T'ho promesso all'inizio che tu solo avresti concluso: con tutta libertà. E voglio tener fede alla mia promessa. La conclusione vera la tirerai tu. Come meglio ti sembrerà.
Io soltanto ti confesso che la lettura della legge comunista in materia dì lavoro, e i fatti applicati che l'accompagnano, ti confesso che tutto ciò mi lascia una profonda tristezza nell'animo. È la tristezza angosciosa di chi s'accorge che esistono ancora degli uomini e dei metodi che sfruttano i poveri, quelli che vivono guadagnandosi il pane col sudore della loro fronte. Lo sfruttamento dell'uomo è sempre una violazione dell'ordine del creato; ma lo sfruttamento dell'uomo povero mi pare sia come il vertice della ignominia.
E oso dirti che a cancellare questa ignominia non basterà un tozzo di pane. Anche al cane, custode della casa, i ladri gettano del cibo: per farlo tacere. No, non è il solo pane che basterà a ridarci fiducia nell'avvenire. Perché oggi ci son troppi che si servono del pane come di una droga per farci star muti. È necessario, il pane. Ma vogliamo un pane nostro.
Non un crostino buttato per compassione. Ma la giustizia di un pane fresco guadagnato con la nostra fatica.
Neanche un avanzo lasciato a noi per paura della nostra sommossa, vogliamo. Ma una partecipazione d'amore al banchetto fraterno. A cancellare l'ignominia di questo secolo di sfruttamento, mi pare che sia necessaria prima di tutto l'applicazione della legge dell'Amore.
Di quell'Amore che anche tu apprendesti a conoscere, bambino, sulle ginocchia della tua mamma.
Amore che — ne sono certo — non è ancora spento nel tuo Cuore di lavoratore Italiano.