«Sissignori. Perché è ora di finirla, porca miseria, sta vigliacca ingiustizia. Ma sa da vedere?! A io ci tocca lavorare e il padrone ci toccano i soldi? Quando abbiamo vinto noi a ogni contadino ci daremo la sua terra. Abasso i padroni!».
Era un oratore comunista che parlava così alla vigilia del 18 aprile 1948. L'ho sentito io. E, se non sei ingenuo del tutto, le sgrammaticature ti possono suggerire anche il suo nome. Ma esso non è necessario; è l'idea che importa: la terra ai contadini. Che bella promessa! Dunque il Comunismo la dà la terra ai contadini. Ma allora, in Russia, tutti i contadini possiedono la terra che lavorano. In Russia infatti comanda il Comunismo.
Fu proprio un contadino russo che, nel 1941, disse:
«Parlavano di libertà, e della terra ai contadini. Ci acclamavano, ci dicevano che eravamo il sale della terra... Ma son passati vent'anni e liberi non lo siamo ancora. Non abbiamo più terra, e...». (Kravchenko, 689).
Forse tu pensi che quel contadino che ha parlato or ora sia una pura invenzione di Kravchenko. Non può essere, tu pensi: ci hanno promesso la terra e... ce la daranno.
Sai, dopo che ho imparato a conoscerti, io provo una grande commozione a parlare con te. Tu sei tanto buono. Tu credi tutto. Tu credi sempre. Mi piaci con la tua ingenuità. Ma la tua ingenuità mi fa paura. La terra il Comunismo te la darà? Prendi tra mano la Costituzione dell'Unione Sovietica e leggi l'articolo 6. «La terra, il sottosuolo, i boschi, le officine ecc... e così pure le aziende comunali e la parte fondamentale del patrimonio edilizio nelle città e nei centri industriali, SONO PROPRIETÀ DELLO STATO...».
Non ti sembrano parole molto chiare? Coloro che vogliono portare il Comunismo anche da noi e che guardano alla Russia come al PAESE da imitare, costoro sono falsi se ti promettono la terra in nome del Comunismo. Sotto il Governo della falce e martello, la terra non sarà dei contadini: essa è dello Stato. È la legge che lo stabilisce. E tu non pensi cosa importi tutto ciò. Ma quando il padrone è lo Stato, puoi star certo che sarà un padrone esoso. Un padrone senza pietà. Lo Stato è un cattivo padrone. Perché non è un uomo contro il quale tu possa agire. Che se ti ricordi poi che, nel regno del Comunismo, lo Stato è il Partito, allora tu non puoi non rabbrividire: la politica sarà l'unica misura nel lavoro, nella retribuzione, nei diritti, nella proprietà. Eccone un esempio:
Assicurazioni Sociali (dal Codice Sovietico del Lavoro), Titolo IV, articolo 51.
«Non hanno diritto alla pensione né alla indennità di disoccupazione coloro che, secondo le costituzioni delle repubbliche federate, non hanno diritto di voto per le elezioni ai sovieti...».
È un articolo che parla da sé. È inoltre una testimonianza quanto mai sicura che anche in Russia esiste la disoccupazione. È la legge che ne parla. Non ti pare? Del resto possiamo vedere anche l'articolo 43 della stessa Ordinanza (Codice Sovietico del Lavoro, p. 120): «... La corresponsione della pensione o dell'indennità di disoccupazione è sospesa per la durata di una pena privativa della libertà subita dal pensionato o dal disoccupato, come per la durata di una espulsione o di una deportazione per misura giudiziaria o amministrativa...». Pure questo articolo dà delle norme per il trattamento ai disoccupati. Dunque è segno che ce ne sono anche in Russia. Ma questo articolo 43 tu lo devi rileggere attentamente. C'è una parolina che...
Forse t'era sfuggita. La deportazione. E ti passano per la mente le orrende deportazioni che facevano i tedeschi durante la guerra. Ti ricordi? Arrivavano; circondavano il paese; caricavano gli uomini che non erano riusciti a fuggire, e poi... in Germania a lavorare. La deportazione. Ma forse una cosa simile esiste in tempo di guerra,
quando occorre produrre assolutamente; ma in tempo di pace....
L'articolo 43 non si scompone; esso dice che il disoccupato o il salariato che abbia subìta una deportazione non percepirà la indennità o la pensione per la durata di quella punizione. Dunque esiste la deportazione. È il codice stesso che lo afferma. Esiste ed è applicabile per misura giudiziaria o per misura amministrativa. È sempre il codice che parla. Io non vorrei crederci. Mi sembra una cosa così assurda che proprio vorrei non crederci. No, la deportazione non deve esistere assolutamente in un paese civile.
Puoi star sicuro che io non te la leggerò tutta la storia del Partito Comunista in Russia. Leggila tu, se ti piace. Tu stesso potrai notare come il contadino sia stato eliminato (e con che mezzi!) in Russia. Anche i lavoratori della terra, in Russia, non sono che salariati ed operai statali. In quanto la terra è dello Stato. I contadini non esistono più. Non perché sia stata data ad essi la terra, ma perché sono diventati — quelli sopravvissuti — operai dello Stato. Perché?
Facciamo una specie di meditazione sul Comunismo Italiano.
I Comunisti italiani hanno iniziata la loro propaganda in mezzo agli operai e in mezzo ai contadini. Io mi domando: Quale, di queste due categorie di uomini, può veramente accettare l'idea comunista? E rispondo così: Solo l'operaio può essere che diventi un vero comunista, il contadino mai. Perché il contadino, se anche si iscrive al partito comunista, non lo fa certamente per distruggere la proprietà privata della terra: egli spera di diventare il padrone. Il contadino non lotterà mai per far sì che il padrone della terra che egli lavora diventi lo Stato. Lo sa troppo bene, lui, che lo Stato è una sanguisuga terribile che non perdona. Il contadino lo porta nel sangue il concetto di proprietà privata, della terra. Se, guardando le messi biondeggianti, egli prova una stretta al cuore, il motivo è questo solo: non è roba sua. Egli vorrebbe che fosse roba sua.
Io credo che anche un altro fatto ci sia a contrastare il passo al comunismo nell’animo del contadino.
Se tu parli con un operaio del suo lavoro, ti senti rispondere: «Io faccio i motori». Il contadino non dice mai: «Io faccio il grano». Forse tu non ci hai pensato mai. Eppure l’espressione dell’operaio tradisce un'abitudine di pensiero. L'operaio, cioè, sente se stesso come causa unica della sua produzione. Egli non avverte che nell'ingranaggio della sua produzione gioca anche un Altro che è fuori di lui. Il contadino invece sa, per esperienza, che tutto il suo lavoro non produrrà nulla se Dio non lo feconderà con la sua Provvidenza.
L'operaio non interroga mai il cielo in ragione del suo lavoro.
Il contadino ha l'abitudine secolare di scrutare il cielo con l'ansia di chi sa che tutto l'avvenire da esso dipende: la pioggia o la tempesta, la rugiada o il gelo, il pane o la carestia.
Il contadino non riuscirà mai ad essere ateo. Iddio è vivente nella terra che egli ama e lavora. E quando non si è atei, non si è comunisti. È assoluto. Il contadino non sarà mai vero comunista.
La legislazione che tu hai letta per l'operaio, è la stessa per il contadino. Ricordalo: il contadino, colui che lavora la terra in Russia è operaio, diretto o indiretto, dello Stato. Per lui pure valgono dunque tutti quei paurosi articoli antiumani che abbiamo letti nella prima parte di questo volumetto.
Tutti lo sanno: il Comunismo è un fenomeno che ha molti lati d'attività. Esso è una religione: nega Dio. Esso è un partito politico: vuole il Governo. È anche una istanza sociale: vediamola. Basterebbe il fatto che esso è contro Dio per concludere che esso è pure contro i contadini; i quali hanno sempre — e lo sentono — bisogno di Dio. Ma pure l'aspetto sociale del Comunismo è anticontadino.
Tu mi hai detto mille volte che bisogna migliorare la situazione economica dei contadini. Hai ragione. Ed è successo che alcuni furbi si sono accorti del vostro scontento, hanno misurata la vostra grande forza di numero, ed hanno pensato di sfruttarvi. Sfruttare la vostra speranza. Avevate gridato che non poteva continuare una situazione in cui voi lavoravate la terra di altri i quali ne percepivano quasi la totalità dei prodotti? Ebbene, quei furbi hanno issato sulla loro bandiera la vostra speranza. È stato come l'uccello di richiamo che adoperano i cacciatori. E tanti contadini ci sono caduti, nella trappola. Ma, per loro fortuna, il Comunismo non ha vinto. Se il Comunismo avesse vinto i contadini sarebbero stati schiacciati e decapitati da quella stessa falce e martello cui, illusi, avevano aggrappate le loro speranze.
È così chiara la storia dei contadini massacrati in Russia! Li chiamarono Kulaki (= capitalisti). Perché possedevano o lavoravano un poco di terra che non era dello Stato.
Rileggi l'articolo 6 della Costituzione Sovietica. Non esprime le tue speranze. Le cancella.
Dovrebbe bastare questo per scrivere sull'aia di casa tua:
Comunismo, ALT! Di qui non si passa. La terra la voglio redimere per me e per i miei figli. Non per lo Stato e per il partito.
L'Italia la vogliono ridurre proprio come la Russia. Il Sovkhoz sarà uno dei pilastri della nuova economia agricola italiana nel governo di Palmiro. L'altro pilastro sarà costituito dal Kolkoz: ne parleremo dopo.
Sovkhoz, che cosa è il Sovkhoz? Ti risponde la Costituzione Sovietica sempre all'articolo 6: «....le grandi aziende agricole organizzate dallo Stato (sovcos, stazioni di macchine e trattrici ecc.)».
Il Sovkhoz, dunque, è una grande azienda agricola gestita direttamente dallo Stato. Coloro che lavorano la terra dei Sovkhozes sono salariati (diretti) dallo Stato. Le norme, lo ripeto, che regolano i rapporti tra lavoratori e datori di lavoro sono le stesse che per gli operai. Sono le stesse catene. Nel Sovkhoz tu lavorerai la terra che non solo non è tua, ma che non potrà mai essere tua. È dominio perpetuo dello Stato. La misura del lavoro te la determinerà lo Stato. Dovrai lavorare quanto è stabilito: altrimenti sarai considerato e trattato come un sabotatore, un nemico del popolo. L'urgenza e la importanza dei Piani Quinquennali si ripercuoteranno sul tuo rendimento: lo Stato ti domanderà sempre di più. E tu lo sai: con lo Stato non si discute.
Con lo Stato non si discute. Tu hai un fabbricato di tanti metri: devi pagare tanto di tassa. E tu la paghi, la tassa, senza discutere: devi pagare. Perché lo Stato è come una macchina; l'esattore è un ingranaggio di questa macchina. E con le macchine non si ragiona. Lo Stato padrone... Come è terribile essere servi dello Stato!
Ebbene in Russia, dove comanda il Comunismo, lo Stato è padrone anche dei campi. Il Sovkhoz di Tsernograd dovrà arare in un giorno tanto terreno. Se, per caso, le macchine si rompono, se i cavalli s'ammalano, come si farà? Credi tu che lo Stato capirà la situazione? No; lo Stato è un mostro senza intelligenza. Al termine del giorno il terreno fissato deve essere arato. È il terrore dello Schiavismo.
E Vanni racconta: «In un paese dove la campagna si spopola dando braccia alle fabbriche perché l'agricoltura è stata meccanizzata con i sistemi della tecnica moderna, prima, durante e dopo la guerra, vidi delle donne tirare l'aratro al posto dei cavalli». Ecco quello che succede.
Per riuscire a raggiungere il rendimento imposto dal padrone Stato, se i cavalli s'ammalano, se le macchine si guastano, allora si ricorre alle donne. Le donne dovranno tirare l'aratro. Tua moglie... anche latua Silvana.... occorre! Ma allo Stato nulla fa orrore. Esso ha bisogno di lavoro. Esso se ne infischia della dignità della persona umana. Anche di te se ne infischia. Ti fa lavorare, e poi... e poi lavorare ancora. Come una macchina. Peggio di una bestia. Lascialo dire al vecchio comunista combattente nella brigata rossa di Spagna: «Dei cavalli si risponde — mi diceva un colcosiano — la sola cosa che non ha importanza siamo noi uomini. E così, una parte del terreno è arata da noi anziché dalle bestie. E cerca di non far tardi. Bisogna arare nel termine stabilito». (Vanni, p. 100-101).
Per la bella faccia dello Stato. Schifo.
Sì, sì, vorrei proprio vederla io la moglie del Sindaco tirare l'aratro per arare la terra dello Stato! Come dici? Lavorando per lo Stato tu lavori per te stesso, perché lo Stato siamo tutti noi? Ma sai che sei semplice?! Lo Stato è di tutti? Là dove lo Stato è il Partito? No, no, caro mio, lo Stato Comunista non è altro che l'interesse dei dirigenti del partito.
Per esempio: si ammala o si ferisce Lui? Si muovono tutte le celebrità nazionali per curarlo.
Ti ammali tu, tu che Lo chiami «compagno»?
Per te basta il medico della mutua. Perché non lo si paga.
E tu mi dici: «Ma il capo del mio Partito lavora per me».
Diavolo! Chi ne dubita? Sono già cinque anni che lavora per te. Ma in macchina ci va lui. E tu? Tu hai pagato un mucchio di tessere e di sottoscrizioni «per via di quella terra benedetta che doveva diventar tua». Ma la terra è poi sempre del tuo padrone, eh? E ringrazia Dio che al Governo ci sono i Democristiani, i quali realizzano — e speriamo lo faranno ancor più in seguito — una equa distribuzione delle terre incolte. Senti: coi Democristiani è possibile che anche a te tocchi un appezzamento di terra; che diventi tua. Ma col comunismo la terra diventa tutta dello Stato. Il quale poi finisce sempre con l'identificarsi con l'interesse della tasca. Ma non della tua tasca.
«Venite con io, porca miseria! Io più. voi faremo una forza che ci farà tutti signori. Viva l’Unità!».
L'ho sentita io anche questa. Dove? Sull'Appennino Modenese.
Il 2 Novembre sono andato al cimitero. A ricordare i miei morti. Son passato davanti alla tomba di Peppino; sì quel comunista morto l'altro mese. Ho letto la lapide: «Nato povero — vissuto povero — morto povero». Era la pura verità. Ma bisognava aggiungerci: «Perché non fu mai capo del Partito».
Devi convenirne: i capi promettono sempre e non si vede mai nulla. Voi, i gregari della massa, morite poveri come siete vissuti. Essi, quelli che fanno (?) i vostri interessi, stanno benone.
Quell'oratore diceva che la somma dei capi più gli iscritti avrebbe dato, come risultato, dei signori.
La somma dei capi partito più gli aderenti, io la vedo così: loro restano i Capi e Voi restate i gregari. È una somma che non somma niente. Perché si tratta di cose di genere diverso.
Niente altro, sai. È l'unica somma possibile nel regno dell'ateismo.
La Russia è la patria del proletariato. In Russia il lavoro ottiene il massimo rendimento. In Russia stanno tutti bene. In Russia....
Quanti slogans ti riecheggiano ancora nelle orecchie!
Ti ricordi quando, in Piazza del Popolo, quel certo deputato affermò che il Comunismo ha migliorate le condizioni economiche della Russia? Diceva la verità. Infatti: costringendo gli uomini e le donne ai lavori forzati, piegandoli a sostenere gli stessi lavori di aratura dei campi, certo la produzione aumenta. Specialmente là dove il precedente governo aveva lasciato tutto incolto. Ma da tale momentaneo miglioramento — che è tuttavia ben lontano dal livello di ogni altro popolo occidentale — bisogna sottrarre le migliaia e migliaia di vite umane spezzate. Quel terreno arato così, nasconde sotto le zolle il pianto disperato di quegli esseri umani equiparati alle bestie. La libertà è sepolta. Un miglioramento per l'economia del padrone pagato col sangue dei lavoratori. Ecco tutto.
Tu non sai quante lacrime strappa quella collettivizzazione di cui ti parlano come d'un miracolo. Forse si potrebbe credere alla opportunità della collettivizzazione in una ipotetica società integralmente cristiana. Ma in una società in cui siamo tutti egoisti, no. Lo scrisse anche Miglioli, l'adoratore profetico dei sistemi russi: «Dal suo esperimento, oggi ancora alle prime fasi, è venuto e verrà sempre più un grande esempio di progresso economico, sociale ed anche morale, quanto più esso armonizzerà coi precetti del Cristianesimo». (Miglioli, Con Roma e con Mosca, Cremona 1945, p. 106).
Ma i precetti del Cristianesimo, in Russia, sono calpestati.
L'uomo, incoronato da Cristo del diadema della figliolanza divina e riunito nell'uguaglianza di una fratellanza comune, l'uomo in Russia è spogliato di ogni suo vanto spirituale. La fraternità s'è infranta nella sistematica lotta di classe. Il Cristianesimo col suo corteo di libertà e di dignità è imprigionato.
La collettivizzazione alimenta il suo rendimento col sangue dell'uomo degradato.
Si produrrebbe di più anche nella terra del tuo padrone, se tu fossi costretto ad aggiogare la tua donna e i tuoi figli per arare di più. Se ti si spremesse come il limone.
Ma tu un tale aumento di produzione non lo vorresti. Semplicemente perché tu non sei una bestia.
Leggi il lavoro di Vanni. Esso afferma l'esistenza di tutte queste ignominie nel paradiso rosso. E nessuno gli ha intentato processo per diffamazione. Perché? Ma è evidente: ha detta la verità.
Fai sempre così, tu. Mi ritorni a domandare dove io abbia imparate tutte queste notizie sull'agricoltura in Russia. Sì, hai diritto di chiedermelo. Credo però che potresti fidarti di me: fìn'ora ti ho sempre detta la verità. Ad ogni modo, eccomi ancora a te. Fonte quanto mai chiara dello stato dell'agricoltura russa mi è stato il lavoro di un vecchio deputato comunista francese, visitatore entusiasta dell’U.R.S.S.. Si chiama Renaud Jean, La terre soviétique. Sovkhoz et Kolkhoz, Paris 1936.
T'ho detto che è un ammiratore della Russia e t'ho detto tutto: non può averne esagerati i difetti. E invero tutto vi appare bello. Ma a leggerlo con attenzione, quel libro, si finisce per restare molto dubbiosi. Alle prime pagine per esempio, quando parla del Sovkhoz di Tsernograd, si finisce per domandarsi dove mai possano abitare comodamente i lavoratori di 30.000 ettari di terreno. Per lo meno dovranno abitare lontano dai campi, se vorranno rimanere nell'agglomerato. Oppure.... Oppure accadrà quanto l'intellettuale comunista André Gide scrive: «In numerose altre aziende agricole non esistono affatto abitazioni private; le persone dormono in dormitovi, in camerate». (Gide André, Retour de l’U.R.S.S., Paris 1936, p. 47).
La quale cosa è proprio una meravigliosa comodità.
Kravchenko, colui che le sa le cose perché fu per tanti anni membro del Partito e direttore di fabbrica, colui che ha vinto il processo contro i testimoni comunisti venuti dalla Russia, ci racconta: «Sono andato alla capanna del contadino maltrattato. Ha cinque bambini, la moglie malata, e non ha un tozzo di pane da mettere sotto i denti. In quella capanna c'è un'aria di povertà e di disperazione. E questi sono i Kulak! I bambini sono tutti stracciati: sembrano piccoli fantasmi. Ho sollevato il coperchio della pentola posta sulla stufa: conteneva patate e acqua, la loro cena di questa sera...». (Kravchenko o. c., p. 192).
In Russia il benessere è fatto così. Puoi dunque capire perché mai nessuno ci voglia andare in Russia. Perché è un paradiso a rovescio. Ce lo conferma Kuzma Ivanovitc: «Si vive come principi, qui. Si ha un paio di pantaloni in due e tutti vivono benissimo fino a quando muoiono. Non ci sono più ricchi da noi e nemmeno più poveri: siamo tutti mendicanti». (Kravchenko o. c., p. 213). Che artista, quel Kuzma!
Kolkhoz, chi era costui? Il Kolkhoz è il secondo pilastro della economia agricola nel regno del Comunismo. Il Kolkhoz è un'azienda sociale, una società di lavoratori della terra; di contadini, diremmo noi, i quali sono uniti in società per il lavoro in comune di una determinata estensione di terreno. I Kolkhoziani, lavorano in comune la terra e, a differenza dei Sovkhoziani, non sono salariati diretti dello Stato, ma vivono suddividendosi i prodotti della terra dopo averne passata una quota fissata allo Stato. Tanto per farne un esempio pratico: il Kolkhoz è come un'immensa famiglia, composta però di gente che non ha alcun legame di parentela. Tutti lavorano la terra del Kolkhoz, e tutti vivono dei suoi prodotti.
Chissà quanti litigi, eh?!
— No. Tu non hai lavorato quanto ho lavorato io, oggi. Sei uno sfruttatore.
— Io? Ho fatto più di te. Sei tu uno sfruttatore.
— È iniquo che io debba sudare per mantenere te e la tua...
— Taci! E Ivania, cosa fa la tua bella Ivania? Niente, non fa.
E intanto mangia...
Chissà quanti litigi! Mi par fino di «sentirli» e di «vederli».
Tutto il prodotto si divideranno i Kolkhoziani? Oh! ma tu scherzi. Bisogna ricordarsi sempre che il suolo è dello Stato. Allo Stato dunque si dovrà versare quella percentuale che esso fisserà. Lo Stato ha stabilito, ad esempio, che il Kolkhoz N. N., in base alla sua estensione, consegni 1000 quintali di grano ogni anno. Se un anno, causa il maltempo, il prodotto fosse scarso, scarsissimo anche, lo Stato non cambierebbe; son fissati 1000 quintali e 1000 quintali si debbono consegnare. A qualunque costo.
Consiste proprio in ciò uno dei più preoccupanti pensieri dei Kolkhoziani. Di anno in anno, da stagione a stagione, la loro vita è sempre incerta. È lo spettro della Miseria.
Dimmi, Pierina, è tanto tempo che il Comunismo ha occupata la Russia?
— Dal 1917.
Ala sei un angelo, Pierina. Tu sì che sei brava!
E da allora tu devi camminare fino al 1932 per incontrarti in un decreto che finalmente conceda ai Kolklioziani il diritto di commerciare il di più che resta loro dopo aver soddisfatte le forniture allo Stato. È bene una grande conquista, eh?
Ma chissà quale enorme rendimento nei Kolkboz!
Eh, eh! A me pare che una tale organizzazione possa rendere soltanto là dove alcuni uomini, legati da un vincolo religioso, vivono con tutta lealtà, sentendo come impegno di coscienza il dovere di lavorare secondo le proprie reali possibilità. E poi... e poi anche in tal caso, forse non renderebbe troppo. Lascialo dire a me.
Peppone è un furbo matricolato. A lui non gli (!) piace lavorare.
Gli piace invece lavorare poco. Ti sentiresti, tu, di dargli torto? È un furbone, lui. Ebbene, supponi adesso che Peppone diventi proprio membro di un Kolkhoz. E poi risolvi il problema: cosa farà Peppone? Lavorerà il più possibile.
Non ci credi? Perché no?
Perché tanto campa alle spalle degli altri. «Viva il Kolkhoz! —, griderà Peppone — così gli altri lavorano e io mangio».
Proprio così, caro mio. E ti confesso che... forse anch'io farei come Peppone. Paresti così anche tu?! Ho capito: gli Italiani, se diventassero Kolkhoziani, sarebbero tanti Pepponi.
Con un sensibile aumento della produzione, si capisce!!
Ma è chiaro. Se all'uomo si toglie l'incentivo della proprietà ed il miraggio di un possibile arricchimento, esso non amerà mai il lavoro.
Tu stesso lo dicesti. L'anno scorso, nel mese di Ottobre, lavorasti anche per conto di altri, perché volevi portare i tuoi risparmi a 120.000 lire: per comperarti una «Vespa». E ci sei riuscito. Adesso tu vai in Vespa. E fai bene. Ma, dimmi: avresti lavorato così assiduamente e con tanto amore se avessi saputo che i tuoi risparmi li avresti dovuti dividere e con lo Stato e con altri tuoi soci più o meno vagabondi?
Togli l'interesse al lavoratore e hai diminuito il rendimento. È assoluto. Proprio come avviene in Russia, ove, per mantenere alto il rendimento, è giocoforza ricorrere al lavoro forzato, al lavoro obbligatorio, alla polizia. Che sono poi tutti surrogati. Tutti insieme non equivalgono ad un'oncia di interesse. I surrogati non sono mai caffè: domandalo a tua moglie. Costano cari e valgono poco. È sempre stato così.
Ché se vuoi proprio delle cifre, a mo’ d'esempio, beh..., confronta il lavoro del deputato comunista Renaud Jean alle pagine 60-90. Non vi troverai nessun Kolkhoz in cui, per esempio, un ettaro di terreno renda oltre 15 quintali di grano. E siamo in Ucraina, la terra del grano.
Ora, tu sei contadino. I confronti falli da te. Non è vero che tu, in condizioni buone, riesci ad ottenere molto di più?
Prendo in mano il giornale russo la Pravda 13 Agosto 1931 e leggo un grosso titolo: «SI DEVE RINUNCIARE ALLA POLITICA DEI CONTRATTI DI LAVORO INDIPENDENTI, SI DEVE ORGANIZZARE L'ARRUOLAMENTO DEI LAVORATORI».
Ho il diritto di domandarmi il perché. Per qual ragione si vuole arrivare a costringere la gente al lavoro materiale? E leggo l'articolo della Pravda: «Le officine mancano di operai; per esempio nella officina di Voroschilof, a Altchevsk, mancano 1.800 operai nei laboratori e 600 nei cantieri. I Kolkhozes rifiutano di dare la loro mano d'opera alle officine. Il Kolkhoz Primo Maggio chiama al lavoro gli operai con dei veri ultimatum. Il cantiere n. 22 ha ricevuto in luglio 270 nuovi operai, ma a causa della cattiva amministrazione, del disordine delle case operaie, 102 se ne erano già andati nello stesso mese di luglio».
E dato che io sono più curioso di una donna, io vorrei sapere perché la gente non vuole andare a lavorare. Ci scommetto che in cellula t'hanno detto che la gente non vuol andare al lavoro perché la pagano troppo. Ma queste fole tu non le credi. Quando è che tu non vorresti andare a lavorare?
Quando ti pagano troppo? Non succede mai, eh? È sempre quando — ed è purtroppo spesso — ti pagano troppo poco.
Tutto il mondo è paese, tu lo sai. E se i lavoratori li paghi bene vengono a lavorare. Eccome! Non si lotta per questo? Vogliamo che i datori di lavoro diano la giusta mercede ai lavoratori: perché attualmente la rimunerazione è insufficiente.
D'altra parte, se non credi a me, credi almeno a quanto ti dice il giornale russo Izvestia del 3 settembre 1931: «Queste migrazioni costanti delle forze operaie provengono da condizioni di vita vera niente disgustose». E poco più avanti lo stesso giornale suggerisce il rimedio da adottarsi. Rimedio che rivela in quale conto sia tenuto il lavoratore nel paradiso comunista. Eccolo: «Inutile attendere o domandare il consenso spontaneo dei lavoratori. Poiché essi sono ignoranti.... La fissazione del lavoro deve essere completata o piuttosto preceduta da un ARRUOLAMENTO OBBLIGATORIO».
Se tutto ciò è necessario per avere dei lavoratori, è segno che essi sono trattati proprio male. Ce lo conferma Vanni: «Nei colcosiani osservammo i segni inconfondibili di una miseria cronica. Casucce di una sola stanza, di fango, paglia e sterco impastati, il pavimento di terra; miseri e sporchi pagliericci su cui stramazza dalla fatica una intera famiglia; nella stessa stanza la cucina». (Vanni o. c., p. 82).
È dai fatti raccontati più sopra che, all'inizio del 1931 (il 9 Gennaio) fluiva un decreto che vietava esplicitamente ad ogni lavoratore di abbandonare il lavoro senza l'autorizzazione dello Stato, pena la proibizione di venire assunto in qualsiasi altra impresa.
Passavo, l'altro giorno, per le strade campestri che conducono a Loiano (Bologna). C'erano i contadini nei campi che lavoravano cantando il loro inno, l'inno di tutte le loro speranze, insultando il Governo ecc. ecc.. Mi pare che insultassero anche i preti. Cosa c'entravano poi i preti?! Ma, tant'è; essi cantavano così. E al collo tenevano, come simbolico guinzaglio, il liturgico fazzoletto rosso.
Ed ecco che ho avuta una tentazione.
Guarda un pò, mi dicevo; io sono democristiano e sono senza lavoro. Loro sono contro il Governo, e il lavoro ce l'hanno. Hanno il lavoro e anche la libertà di biasimare e insultare quel cane di Governo democristiano. Chissà? Forse è necessario essere contro il Governo per aver libertà e lavoro. E sono stato lì lì per decidermi ad andare in Russia. Sicuro, in Russia. Là io sarei all'opposizione, come i comunisti in Italia. Dunque, all’opposizione come loro in Italia, io troverò libertà e lavoro in Russia. E canterò anche Bianco Fiore...
No, no: non ho mica ceduto, sai, alla tentazione. Ho vinto. Perché laggiù c'è puzzo di chiuso. E io amo l'aria libera.
— Toh, guarda chi incontro! Sei tu, Claudio? Come stai?
— Sto bene, ora. Ma prima...
— Come?! T'è accaduto qualcosa?
— Che vuoi? La vedi questa tessera? Ho dovuto piegarmi. L'ho dovuta prendere per avere lavoro. Credimi, Benassi, non potevo più restare senza lavoro. I miei bimbi, la mia Luciana...
Ti ricordo ancora, Claudio, in quel tuo atteggiamento confuso. Quasi piangevi. Perché avevi dovuto prenderla anche tu la tessera della CGIL. Sentivi che era una umiliazione.
Ora io non so dove ti trovi, Claudio; ma, ovunque tu sia, son certo che, leggendo queste mie parole e ricordandoti di quei tempi tristi, benedirai la nuova Associazione Cristiana dei Lavoratori. Un poco alla volta, ma inevitabilmente, si potrà trovare lavoro anche senza la tessera.
Non è anche questo che tu vuoi, lavoratore? Ieri tu condannasti la tessera nera. Oggi noi condanniamo la tessera rossa. Vogliamo il lavoro senza tessera.
Né ti illudere. Tutto cambia. E, forse, presto....
Allora ti vergognerai di quel pezzo di carta. Le tue speranze ingiuste, perché violente, saranno spezzate. Per sempre.
Te l'ho riservato alla fine. Chissà quante volte ne hai sentito parlare, nelle piazze, sui giornali, nelle cellule. Tu non devi credere a nessuno: pensa con la tua testa. Una specie di dubbio che porti nel cuore:
«Cucchi e Magnani».
Nella cellula mi hanno detto che sono due traditori.
Sull’Unità hanno scritto che sono due traditori.
Sui muri hanno scritto che sono due traditori.
Radio Mosca ha detto che sono due traditori... e... eppure erano comunisti fino dal 1936; erano due capi; erano stimatissimi; sono stati loro che hanno portato al PCI migliaia di adesioni.... Due traditori? Ma, se non fossero stati sinceri, non avrebbero fatto tutto quello che hanno fatto in favore del PCI.
E perché, allora, sono usciti? Stavano bene; erano stimati; erano amati; e sono usciti. Perché?
Sono due traditori? Ma quando si tradisce, si tradisce per un tornaconto; e loro non hanno avuto nessun tornaconto ad uscire dal PCI.
Sono due traditori? Ma... e chi è che lo dice? Tutta gente che non ha fatto neanche la metà di quello che essi hanno fatto per il PCI.
Hanno scritto sui muri che sono due traditori? Ma chi lo ha scritto? Dei «compagni» che nel 1936 erano in piazza a gridar: «Viva il Duce!», mentre Cucchi e Magnani organizzavano il PCI clandestino.
Sono due traditori? E chi hanno tradito? Nessuno. Sono usciti dal PCI, ecco tutto. Non c'è libertà di uscire dal PCI? Ma, allora, il PCI è una cosa obbligatoria. Sta a vedere che io, adesso, sono obbligato a comperare la tessera del PCI tutti gli anni! Ma... se io volessi uscire? Sarei un traditore anch'io? Che pasticci!
Cucchi e Magnani no, non sono due traditori. Sono stati troppo generosi fino a ieri, perché io possa credere che oggi — per il fatto che sono usciti dal PCI — siano traditori.
Ma perché queste cose che io penso, io non le posso dire pubblicamente?
Cucchi e Magnani. E se la causa della loro uscita dal PCI si chiamasse «libertà d'Italia?».
Già! è vero: Cucchi è tornato da poco da un viaggio in Russia.
Che sia per questo che è uscito dal PCI? Un viaggio in Russia è come una medicina? Sarebbe interessante domandargli che cosa ha visto in Russia!
Cucchi pubblicherà un libro, il cui contenuto — a quanto egli stesso ha lasciato capire — confermerà quello che io ti sono andato documentando.
Addio o arrivederci?