Abbiamo cominciato dal mare Adriatico e terminiamo al Po. Oltre Piacenza, cioè oltre il Po, si disarmano le mani assassine o comunque si arrestano dinanzi alla tonaca del mio parroco.
Piacenza è l’ultima provincia. Sei preti sono stati ammazzati qui, durante il periodo dell’occupazione nazifascista.
Il primo aveva 32 anni. Figlio di un bracciante, lo ricordavano ancora mentre andava alla questua, onde ricavare dalla gente del suo paese i soldi sufficienti per continuare gli studi e farsi prete. Don Giuseppe Beotti era giunto così a reggere la chiesa arcipretale di Sidolo. Il 20 luglio 1944 fu fucilato insieme ad altri due confratelli. La domenica precedente, dall’altare, aveva avvertito la sua gente di stare in guardia dalla dottrina comunista. In quella zona montagnosa la propaganda partigiana portava già i principii marxisti. «Guardatevi dal comunismo — aveva detto — non perdete la fede». Ed aveva aggiunto: «So che queste cose che vi sto dicendo mi costeranno care, ma debbo dirvele egualmente». Poi terminò offrendo la sua vita a Dio per la salvezza dei suoi parrocchiani.
In un rastrellamento operato nei dintorni, un gruppo di gente venne a rifugiarsi a Sidolo. Anche don Francesco Delnevo ed il chierico Italo Subacchi corsero a Sidolo. Lo ritenevano un posto sicuro dentro l’Appennino. Don Beotti, il figlio del bracciante, accolse tutti. l’indomani giunsero inaspettatamente i tedeschi, forse erano stati avvertiti di quel gruppo di persone rifugiatesi qua.
Per tagliar corto, i tedeschi presero i tre ecclesiastici e li trascinarono oltre la Chiesa un duecento metri. Qui li lasciarono diverse ore piantonati, mentre essi mangiavano e bevevano. Alla fine, un maresciallo avvinazzato con due soldati mongoli li bruciò con tre scariche di arma automatica. Nell’attesa di questa sorte incerta s’erano viste le destre dei tre ecclesiastici farsi un segno di Croce. I cadaveri furono lasciati diverso tempo sul terreno. Una buona donna li trasportò al cimitero.
Don Francesco Delnevo, parroco di Porcigatone aveva 57 anni. Buono, nessuna idea politica. Nella sua parrocchia aveva impedito ai mongoli (i prigionieri russi che i tedeschi avevano portato su questo settore) di violentare un gruppo di donne, nascondendole in chiesa. Ed il terzo: don Italo Subacchi, del Seminario di Parma, aveva 23 anni. Stava preparandosi a cantare la prima Messa, poi sarebbe andato missionario.
Le ultime parole dette davanti al plotone di esecuzione furono proprio queste: «Sono innocente di ciò che mi si accusa. Perdono tutti, anche voi che mi dovete ammazzare. Salutatemi il Vescovo e la mamma. Risparmiatemi la testa». Ed invece la scarica di moschetteria gli squarciò il cranio. Cadde accanto al recinto del cimitero urbano.
Aveva 35 anni e si chiamava don Giuseppe Borea, parroco di Obolo. La sua accusa era quella di essere il cappellano dei partigiani. In realtà aveva portato gli ultimi Sacramenti ai giovani feriti dopo uno scontro sanguinoso, avvenuto nella sua parrocchia tra Brigate nere e partigiani. Ma il Comando delle Brigate nere di Piacenza intendeva dare una lezione al Clero. Fu scelto don Borea. Quattro miliziani lo andarono a prendere in canonica. Portatolo in città venne sottoposto a diversi interrogatori in Questura. Don Borea non negò la verità. Inutili gli interventi delle Autorità religiose. Vide la sua mamma, l’abbracciò, poi venne portato all’alba al recinto del cimitero. 9 febbraio 1945.
L’ultima falcidiata del Clero piacentino fu fatta dai tedeschi e dai fascisti insieme. Due furono i preti uccisi questa volta: don Umberto Bracchi, della Congregazione dei Preti della Missione, e don Alessandro Sozzi, parroco di Strela. A tutt’oggi si ignora il motivo per il quale questo paese, sperduto nella catena appenninica, la mattina del 19 luglio 1944, fosse messo a ferro e a fuoco. Si ignora. Nè motivo di rappresaglia od altro c'era. Eppure nella carta topografica della zona tenuta dal comandante tedesco, Strela era sottolineata in rosso. Il primo edificio al quale venne appiccato fuoco fu proprio la canonica e la Chiesa. Don Sozzi e il congregazionista don Bracchi vennero portati fuori e incamminati verso il cimitero. I due preti, seguiti da miliziani e tedeschi con le armi in posizione di sparo, giunti al cimitero, stavano per continuare il sentiero. «No, portatevi verso il muro». Le raffiche, ha testimoniato una donna che vide da lontano la scena, fiaccarono don Sozzi mentre allargava le braccia come l'Orante del graffito catacombale. Don Bracchi, invece, voltatosi indietro, e capito il terribile istante, stava facendo il segno di croce sugli assassini. Rimase a metà con la mano alzata.
Ecco, l’inchiesta è terminata. Il paradigma dell’odio è passato, eguale e freddo davanti al mio parroco. Un paradigma che va da un estremismo all’altro.
In diversi casi, perfino i resti di questo testimone senza medaglia sono stati dispersi o non si sono trovati. Consumati in un pozzo nero o bruciati nel forno e tra le macerie. Ignoti, dentro qualche fossa comune. Tombe senza Croce.
Resta appena la memoria in qualche affezionato. Gli altri Morti vengono portati dalle loro relative fazioni nei comizi, nelle sagre e puntati con la stella alle bandiere. Il prete ammazzato, martire quindi della sua fedeltà alla consegna, non è più di nessuno. Un fiore fresco non cresce davanti alla sua immagine fotografata. l’uomo di nessuno rimane tale anche dopo il martirio. Ma se è vero, com'è vero, che nulla va disperso e che i silenzi fanno una loro storia, in quella storia del silenzio, il mio parroco ha un capitolo a parte tutto per sè.
La rassegna è finita, signori. Sono 52 le agonie che abbiamo brevemente descritte. L’Emilia ha ammazzato 52 preti in poco più di due anni: 18 a Bologna, 11 a Reggio, 7 a Modena, 6 a Piacenza, 3 nella Bassa Romagna, 1 nel Carpigiano, e6a Imola.
Le mani armate dei due estremismi si sono trovate d accordo, una volta tanto, nell’odio assassino contro il mio parroco.