Don Alfonso Reggiani

Le cieche vie dell'odio

foto Don ALFONSO REGGIANI

  Nacque a Sanmartini di Crevalcore il 2 ottobre 1882 e fu ordinato sacerdote il 20 dicembre 1907 da Mons. Bacchi. Cappellano dapprima a Crevalcore, poi Cappellano Militare durante la guerra del 1915-18, al ritorno nel 1919 fu nominato Parroco a Caselle di Crevalcore e nel 1936 trasferito ad Amola di Piano. Ivi fu assassinate il 5 dicembre 1945.

  Sono le 15,20 del 5 dicembre 1945: Don Alfonso Reggiani, sulla sua bicicletta, lentamente fa ritorno alla sua Amola dopo aver fatta la visita quasi quotidiana ai ricoverati dell'ospedale di S. Giovanni in Persiceto. La sua pedalata è stanca, più che non comportino i suoi 62 anni, il suo aspetto è più abbattuto, il suo sguardo più assente: sembra l'uomo che è vinto dalla durezza di un diuturno combattimento. Anche la sera prima infatti, parlando coi suoi familiari, aveva accennato alla morte che può giungere ad ogni momento e alla quale dobbiamo essere preparati. In lui ormai si era formata la convinzione che non sarebbe più a lungo sfuggito alle reti di una congiura che sentiva maturare inesorabilmente attorno a sè; e da buon soldato di Cristo, aveva chinato il capo davanti ai voleri dell'Onnipotente.
  Giunto nel paese, a duecento passi dalla sua Chiesa, due individui, che l'avevano seguito silenziosi in bicicletta, lo sorpassano di venti metri, gli tagliano la strada e gli intimano l'«alt!» alzando la mano. Don Alfonso frena ed ha appena posto piede a terra che quelli gli spianano contro la rivoltella e sparano assieme sei colpi che lo raggiungono al petto e al capo e lo fanno stramazzare al suolo.
  Giungono gli echi dei colpi e si ripercuotono nella canonica vicina, dove si trovano le nipoti: Reggiani Angiolina e Maria, e la maestra di Amola: Cambisi Rossana, ospite della casa parrocchiale, e mozza loro il fiato in gola.
  La Maria getta un'occhiata dalla finestra e vede don Alfonso steso a terra, a fianco della sua bicicletta, mentre due individui stanno montando in bicicletta:
  — Lo zio! — urla angosciata; e seguita dalle altre si butta alla porta di strada. Ivi vedono passare i due assassini che pedalano quasi tranquilli verso la campagna. Ma il loro cuore è verso il sacerdote e si precipitano sulla piazzetta: don Alfonso è già spirato. Anzi la morte deve essere stata istantanea, tanto che non si è nemmeno mosso dalla posizione come è caduto, e la bicicletta è ancora diritta con un pedale appoggiato al suo corpo.
  Passato il primo istante di smarrimento, mentre si raccolgono attorno al cadavere poche donne del paese, si avvisano i carabinieri di S. Giovanni, i quali giungono dopo mezz'ora, fanno le constatazioni di legge, piantonano il cadavere, ma non si danno cura di inseguire gli assassini. Il contadino del fondo parrocchiale, verso sera, aiuta le donne a portare il corpo in canonica.
  Il 7 dicembre si fanno i funerali, a cui presenziano i parenti, cinque o sei bambini delle scuole, un gruppetto di contadini della parrocchia di Caselle, ove prima don Reggiani era stato parroco, e alcune donne del paese.
  È bene notarlo: nessun uomo è presente ai funerali e nemmeno è andato, il giorno precedente, a visitarne la salma in casa: perfino i bambini, sebbene espressamente invitati dalla maestra, hanno disertato, fatta eccezione di cinque o sei (ed erano 160). Nessuno, nemmeno le donne, ha sentito il dovere cristiano di andare a consolare quelle urlanti nipoti, immerse nello strazio più atroce.
  È bene, abbiamo detto, notare queste circostanze perchè per noi sono un indice sicuro di una solidarietà collettiva che porterà un giorno a determinare le cause della sua morte.
  Di che infatti poteva essere accusato don Reggiani, sacerdote zelante, uomo probo e onesto, che aveva con tanta generosità profuso i suoi tesori di mente e di cuore e anche di sostanze terrene a bene di tutti i suoi fedeli, che egli davvero amava come figli?
  L'accusa che gli hanno fatto, lo diciamo schiettamente, è di non essere intervenuto a favore dei suoi parrocchiani quando vennero rastrellati e anche giudicati nella chiesa di Amola, dando così l'impressione che fosse d'accordo con gli aguzzini tedeschi. E questo il popolo non poteva perdonarglielo.
  Peccato però che il nostro popolo si mostri troppo facile a credere ad alcuni pochi sobillatori, guidati da spirito di parte, e non si assuma mai la briga di guardare a fondo nelle cose; perchè avrebbe capito fin da principio che in tutta la losca faccenda il povero don Reggiani era anche lui vittima, e non complice.
  Noi vogliamo invece rendere giustizia a questo degno sacerdote: perciò raccontiamo, con fedele esattezza, come si svolse il triste episodio.
  Esattamente un anno prima del delitto (notatelo!) il 5 dicembre 1944, il Comando delle S.S., che si era installato da padrone nella canonica di Amola, fece un rastrellamento radicale di gran parte del territorio circostante, raggruppando, fra uomini fermati per le strade e pei campi o stanati nelle case e nei rifugi, circa 300 persone che furono incolonnate verso la chiesa parrocchiale.
  Già al mattino presto il Capitano, che comandava il reparto rastrellatori, era entrato in chiesa dall'interno della canonica e si era sforzato di aprire la porta maggiore senza riuscirvi. Allora, verso le 6,10, andò a bussare alla camera del parroco, lo fece alzare e lo condusse in chiesa perchè gli aprisse la porta. Dopo di ciò lo fece riaccompagnare in canonica, imponendogli:
  — Tu Pastore, in camera! —
  La porta fu piantonata, la canonica e la chiesa furono circondate da un cordone di truppe armate di mitra.
  Don Reggiani, ancora ignaro di ciò che volevano fare, rimase lassù fin verso le 8, quando cominciò a sentire il rumore dei gruppi di rastrellati che giungevano scortati; e allora si portò alla finestra. Qualcuno dei suoi parrocchiani alzò lo sguardo, lo vide immobile, e potè pensare (come confessarono poi) che don Alfonso potesse avere dato ai tedeschi le informazioni necessarie per snidarli.
  Don Alfonso, visto che in chiesa non si sarebbe potuto celebrare la Messa (ed era la Novena dell'Immacolata), voleva affrontare le rappresaglie teutoniche e andare a celebrare a S. Giovanni, a rischio di essere anche lui rastrellato e unito agli altri, ma i familiari lo dissuasero, per cui rimase in casa, rodendosi di non sapere che cosa gli combinassero intanto quei manigoldi nella sua chiesa, a cui gli impedivano l'accesso.
  In chiesa intanto si era formato una specie di tribunale: accanto al comandante tedesco che fungeva da giudice stavano ritti due tedeschi, che fino a quel momento si erano finti disertori e che, fingendo di tenersi nascosti presso un contadino, avevano seguito meglio le mosse dei partigiani. Costoro, a mano a mano che sfilavano gli uomini davanti al giudice, gli additavano quelli che riconoscevano come partigiani e questi venivano messi da parte (furono circa una trentina). Mentre gli altri erano spediti a S. Agata Bolognese per i lavori della Todt, essi furono invece condannati alla fucilazione.
  Tutti? Non possiamo affermarlo con sicurezza: di essi nessuno è tornato e, dopo la liberazione, sono stati trovati e identificati 19 cadaveri sui calanchi di Paderno.
  Questo il fatto.
  Il 12 Maggio 1945, in casa sua, e una seconda volta in Settembre sulla strada, don Reggiani fu affrontato da un giovane di una parrocchia vicina (Tivoli), che con minaccie e insulti lo accusava di aver provocato quell'eccidio:
  — Siete responsabile delle vittime di Amola! —
  Il colono della Chiesa l'ha più volte minacciato, e anche ripetutamente. alla sede locale del Partito Comunista, fu udito inveire contro di lui, rinfacciandogli le uccisioni del 5 Dicembre; e non si sa che avesse altre ragioni personali di rancore verso di lui.
  Così si era diffusa e consolidata l'accusa di una sua inesistente complicità, per cui ai suoi funerali passò per le case una parola d'ordine: disertare in massa dalle onoranze funebri alle sue spoglie mortali.
  Ma noi, dopo aver esposto serenamente i fatti, dopo aver sentito le nipoti ripetere con le lacrime agli occhi: «E pensare che il capitano tedesco non si fidava di lui e lo voleva perfino arrestare perchè diceva che era un partigiano!»; noi che conoscevamo il temperamento buono di don Alfonso che rifuggiva con orrore dalla violenza e dal sopruso: noi ci rendiamo conto con chiara evidenza che ai danni di don Reggiani, per ragioni segrete, ma che con ogni probabilità potrebbero essere le solite ragioni di partito, si è montata una calunnia infame, di cui tutto il paese si è reso complice con omertà vergognosa; e rivendichiamo l'onore di questo nostro prete, di cui siamo orgogliosi.
  Alla giustizia il compito di rintracciare le fila del delitto e ridare al suo nome lo splendore della sua innocenza.
  E la giustizia un giorno si muoverà.