto Talè, Modena, 11 dicembre 1944; don Giuseppe Violi, Parma, 31 marzo 1945. Sul sacrificio del clero emiliano-romagnolo durante e dopo la guerra cfr. Azione Cattolica Italiana (a cura della), Martirologio del clero italiano 1940-1946, Roma, 1963; Lorenzo BEDESCHI, L'Emilia ammazza i preti, Bologna, 1961; Primo MAZZOLARI , I preti sanno morire, In "Presbyterium", Padova, 1958; Mino MARTELLI, Una guerra e due resistenze, Bari, 1976; Luciano BERGONZONI, Clero e Resistenza, Bologna, 1964 e Preti nella tormenta, Bologna, 1949;. Don Carlo LINDNER, Nostri preti, Reggio Emilia, 1950; Ilva VACCARI, Il tempo di decidere, Modena, 1968; Giovanni FANTOZZI , "Vittime dell'odio". L'ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1945-1946), Bologna, 1990. Da questi volumi sono desunte principalmente le vicende narrate in queste pagine.

64 BEDESCHI, op. cit., p. 17-18; BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit. pp. 201-210; MARTELLI, op. cit., p. 250.

65 BEDESCHI, op. cit., p. 41; MARTELLI, op. cit., p. 278.

66 BEDESCHI, op. cit., p. 20; BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit. p. 217-222.

67 Nell'arco di un'ora di quella stessa sera la "motocicletta della morte" si rende responsabile di altri tre omicidi tra Conselice e Spazzate Sassatelli. Oltre a don Tiso vengono soppressi Anello Volta, Aldo Negrini e Aristide Olivieri. Al processo presso la Corte d'Assise di Ravenna nell'ottobre 1954, il figlio di una delle vittime, Tullo Negrini, nega decisamente che il sacerdote fosse fascista: "Io ero fascista, uno dei due soli fascisti di Spazzate Sassatelli; l'altro, Tellarini, è stato ucciso e mio padre è stato assassinato perché ero fascista io. Sapevo tutto dei partigiani perché, pur essendo a Bologna, tornavo a casa ogni sabato; ma non li denunciai, né li disturbai. Don Tiso era un nostro avversario, tanto che ebbi con lui alcune vivaci discussioni". Don Francesco Gianstefani, parroco del vicino paese di Conselice, racconta che quando si recò a Spazzate Sassatelli "per il funerale non c'era nessuno, tranne i famigliari ed il campanaro. In fondo al viale c'era un giovane in bicicletta con il fazzoletto rosso al collo per controllare i presenti". E aggiunge: "Sono convinto che ancor oggi i sacerdoti sono considerati carne da macello e noi preti e gli altri che vengono qui a testimoniare saranno uccisi se solo per cinque minuti quelli prendessero il sopravvento". Il processo si conclude con la condanna a dieci anni di reclusione, interamente condonati, ad Efrem Fontana ed Astore Felicetti, ex partigiani comunisti. Cfr. "Il Resto del Carlino", 21-22 ottobre 1954 e Archivio del Centro di solidarietà democratica di Bologna (d'ora in poi ACSDBO), sez. II, sett. 3, f. 65. BEDESCHI, op. cit., pp. 27-28; MARTELLI, op. cit., pp. 227-228.

68 BEDESCHI, op. cit., p. 28-29. "Al funerale intervennero circa venti sacerdoti, ma solo tre parrocchiani osarono rompere il cerchio del terrore che attanagliava quella pur religiosa ed ottima popolazione. La rivincita del coraggio si fece attendere dieci anni, ma venne. Nel decennale del martirio, migliaia di persone da ogni parte e decine e decine di bandiere".

69 FANTOZZI, op. cit., p. 59. Per questo delitto Giuseppe Galluzzi ed Ivo Zanni vengono condannati a 18 anni di reclusione. "Gazzettadi Modena", 5 aprile 1952. BEDESCHI, op. cit., pp. 265-266.

70 FANTOZZI, op. cit., p. 59. Nella sentenza di condanna i giudici scrivono: "Anche questo grave delitto va inquadrato nel tempo in cui venne commesso, quando l'uccisione di capitalisti e di preti da parte di estremisti sostenitori del proletariato non può non riportarsi anche a motivi di natura sociale-politica, sul piano di una realizzazione ritenuta possibile da alcuni esaltati sprovveduti di cultura e di scarsa sensibilità morale e politica, deviati da un'accesa propaganda di idee contrastanti col capitalismo e investente anche i preti, fino al punto da determinarli a commettere simili gravi delitti". ACSDBO, sez. II, sett. 3, f. 75. Ventidue anni di reclusione vengono irrogati a Rino Govoni, Ermes Vanzini e Riccardo Cotti; diciotto anni e sei mesi a Guido e Dante Bottazzi e Renato Melotti. "L'Avvenire d'Italia", 1 aprile 1951. Nel corso del 1991 la Procura della Repubblica di Modena, dietro a nuove segnalazioni, ha ripreso le indagini per individuare il luogo di sepoltura del sacerdote. E' opportuno ricordare che nel "triangolo della morte" di Castelfranco-Manzolino-Piumazzo, tra il 25 aprile del 1945 ed il maggio 1946 vengono eliminate quarantaquattro persone. BEDESCHI, op. cit., p. 18; MARTELLI , op. cit., p. 250.

71 FANTOZZI, op. cit., pp. 59-60. Dieci anni di prigione vengono inflitti per l'omicidio di don Guicciardi a Giacomo Rossi. "Gazzetta di Modena", 19 luglio 1949. BEDESCHI, op. cit., p. 32. MARTELLI, op. cit., p. 266.

72 BEDESCHI, op. ci t., pp. 20-21; MARTELLI, op. cit., p. 251

73 BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 241-253; BEDESCHI, op. cit., pp. 18-19; MARTELLI, op. cit., p. 251.

74 FANTOZZI, op. cit., p. 60. Nel 1949 cinque imputati per il delitto vengono assolti per insufficienza di prove. "Gazzetta di Modena", 20 maggio 1949.

75 Bruno Grandi, reo confesso dell'omicidio di don Filippi, afferma che la soppressione del prete venne decisa "perché durante il periodo della Repubblica sociale il parroco aveva collaborato con i fascisti ed i repubblichini ed era fra l'altro responsabile del rastrellamento di Monte San Pietro del 27 agosto 1944 e aveva fatto la spia ai danni dei partigiani". Nel marzo del 1952 Grandi, insieme a Miro Lionelli e a Raffaele Collina, vengono condannati a 20 anni di reclusione interamente condonati per movente politico. ACSDBO, sez. II, sett. 3, f. 22. BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 223-227; BEDESCHI, op. cit., p. 21; MARTELLI, op. cit. p. 36.

76 "Don Teobaldo Daporto fu l'unico dei sette preti assassinati (della Diocesi di Imola, ndr) ad avere funerali da cristiano. Tutto il popolo e tutti i confratelli della zona erano presenti in chiesa. Molta gente piangeva. Al cimitero, don Gaspare Bianconcini condannò con parole di fuoco la "criminale seminagione di odio", che bisognava finalmente arrestare. Gli effetti estremi di quella seminagione nei riguardi del clero vennero bloccati". MARTELLI, op. cit., p. 233-235. BEDESCHI, op. cit., p. 27.

77 BERGONZONI, Preti nella tormenta, cit., pp. 229-239; BEDESCHI, op. cit., p. 19; MARTELLI, op. cit., pp. 251-252.

78 FANTOZZI, op. cit., p. 61. La Dc carpigiana nei giorni seguenti l'assassinio di don Venturelli affigge un manifesto per condannare il misfatto: "Cittadini di Carpi! Un nuovo assassinio, un vergognoso delitto ha insanguinato la nostra terra, che dopo i duri anni sofferti deve essere libera da tradimenti, violenze e minacce. La delinquenza ha voluto ancora una vittima nella persona di un retto ed amato sacerdote, noto Patriota della guerra clandestina, Don Francesco Venturelli. Vi invitiamo a rendere omaggio alla vittima innocente di un perverso odio di parte che tutto abbrutisce e di tutti macchia il nome di civili cittadini". "L'Unità Democratica", 19 febbraio 1946. Nel 1991, Carpi ha deciso di rendere omaggio alla memoria di don Venturelli intitolandogli una via cittadina. MARTELLI, op. cit., pp. 272-273.

79 Mons. Wilson PIGNAGNOLI si è occupato ripetutamente della figura e del delitto di don Pessina. Si vedano i suoi: Ho ucciso don Pessina, Roma, 1949 e Reggio: bandiera rossa, Milano, 1961.

80 Sulla vita e l'operato di Mons. Socche cfr. Wilson PIGNAGNOLI, L'ultimo Vescovo-Principe di Reggio Emilia, Roma, 1975; Dino TORREGGIANI, Mons. Beniamino Socche. Profilo di un Vescovo eroico, Vicenza, 1966; Paolo CAMELLINI, Testamento di un Vescovo, Reggio Emilia, 1968.

81 PIGNAGNOLI, Reggio: bandiera rossa, cit., pp. 87-88.

82 L'atteggiamento duro ed intransigente sul caso don Pessina procurò a Mons. Socche qualche disapprovazione nella Dc ed anche all'interno della gerarchia ecclesiastica. Nelle sue memorie il Vescovo infatti scrisse che "un'alta personalità politica, che poi diventò sacerdote (Giuseppe Dossetti ndr), cambiò diocesi e fu incardinato in una diocesi della Romagna-Emilia. Un ragioniere ed una professoressa, modello di vita cristiana, non nascondevano la loro ripugnanza quando il Vescovo parlava, ed uscivano dalla chiesa dicendo, "ma non si fa così: non si conquistano così i comunisti: sono tutti nostri cari fratelli". PIGNAGNOLI , L'ultimo Vescovo-Principe, cit., p. 69. Mons. Socche rilevò inoltre che "uno era riuscito a creare in Vaticano un'atmosfera di accusa al Vescovo di Reggio Emilia dicendo che egli era il provocatore di tutto... Io stesso me ne accorsi sul serio quando il 7 marzo 1947 ebbi l'Udienza del Papa Pio XII di santa memoria". Ibidem, p. 72. Anche la successiva idea di Mons. Socche di costruire a Correggio una "Via Crucis sacerdotale ed Arca dell'Insepolto", per ricordare il sacrificio di don Pessina e di tutti i trecento sacerdoti italiani periti durante e dopo la guerra, fu accolta in Vaticano con molta freddezza e quindi non realizzata.

83 La ricostruzione delle indagini condotte da Vesce è contenuta in Massimo STORCHI, (a cura di), Gli omicidi don Pessina, Mirotti e Vischi nei ricordi del generale Pasquale Vesce, in "Ricerche storiche", Rivista di Storia della Resistenza e della società contemporanea dell'Istituto per la storia della Resistenza e della Guerra di Liberazione di Reggio Emilia, n. 64/66, dicembre 1990, pp. 41-59.

84 La vendita dei cavalli ed il collocamento delle mondariso quale moventi del delitto sono state ribadite da Mons. Wilson Pignagnoli su "Gazzetta di Reggio", 3 settembre 1991 e don Giorgio Neviani su "Gazzetta di Reggio", 13 settembre 1991. Giorgio Morelli ("Il solitario") in un articolo su "La Nuova Penna" del 28 giugno 1946 parla di un altro movente fatto circolare dai comunisti per infangare la memoria di don Pessina: "E questi vili, come sempre, non sono soddisfatti d'averlo finito, ma gettano sulla sua memoria la solita, infamante classica calunnia: "Don Pessina corteggiava le ragazze". "Don Pessina aveva delle amanti". "Don Pessina è stato ucciso per un movente passionale". [... ] Ecco perché Eros ha detto: "Non capisco perché si faccia tanto rumore politico intorno ad un delitto passionale. Tutti sanno che don Pessina aveva due amanti". Perché non si è ancora chiesto a quest'uomo chi sono le due amanti? se le sa le denunci. Esse sapranno chi ha ucciso il prete, se il prete è stato ucciso per loro. Ma le due amanti non ci sono. Questo Eros lo sa".

85 La lettera di Mons. Socche, scritta nel marzo 1955 ed apparsa su "L'Osservatore Romano", diceva testualmente: "E' ritornato a casa dalla prigione un capo comunista, che ben quattro processi d'accordo hanno autenticato, proclamato e condannato come assassino di don Pessina. E su ciò nulla abbiamo da dire: gli auguriamo in Domino che se ne penta e che possa vivere da cristiano con la sua diletta famiglia, benchè l'Unità comunista di ieri abbia scritto che egli ha dovuto scontare la pena di otto anni di reclusione sebbene "innocente", dando così una sfida di incompetenza e di ingiustizia a quattro Corti giudicanti: Assise di Perugia, prima sezione dell'Assise di Appello di Roma, Cassazione e seconda sezione dell'Assise di Appello di Roma, la quali tutte univocamente hanno sentenziato per la colpevolezza dell'interessato. Ma quello che a noi preme di rilevare qui e che assolutamente non è lecito, è quanto è accaduto domenica scorsa. A riceverlo alla stazione ferroviaria erano pronti i compagni con la macchina infiorata di garofani rossi. Con quattro staffette motorizzate davanti, ed una colonna di macchine di seguito, è entrato trionfalmente nel suo paese. Ora tutto questo non è che l'applauso al delitto, apologia dell'assassinio". PIGNAGNOLI, Reggio: bandiera rossa, cit., pp. 110-111.

86 "Ritengo corretto ricordare che Germano Nicolini non fu giudicato alla Lubianka, ma in Corte d'Assise, a Perugia: aveva dei difensori, poteva parlare. Sono passati più di quarant'anni da quella vicenda, ma non ho memoria di particolari che svelassero intrighi o subdole congiure. La sorte di Nicolini non è state segnata dalla malafede dei magistrati, o dalla malvagità del capitano Vesce, che condusse l'inchiesta: ma dal silenzio dei suoi compagni. Ecco un'altra prova: tacere, talvolta, diventa menzogna. [... ] Adesso qualcuno lancia l'ipotesi che monsignor Socche, il vescovo di Reggio Emilia, avesse in qualche modo manovrato per far punirei "rossi": di certo li considerava pericolosi avversari, ma non posso pensare ad un'alterazione di prove. Ho conosciuto, e anche ammirato, il coraggio del capitano Vesce: raccontavano che Scelba aveva dimostrato disprezzo del pericolo perché era andato a Modena solo, guidando la sua automobile. Mostruosa è questa vicenda, nata da una dedizione cieca alla causa del partito che "ha sempre ragione", una omertà che ha resistito a ogni richiamo della coscienza. Che ha lasciato dilagare prima il sospetto poi pronunciare le sentenza. C'è voluto l'ex onorevole del Pci Montanari a lanciare l'appello: "Chi sa parli". Il guaio è che, più o meno, sapevano in tanti. Ha taciuto anche Nicolini: e allora perché stupirsi se nei lager sovietici c'era gente che andava a morire gridando: 'Viva Stalin'?". Enzo BIAGI, in "Panorama", 29 settembre 1991.

87 "La Repubblica", 12 settembre 1991.

88 "Il Resto del Carlino", 11 settembre 1991. Le dichiarazioni di Gaiti, per la verità, sono troppo generiche e soprattutto troppo scopertamente autoassolutorie - gli spari quasi accidentali nel corso di una colluttazione, guarda caso, ingaggiata dal prete - per non essere assunte con la necessaria prudenza. Senza dimenticare che Gaiti non ha fatto il minimo cenno sui motivi e gli scopi della missione affidata a lui ed agli altri quella sera.

89 "La Repubblica", 12 settembre 1991.

90 "Gli assassini di don Pessina - ha affermato Vesce - sono quelli che sono stati denunciati da me e sono quelli che sono stati processati a Perugia, in Appello a Roma con sentenza confermata in Cassazione. Per me sono quelli che ho denunciato io: non ci sono altri". "Gazzetta di Reggio", 4 settembre 1991. Occorre peraltro osservare che il magistrato che conduce le indagini, Elio Bevilacqua, si è subito convinto dell'innocenza di Nicolini, al punto da dichiarare che se fosse stato processato oggi "Il Diavolo" "sarebbe stato assolto in cinque minuti".

91 "Gazzetta di Reggio", 17 settembre 1991.

92 Sulla natura e sui comandanti di questa struttura armata a cui fa cenno Nicolini le testimonianze per ora divergono. Ne risulta però accertata l'esistenza e la circostanza che quasi tutti i delitti commessi tra il giugno ed il settembre del 1946 in provincia di Reggio Emilia - Verderi, Pessina, Mirotti, Ferioli, Farri - portano direttamente od indirettamente a questa organizzazione, in gran parte composta da ex partigiani della 77esima Brigata Sap. I responsabili della formazione pare siano stati: Ottavio Morgotti, il cui nome è stato fatto in relazione al delitto di don Pessina, Renato Bolondi, implicato nell'omicidio Mirotti, e l'allora sindaco di Casalgrande Domenico Braglia ("Piccolo Padre"), quest'ultimo sospettato per l'uccisione di Umberto Farri e di Ferdinando Ferioli. Lo stesso Procuratore Bevilacqua si è detto convinto dell'"esistenza di una struttura militare parallela al Pci" che operava in provincia di Reggio in quegli anni.

93 Sui rapporti tra i giovani futuri brigatisti ed i vecchi ex partigiani reggiani cfr. Alberto FRANCESCHINI, Mara, Renato ed io, Milano, 1988.

94 Aldo Magnani, aveva già in precedenza pubblicamente affermato di aver saputo direttamente dal capo del Pci di Correggio Ottavio Morgotti dell'uccisione del prete, ma di non avere appreso da lui i nomi degli esecutori. In realtà Magnani sapeva tutto al pari del vertice comunista reggiano, come è risultato da un'intervista registrata nel 1984 da Antonio Rangoni, archivista del Pci. "Venne da me il Morgotti - disse Magnani nell'intervista - per informarmi che la parrocchia di San Martino Piccolo costituirebbe un centro per traffico d'armi pilotato dal Parroco, il quale sarebbe in contatto con elementi fascisti. Ho chiesto al Morgotti di istituire una ronda e qualora i fatti supposti risultassero veri di avvertire i carabinieri. Alcuni giorni dopo, un mattino, il Morgotti venne da me in Federazione per dirmi che la notte prima, durante la ronda, si era verificato l'episodio tragico della morte di don Pessina, avvenuta dopo una colluttazione. Decisi di parlarne immediatamente col segretario provinciale Arrigo Nizzoli il quale, appreso che a sparare era stato William Gaiti si oppose a qualsiasi denuncia ai carabinieri. Denunciare il figlio del povero Gaiti (il padre di William era stato ucciso dai fascisti, ndr) - disse Nizzoli - Siete matti? Ci pensino i carabinieri che, naturalmente non sanno niente di come sono andate veramente le cose". "Gazzetta di Reggio", 5 ottobre 1991.

Bologna 1991