«Se dopo la Liberazione, ogni compagno avesse ucciso il proprio parroco e ogni contadino il padrone, a quest’ora avremmo già risolto il problema» affermava in una conversazione d'osteria un comunista di San Giovanni in Persiceto. Così il problema è rimasto insoluto, ma un tentativo di risolverlo a quella maniera spiccia, lo si fece, purtroppo.
Paga Pantalone, come sempre. E i primi ad andarvi di mezzo furono i preti. Nella provincia di Bologna, due sono state le zone dove si sono «fatti fuori» i preti: la zona montagnosa e la pianura bassa. Diversa la tecnica usata per liquidarli.
Don Gianni Domenico, per esempio, parroco di San Vitale di Reno, venne chiuso in un porcile, martirizzato e poi fucilato. Giovanissimo, poco più di trenta anni. Ex cappellano militare. All’8 settembre ritornò a casa e fu impiegato a Bologna per scuola di religione e nel frattempo si interessava anche dell’assistenza spirituale ai soldati di stanza a Bologna, durante, naturalmente, il periodo di Salò.
Appena gli alleati giunsero nella zona, Don Gianni lasciò subito Bologna per correre tra la sua gente a San Vitale di Reno. Era appena entrato in canonica che già tre armati stavano irrompendo prepotentemente in casa. Don Gianni, intuito il minaccioso proposito, si rifugiò in solaio, poi dal tetto passò sulla casa del contadino attigua, ma era già stato organizzato l'assedio e appena sceso si vide bloccato. Portato nel porcile fu denudato e seviziato. Una ragazza comunista fu la più ardente nel perseguitarlo. Infine accanto al muretto del cimitero fu fucilato. I colpi di mitra gli inchiodarono la mano sulla fronte. Per non vedere i volti dei suoi uccisori s'era coperto gli occhi con la palma della mano. Don Gianni fu lasciato insepolto per qualche giorno. Semplicemente per aver celebrato la Messa ai soldati di Salò.
Di don Giuseppe Tarozzi, parroco di Riolo di Castelfranco, è rimasto invece appena la dentiera. La notte del 25 maggio 1945, alcuni armati suonarono alla porta della canonica. Don Tarozzi aveva terminato di recitare il breviario poco prima in chiesa, e se ne stava a letto. Siccome tardò ad aprire l’uscio, lo fracassarono con una scure, entrarono nella sua stanza da letto, e lo portarono via in camicia da notte. Testimoni videro un'ombra bianca esser trascinata via di dietro la canonica ed una donna, affacciatasi alla finestra e fatta subito ritirare dall’arroganza di quegli uomini armati padroni della situazione, sentì implorare pietà. Più nulla si sa. Sul comodino è rimasta solo la dentiera. Il suo cadavere non è stato ancora trovato. Chi lo pensa bruciato nel forno o dentro al pozzo nero della casa del suo contadino. S'era creato delle antipatie nell’amministrare i beni di un'opera pia, sita nella sua parrocchia. Ma quando comanda Barabba, come a quei tempi, nella bassa pianura bolognese, una semplice antipatia è motivo di morte.
A San Martino di Casola, dove fu ammazzato don Giuseppe Rasori il 2 luglio 1946. di parrocchiani non iscritti al partito comunista se ne contavano solamente due. Il successore del prete assassinato narrando un giorno la passione di Gesù e accennando allo straccio rosso di cui venne coperto per derisione, dovette fare le scuse pubbliche. I comunisti l'avevano presa come ingiuria alla loro bandiera. Qui venne freddato ripeto, il sessantenne don Rasori. Alle 14 in pieno meriggio, un pellegrino bussò alla porta. Don Rasori stava sulla poltrona mezzo assonnato, si alza e va ad aprire. Appena il tempo di sganciare la chiavatura e di affacciarsi. Un dialogo, poi un colpo di pistola al collo. Si ritirò nell’atrio, s'accasciò sulla sedia e spirò poco dopo. Lo credevano armato e lo temevano. Realmente si era procurato una pistola per tutelarsi dai ladri. Già due incursioni ladresche aveva subito. Ma era un padrone. Benestante di famiglia, aveva beni suoi. Non aveva detto il comunista di San Giovanni in Persiceto che i padroni come i preti andavano ammazzati «per risolvere il problema»?
Non certo dal lato politico poteva essere attaccato don Rasori. I partigiani avevano trovato ospitalità piena nella sua canonica, e l'8 settembre del 1943 egli aveva fatto suonare le campane per celebrare la fine del fascismo e della guerra. Ma era un padrone.
Steso a terra esanime con sopra la bicicletta lungo la strada a circa un centinaio di metri dalla Chiesa fu invece trovato don Alfonso Reggiani, parroco di Amola di Piano, la sera del 5 dicembre 1945. Le due nipoti trascinarono il cadavere in canonica. Ai funerali intervennero cinque bimbi delle scuole, e qualche donna. Cappellano della grande guerra e decorato di medaglia d'argento al valore. Se ne tornava dall’aver visitato i suoi ammalati all’ospedale di San Giovanni in Persiceto. Era in bicicletta. Raggiunto da due uomini anch'essi in bicicletta, fu fermato; un brevissimo dialogo, una scarica di mitra, e basta. I due assassini furono visti allontanarsi. Particolare: la bicicletta di uno cigolava, e c'è chi l’ha sentito dire agli amici: «l’ungeremo a casa, ora che abbiamo ammazzato il maiale». Don Alfonso era uno senza paura. Amava scherzare anche sulla politica. Le sue prediche contenevano sempre qualche allusione umoristica per la sua gente comunista. Per giunta, un comando tedesco si era installato nella sua canonica durante il fronte: non è difficile capire il movente.
Il cadavere di don Enrico Donati, parroco di Lorenzatico, fu trovato un giorno dopo l’uccisione. Era stato insaccato e accuratamente legato a due sassi per farlo stare a fondo dentro il macero ove l’avevano buttato. Gli assassini, per inabissarlo nel macero la notte del 13 maggio 1945, lo avevano trascinato per qualche centinaio di metri così sanguinante.
Il tranello per ucciderlo fu ordito da due che si presentarono con buone maniere la sera tardi alla sua canonica. La sua presenza era indispensabile al Comando partigiano per firmare un documento: si sarebbe sbrigato in un'oretta. Don Enrico prese la bicicletta e si accompagnò con i due. Fuori paese intravide quattro persone armate, che avevano l’aria di far le sentinelle. Don Enrico, accortosi del tradimento, stava per smontare dalla bicicletta e ritornarsene indietro. Fermatolo bruscamente, gli scaricarono addosso un caricatore di mitra. Il giorno dopo i parenti lo trovarono, come si è detto, con le mani legate e insaccato, dentro il macero. Un buon prete semplice. Non si trovano appigli politici, a meno che non si sia voluto sopprimere un testimone delle rapine avvenute nella zona, specie alla famiglia Fanin, perchè don Enrico era il parroco dei Fanin, e Lorenzatico è considerato un paese reazionario.
Il parroco di Dosso, don Raffaele Bortolini, fu ammazzato la sera del 20 giugno 1945, proprio perchè la sua abilità psicologica e intelligente era di grave ostacolo all’organizzazione estremista. Fu ucciso davanti a molti parrocchiani, sul sagrato della chiesa. Stava godendo il fresco e conversando con la sua gente davanti alla canonica la sera tardi, parlando del più e del meno, quando due giovanotti in divisa caki e armati intimarono il coprifuoco. «A casa tutti, tu no» dissero rivolti verso il parroco. Lo trascinarono con sè, mentre la gente fuggiva, ed egli si dimenava. La breve colluttazione fu. terminata con una scarica di pistola e di mitra. Fu lasciato morto sul sagrato. I due se ne andarono tranquillamente. Li attendeva una motocicletta sulla strada.
La stessa morte la facevano fare al vecchio parroco di Maiola, don Achille Filippi, la sera del 25 luglio 1945. Questa volta senza delicatezza lo invitarono fuori durante la notte, perchè la sua ora era suonata. Il vecchio sacerdote uscì e giunto davanti alla porta mentre si portava tremando verso quei giovani armati che l'avevano arrogantemente chiamato, una scarica di mitra alla schiena lo faceva cadere a terra. Dal processo è risultato che ad ucciderlo sono stati gli estremisti della sua parrocchia, perchè egli in chiesa aveva usato parole di biasimo per tutte quelle violenze e soprusi che si stavano facendo. Dimenticarono la sua attività svolta per la parrocchia, per l'asilo, per le colonie dei bambini servendosi in ciò delle sue conoscenze e parentele con le autorità politiche di prima.
Forse l’hanno strangolato, don Corrado Bortolini, parroco di Santa Maria in Duno. La sera del primo marzo 1945, si presentarono due individui armati, travestiti da tedeschi. Fatta irruzione in canonica presero don Corrado e il fratello Ettore, li imbavagliarono, li misero al muro, guardati da due ragazze, pur esse armate. Dovevano perquisire in nome, dissero, d’un Comitato. Rapinarono gli oggetti che gli fecero gola, lasciarono libero Ettore, presero con sè don Corrado. Lo caricarono così imbavagliato e con le mani legate dietro la schiena sopra una motocicletta, e via per la strada. Dove l’avranno messo? Il suo corpo non è stato trovato. Al successore don Stanzani fu chiesto: «Perchè si interessa di don Corrado? Don Corrado dorme in un campo di fiori». Forse, strangolato, lo buttarono in una fossa, o dentro un camminamento. Ricercando nella condotta di don Corrado un motivo di tant’odio, si trova qualche sua rampogna dall’altare, per soprusi, durante la guerriglia. Null’altro.
Nella prima edizione si era omesso il nome di un altro parroco, strappato alla sua Chiesa di Qualto, e il cui destino è ancora ignoto agli uomini. E’ don Medardo Barbieri. Fu portato via una sera dell’inverno 1944 dai tedeschi. Prigioniero in Germania o altrove? Sul suo martirio s'è sprangato il silenzio del mistero!
Così il numero dei martiri sale a 53 nell’Emilia e nella Archidiocesi bolognese a 19!
Nota del Curatore: nell'originale cartaceo del libro anzichè don Medardo Barbieri è riportato il nome, errato, di don Medardo Venturi. Probabilmente questo errore è nato non dall'autore, ma da chi gli ha segnalato la mancanza del riferimento al religioso. |