Mica è vero che questa sia una prefazione. Si tratta piuttosto di una confessione messa qui in inizio semplicemente perché non sapevo dove metterla. Ci ho una scontentezza grande così nell'animo: perché non sono riuscito a dipingerlo così come lo sento il quadro dello sfruttamento. Sento come il dovere di chieder perdono a quei tanti che camminan curvi sotto il peso di anni di miseria; a coloro, e son troppi, cui i figli domandano pane fresco per la loro adolescenza e non hanno che magri crostini, neri e pochi; a coloro cui la continuità della sofferenza ha quasi strappato Dio dal cuore, e quando eran bambini sapevano la preghiera a memoria. Dovere di chieder loro perdono perché non sono riuscito a render avvincente l'idea di una collaborazione fraterna nelle officine umane.
Avrei forse dovuto raccogliere, ad uno ad uno, i fatti che ho incontrati nel mio camminare: i senza tetto e i senza lavoro, i senza pane e i senza speranza, e quelli che sono odiati e perseguitati anche nei figli per la ipotetica colpa di ieri. Ne porto tante di queste situazioni nel cuore. Tutte avrei dovuto narrarle? Forse è stato meglio così: non ne ho raccontata nessuna; ho soltanto spremuta da tutte la causa che le ha provocate, cercando di renderla comprensibile. Per poterla evitare. Anche perché tali situazioni sono così alla portata di tutti che il raccontarle con parole mie mi sembrava come disumanizzarle. Tu che leggi, tu l'aggiungerai ad ogni pagina un fatto reale di angoscia umana che tu stesso conosci da vicino. E vedrai che anche di esso io ho esposta la causa.
Ma una scontentezza più grande mi brucia nel cuore, perché vedo che l'abilità truffaldina di certa gente per bene (!) è giunta a tal punto da disorientare perfino gli sfruttati nella ricerca della causa del male. Perché vedo che il veleno, lo stesso veleno, ha intossicati, in un mostruoso abbracciamento di egoismo orgoglioso, i padroni e gli schiavi.
Mi son provato a segnare il cammino che ha i colori autentici della riscossa; nella speranza che i poveri ascoltino. Che altro potevo fare? Attardarmi a raccontare e raccontare gli obbrobri senza altro risultato che d'aumentare l'umiliazione e il dispetto? Non sarei stato ragionevole. E neanche leale.
Ho scritto, attraverso altalene di parole comunitarie e di leggi commoventi, che l'argine al male si può fare soltanto col bene. Le azioni cattive si cancellano per mezzo di buone azioni.
Ho scritto, in periodi rapidi ed appassionati, che sulla nave dell'uomo non si sta bene. Perché ci son festini e danze nelle sale da pranzo e son riservate a pochissimi. Mentre nella stiva, i muscoli neri di carbone dei mozzi tradiscono, nella invidia gelosa d'esser stati ingiustamente rifiutati, una pazza spiegabilissima volontà di affondare ogni cosa. Piuttosto che continuare così.
E, francamente, io li capisco.