Crediamo opportuno, a miglior chiarimento per i lettori degli atti del processo, pubblicare le impressioni di un giornalista, che, al tavolo della stampa, ha seguito giorno per giorno, udienza per udienza, le varie fasi del dibattimento nonché la precedente polemica giornalistica con il «Risorgimento Liberale» sul problema dei prigionieri in Russia, la quale, pur non avendo avuto uno strascico giudiziario, rientra, almeno indirettamente, negli antefatti del processo.
S'è scritto e s'è detto, da qualcuno, che il processo D'Onofrio-Reduci fosse il processo Kravchenko italiano; da qualcun altro si è voluto sostenere che si trattasse di un «Antikravchenko». Non siamo né per l’una, né per l’altra definizione.
La causa per diffamazione intentata dal senatore comunista Edoardo D'Onofrio contro un gruppo di reduci dai campi di concentramento di Russia non può e non deve essere paragonata a nessun altro caso occorso al di là dei nostri confini: è una questione tutta nostra, una questione squisitamente italiana che potrà avere, sì, vasta risonanza anche all'estero e ripercussioni di carattere politico, certamente non volute, ma che in ogni caso non può avere in sé che una ragione sola: il trionfo della verità pura e semplice, scevra di speculazioni politiche, sulla tragica odissea di decine di migliaia di nostri fratelli i quali non ebbero altro torto che quello di adempiere fino in fondo il loro dovere; non si macchiarono di altro crimine che non fosse l'amore per la Patria e 1'accettazione del loro destino, senza discussioni, senza recriminazioni, al di sopra e al di fuori di ogni ideologia politica, anche sbagliata.
Dunque, niente «Kravchenko italiano», niente «Antikravchenko». Soltanto una querela per diffamazione inquadrata dall'ombra di un esercito di morti e dalle sofferenze di un manipolo di superstiti.
La differenza tra il processo di Roma e quello di Parigi è evidente. Là un ex funzionario sovietico si querela contro un settimanale comunista straniero, ed è il volto di una Russia — che non conosciamo e che quindi non vogliamo e non possiamo, onestamente, giudicare — che viene scoperto dal querelante. Russi i testi a discarico indotti dal settimanale francese, russi quelli d’accusa chiamati dal querelante; qua invece, un italiano, Edoardo D'Onofrio, che si ritiene oltraggiato dall'atteggiamento assunto verso di lui da altri italiani: l’uno e gli altri incontratisi in circostanze eccezionali. Là questioni interne di una nazione portate davanti alla giustizia di un Paese straniero; qua vicende accadute nei lontani campi di prigionia in terra di Russia, fra le steppe sconfinate, nel freddo intenso, ma vicende italiane, palpitanti nel cuore di ogni italiano, rivissute davanti alla giustizia italiana, per il trionfo, in Italia, della verità italiana. Là gravi accuse contro il comunismo nella sua ideologia e nella sua attuazione; qua soltanto la ferma volontà di sapere se è vero che uomini della stessa Patria, educati alla stessa civiltà, abbiano agito gli uni contro gli altri, i più forti contro i più deboli violando la più sacra delle libertà: la libertà di pensiero.
Qualcuno, è vero, ha voluto spostare i termini della questione cercando di trascinarla sul terreno politico; ma ciò non è valso a snaturare la sostanza del processo.
Inutile parlare di Russia offesa, di accuse ai soldati sovietici di ingratitudine per gli aiuti morali e materiali dati ai prigionieri dai russi, oppure del cattivo comportamento dei polacchi o dei rumeni nei confronti degli italiani. Inutile fare l’esaltazione della Russia per dare alla questione una veste politica. Al processo si è parlato, sì, anche della Russia, ma solo per inquadrare una situazione, senza rancori, senza odio per nessuno, forse neppure per tutti i fuorusciti italiani, che i prigionieri conobbero in quel triste periodo della loro vita. «Non odiamo nessuno» ci diceva un reduce nei corridoi del Palazzo di Giustizia. «Abbiamo tanto sofferto che nei nostri cuori non trova più posto nessuna passione: neppure l’odio» e aggiungeva: «Non vogliamo però che si insultino quelli che abbiamo lasciato laggiù, sotto la neve. Questo non lo permetteremo mai».
S’è parlato a lungo della Russia. Se ne è detto bene e se ne è detto male, ma il giudizio non voleva e non doveva essere sulla Russia e sul suo comportamento nei confronti dei prigionieri. Ecco perché sul processo non si doveva tentare, da nessuno, la speculazione politica.
Il punto era questo: i reduci dalla Russia sono dei «libellisti» diffamatori, o davvero D'Onofrio e i suoi amici fecero quello di cui li si è accusati?
Nell’Aprile del 1948 l'Unione Nazionale Reduci dalla Russia, pubblicava un numero unico sulla cui testata a lettere di sangue si leggeva «Russia»: sedici pagine di rievocazioni, di racconti documentati, di relazioni, proclami, incitamenti, tutti firmati da ex prigionieri di Russia.
Cosa ha spinto il senatore D'Onofrio a querelarsi contro la pubblicazione?
C'è una pagina intera, nel numero unico, dominata da un titolo «I nostri aguzzini», e in fondo vi si legge: «Krinovaja, Minciurink, Tambott: nessuno ne parla ed erano peggiori di Mejdanek, Buchenwald, Mathausen che tutto il mondo conosce». Questa è la pagina incriminata. La parte che specificamente si riferisce, con caratteri in grassetto, alla persona del senatore D'Onofrio, firmata dagli attuali imputati Domenico Dal Toso, Luigi Avalli e Ivo Emett, dice testualmente:
«D'Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:
1) assistito dal Fiammenghi e alla presenza di un ufficiale della N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani detenuti in quei campi;
2) non si trattava di semplici conversazioni politiche come ipocritamente il D'ONOFRIO vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;
3) immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campi alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancor oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;
4) simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (non ritornerete a casa; lei non conosce la Siberia? allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi».
Non era la prima volta che il parlamentare comunista veniva direttamente attaccato. Egli stesso nel corso del processo ha parlato di una polemica giornalistica con il «Risorgimento Liberale», ma di questa si tratterà più avanti.
Nella pagina dedicata agli «aguzzini», altre relazioni narrano dell’attività di fuorusciti i nomi dei quali spesso ricorreranno durante il dibattimento. Dice, ad esempio, il tenente dei bersaglieri Umberto Puce che «nel campo 160 incontrammo il fuoruscito comunista Roncato nato in Italia, che vi esercitava le mansioni di «commissario». Dopo di lui si succedettero un certo Rizzoli, un certo Ossola e una certa signora Torre. L’opera di questi fuorusciti era precipuamente la propaganda politica e nulla hanno mai fatto per alleviare le condizioni materiali e morali dei prigionieri italiani, anzi coadiuvando l'ufficiale della N.K.V.D. del campo, perseguitavano in ogni modo quelli tra noi meno malleabili. Avevano istituito un servizio di spionaggio espletato da quei prigionieri che s'erano lasciati adescare o intimorire dalle loro parole, sicché non era infrequente il caso che qualcuno di noi fosse chiamato nell'ufficio del «Commissario» dove gli veniva contestata qualche frase pronunciata o qualche atteggiamento assunto e non ritenuto eccessivamente lusinghiero per l'Unione Sovietica ed il suo regime. Nell'opera odiosa di persecuzione verso gli italiani prigionieri si è, al campo 160, particolarmente distinto il nominato Rizzoli, il quale a più riprese ci ha minacciato di non farci tornare in Italia se non mutavamo il nostro atteggiamento anticomunista. Tali pressioni e minacce erano più violente quando l'ufficio politico, in particolari circostanze, prendeva l'iniziativa di inviare appelli o messaggi a firma dei prigionieri di guerra. Gli interrogatori ai quali venivamo sottoposti erano estenuanti: in essi si voleva conoscere la posizione professionale e la condizione dei nostri parenti ed amici in Italia, le nostre e le loro idee politiche, l'opinione nostra e dei nostri compagni di prigionia sull’Unione Sovietica e sul comunismo. L’ufficio di polizia del campo si serviva di informatori, i quali, sotto l'obbligo del più assoluto segreto, pena gravi sanzioni, si impegnavano ad una collaborazione che «poteva anche continuare in Italia...».
E Don Enelio Franzoni: «... Ho chiesto al comando russo di poter andare a far visita ai malati tramite il commissario Fiammenghi, mi fu risposto che non era possibile.... Un giorno il commissario Fiammenghi fece sapere a noi cappellani che i Russi non gradivano che recitassimo la sera il Rosario...».
Ma di queste cose sentiremo parlare molto a lungo nell’aula dove si svolgerà il giudizio.
Accuse gravi, molto gravi, come si vede, ma non nuove, perché un mese prima che fosse pubblicato il numero unico un altro reduce dalla prigionia aveva formulato le stesse accuse negli stessi termini su «Risorgimento Liberale». Sorse così una lunga polemica fra il giornale romano e il D'Onofrio, polemica che peraltro non giunse ad alcuna conclusione forse perché l'ex fuoruscito fu distratto dalle nuove accuse lanciate contro di lui dal numero unico, contro il quale nel termine di pochi giorni si querelava con ampia facoltà di prova.
Alle accuse lanciate dal sottotenente medico Vincenzo Pugliese, il senatore D'Onofrio rispose subito che i fatti menzionati «esistono solo nella fantasia di chi ha scritto l’articolo» e pregò il direttore di smentire l'informazione o, quanto meno, di correggerla nel senso che «non ho mai sottoposto prigionieri italiani ad interrogatorio. Non avevo il diritto di farlo, né mi sono mai fissato questo compito. Ho invece fatto tra i soldati italiani in Russia, continua propaganda antifascista, incoraggiando in essi tutte le tendenze alla democrazia e alla lotta contro i tedeschi. A questo scopo mi è stata sufficiente, in ogni circostanza, la semplice parola».
Ma la smentita del D'Onofrio ebbe l'immediata e secca replica del reduce il quale ribadì e confermò le accuse citando episodi, precisando nomi. «...Di domanda in domanda e di risposta in risposta si arrivava all'argomento che loro interessava. Quando credevano, infatti, che l'individuo fosse giunto a maturazione gli chiedevano l'attiva partecipazione e la collaborazione nella loro opera di propaganda. Nella maggior parte dei casi la conversazione, chiamiamola pure così, si esauriva qui, non perché «la semplice parola» fosse sufficiente a convincere quei disgraziati, ma perché non era necessario ricorrere ad esplicite minacce, in un ambiente dove la fame, le epidemie, il freddo, i maltrattamenti avevano già mietuto migliaia di vittime e i pochi superstiti terrorizzati, erano più che mai attaccati alla vita».
Ma le cose non andavano sempre così e talvolta D'Onofrio e gli altri si trovavano di fronte a gente che «voleva parlare chiaro» e che il più delle volte rifiutava di collaborare nella opera di propaganda. «Era allora che le minacce si sostituivano alle «semplici parole» e purtroppo non restavano semplici minacce, che alcuni di quegli uomini furono allontanati e isolati nei campi di punizione e alcuni sono ancora trattenuti prigionieri nell’U.R.S.S. sotto l’accusa di criminali di guerra».
Ad ogni accusa seguì immancabilmente una smentita e a questa, regolarmente, una nuova accusa, precisa, circostanziata.
«Mi pareva che fosse mio dovere incoraggiare in essi ogni moto e tendenza verso la democrazia...» scriveva D'Onofrio, e aggiungeva «.... Sono tuttora convinto di aver fatto bene e di aver fatto con questo il mio dovere di comunista e di italiano. Credo di averlo provato. Provi ora il signor Vincenzo Pugliese che il suo modo di pensare e di giudicare la cosa non sia quello fascista...». E il Pugliese, di rimando «... potrei risponderle con il mio curriculum vitae, ma ciò non avrebbe interesse per nessuno, nemmeno per lo stesso D'Onofrio, perché nulla risulterebbe che potesse avvalorare la sua tesi... Non tenti il signor D'Onofrio, a corto di argomenti, di rovesciare la situazione sforzandosi di dare alle mie parole senso e interpretazione che esse non hanno. Non tenti di spostare i termini della polemica, ma risponda invece, se può, non con «semplici parole» come abilmente sa fare, ma citando fatti che provino le sue smentite».
Ed ecco il fatto strano di questa lunga polemica. Un gruppetto di reduci dalla Russia che seguivano attentamente lo scambio di lettere che il giornale romano ospitava, pensò di intervenire in appoggio al collega Pugliese e così nel numero di mercoledì 17 marzo 1948 del «Risorgimento Liberale» appariva, a conferma di quanto il Pugliese sosteneva, una serie di precise accuse, raggruppate in quattro punti, «a proposito dell'attività svolta in quei lager dal D'Onofrio, durante la sua permanenza». La lettera pubblicata recava le firme di dieci reduci e per prima quella dell’attuale imputato, ten. Domenico Dal Toso. Non solo, ma le accuse in quella lettera contenute erano le stesse, con le identiche parole che un mese più tardi apparivano sull'incriminato numero unico «Russia». Ora, è lecito chiedersi, perché il D'Onofrio non pensò allora a querelarsi mentre invece si ritenne particolarmente oltraggiato un mese più tardi? Le accuse erano quelle, formulate nella stessa maniera, firmate da una almeno delle stesse persone che firmarono l’articolo del numero unico.... Ciò appare veramente strano. Comunque da quel momento la polemica si allargava tanto da non essere più qualche cosa di personale fra il D'Onofrio e il Pugliese, ma, come oggi il processo, fra D'Onofrio e i reduci dell'ARMIR.
Aveva scritto D'Onofrio: «I russi rispettavano come prigionieri di guerra i soldati italiani, non li fucilavano, né li facevano a pezzetti, anche se in camicia nera». «Non è vero!». Rispondeva Giannetto Palmas e a dimostrazione citava un episodio di cui era stato testimone oculare il 19 gennaio del 1943 a Valuikj: «Dei 45 uomini del comando del 61° Autogruppo, all'arrivo nel paese delle orde cosacche solo una decina riuscirono a sganciarsi e a ritirarsi su Karkoff. Trenta, fra cui il maggiore comandante il Gruppo, furono catturati dai cosacchi, quindi spogliati e fucilati presso i loro automezzi.... Ricordo ancora che durante le marce verso i campi di smistamento, il 26 gennaio 1943 (35° sotto zero), un maggiore, già derubato degli indumenti invernali, per non aver ubbidito immediatamente all'ordine di consegnare le mutande che indossava, fu spogliato, bastonato a morte e finito con una raffica di mitra... E che dire poi del sistema abituale della scorta che sparava su tutti quelli che, sfiniti dalla fatica e dalla fame, non avevano la forza di proseguire il cammino, o su quelli che si allontanavano dalle file in cerca di cibo o che si avvicinavano ai pozzi per bere?».
Ma il senatore D'Onofrio non disarmava di fronte alle accuse e alle citazioni dei reduci e tornava a smentire insistendo di essere completamente estraneo a qualsiasi misura di punizione che possa esser stata presa dalle autorità del campo nei riguardi di questo o di quel prigioniero; di non avere mai avuto bisogno per far accettare dai prigionieri le idee propagandate di «abusare della loro pretesa debole resistenza fisica e morale»; dicendosi grato alle autorità sovietiche «di avermi permesso di svolgere questo mio lavoro di antifascista e di italiano».
«... Una simile beffa non possiamo tollerarla» ribatteva il ten. Pugliese, aggiungendo «... Ma noi non possiamo dimenticare e non dimenticheremo mai le interminabili marce, la fame terribile, le spoliazioni, le epidemie, i campi di Oranki e di Tamboff.
«... Signor D'Onofrio, quale sorte è toccata alle decine di migliaia di feriti restati sul campo che i bollettini sovietici davano come catturati nelle sei settimane fra il dicembre 1942 e il gennaio 1943? Se non ricorda esattamente la cifra potrà rileggerla a pagina 250 del libro «Discorsi agli italiani» del suo compagno Mario Correnti (alias Togliatti) pubblicato per le edizioni in lingue estere a Mosca nel 1943».
E Giuseppe Bassi accusava D'Onofrio di essere un agente della N.K.V.D.; e ricordava come il ten. Nannini portato nel 1942 nel carcere di Lubianka «durante ripetuti ed estenuanti interrogatori, minacciato di morte, bendato, ebbe perfino la pistola puntata alla tempia e poi, nell’attesa della morte, udì lo sparo... ma non l’avevano ucciso, l'avevano risparmiato perché volevano sapere notizie di carattere militare». Aggiungeva il Bassi: «Sappia il D'Onofrio che conosciamo benissimo quei pochi ufficiali che passarono dopo breve crisi di coscienza e di «stomaco» al comunismo e tanto per citarne qualcuno, essi rispondono ai nomi di Danilo Ferretti, gerarca fascista, ex segretario particolare del ministro Lessona, volontario di Spagna e capomanipolo della milizia; Fidia Gambetti vincitore del premio «Poeti del tempo di Mussolini», con la ode «Siamo esclusi», ex capo dell’Ufficio Stampa e Propaganda della federazione fascista di Forlì e poi passato per benemerenze speciali a dirigere il «Corriere di Asti», settimanale di quella federazione fascista. Sul fronte russo nel battaglione cc.nn. «Leonessa», era da tutti temuto perché considerato quasi come un commissario politico. Per riabilitarsi presso i russi pubblicò a puntate su «L'Alba» un diario segreto dal titolo «Una generazione sbagliata». Non parliamo poi dei vari gerarchetti del Guf tipo D’Alessandro, e del maggiore Uberti. Ma non è il compagno D'Onofrio il solo italo russo il quale ai servizio della N.K.V.D. abbia fatto del male agli italiani, ma anche altri ed in special modo: il compagno Paolo Robotti, ex rappresentante del partito comunista italiano a Mosca, che, raccolta la eredità del D'Onofrio, fece trattenere nel luglio 1946 cinquanta ufficiali a Vienna, e i vari commissari politici: Fiammenghi, Rizzoli (alias Gottardi Dino), Ossola, e altri che svolsero la loro attività... «spirituale» nei campi di concentramento».
Ed ecco ancora come Don Enelio Franzoni, il quale ne farà poi ampio racconto in qualità di teste a discarico nel processo, interveniva nella polemica narrando dell’interrogatorio da lui subito dal D'Onofrio. «... Naturalmente io continuavo a schermirmi e mi andavo chiedendo con quale autorità il signor D'Onofrio mi ponesse quelle domande. Davanti al mio riserbo D'Onofrio e gli altri due (Fiammenghi e il magg. Orloff) cominciarono a spiegarmi di quanti guai fosse stato causa il fascismo in Italia. A questo punto mi fu chiesto quali mezzi ritenevo più adatti per affrettare la rivolta in Italia. Io risposi che non era compito mio in quanto sacerdote e che, come tale, avrei dovuto svolgere la mia missione in una Italia fascista o comunista o retta da qualsiasi altra corrente politica. «Ma il fascismo rovina l'Italia» incalzavano i miei tre inquisitori. «Anche lei deve fare qualche cosa per abbattere il fascismo». «Che il fascismo rovini l'Italia, lo vedo anch’io — soggiungevo — ma non vedo che cosa ci possa fare io, prigioniero». D'Onofrio non era soddisfatto; evidentemente voleva da me qualche frase che mi compromettesse in un senso o nell’altro ma per quanto il tifo mi avesse stordito non ero al punto di prestarmi al gioco. Quando uscii dall’interrogatorio, durato non meno di un’ora e mezza....... l'indomani altri e poi altri ancora passarono innanzi a quel tribunale arbitrario, turni ancora più lunghi del mio che, per i meno guardinghi nel rispondere, ebbero conseguenze più gravi».
Eccoci ora all'ultimo assalto di questa sorta di duello fra accusato e accusatori.
Il D'Onofrio il giorno 1° aprile del 1948, in una lunghissima lettera di risposta, nella quale trovava giustificazioni a tutte le accuse, ribattendole una ad una ai singoli reduci che nella polemica erano via via intervenuti, faceva una citazione per «testimoniare a chi molte mamme italiane devono la morte dei loro figli sul fronte orientale». Diceva la dichiarazione: «Noi 386 feriti italiani, soldati ed ufficiali, nonché sette ufficiali medici degli ospedali di Kantemirovka, siamo stati fatti prigionieri il 19 dicembre 1942 durante la ritirata delle truppe italo germaniche perché abbandonati dal nostro Comando. Riteniamo nostro dovere dichiarare pubblicamente la verità circa la buona accoglienza ed il trattamento umano fattoci da parte delle autorità russe e dai medici russi». La dichiarazione recava in calce le firme del capitano medico G. Mancini, ospedale n. 514; capitano medico G. Mulazzi, Divisione Sanità; tenente E. Pastore, 90° fanteria ecc...
«Ho qui un documento del 18 gennaio 1944 firmato da 460 ufficiali nel quale essi dichiarano la loro solidarietà con la lotta di liberazione in Italia. Ne ho un altro di 490 firme sempre di ufficiali italiani, nel quale essi salutano l'anniversario dell’alleato esercito sovietico. Ne ho un altro ancora con 535 firme nel quale si saluta l'avvenuta formazione in Italia del Governo di Unione Nazionale. Ne ho infine una serie di altri con i quali si chiede al governo sovietico l’onore per gli italiani prigionieri di battersi contro l'esercito tedesco e i fascisti alleati dei tedeschi». E concludeva invitando il direttore del giornale a tener presente che «i signori che le scrivono, sono quegli stessi che nell’Unione Sovietica hanno ostacolato questo allineamento nazionale dei prigionieri italiani ai primi governi del nostro Paese dopo la caduta di Mussolini. Essi hanno agito da fascisti e quindi da antinazionali. Se in Italia esistesse un po’ di giustizia essi dovrebbero essere per lo meno sottoposti a giudizio morale del popolo italiano ecc. ecc...».
Ma uno dei firmatari della dichiarazione dei 386 feriti era tornato, proprio in quel tempo, dalla Russia e non tardò un istante a rispondere alla citazione del D'Onofrio. È il capitano medico Mancini, direttore dell'ospedale di Kantemirovka: «Rimasti prigionieri il 19 dicembre 1942 dovemmo dopo pochissimi giorni, rilasciare tale dichiarazione che fu da noi ufficiali medici, poiché gli altri erano degenti feriti o ammalati, compilata dopo varie modifiche fino ad essere accettabile ai russi. Sarebbe stato più esatto, nel riportare la dichiarazione, non omettere la data nella quale venne rilasciata, poiché dopo pochi mesi solo pochissimi sopravvissuti avrebbero potuto riconfermarla. Allora (ed eravamo alla fine del 1942) potevamo ancora dichiarare «la buona accoglienza e il trattamento fattoci da parte dell’autorità russa e dai medici russi» in quantochè solo un tenente cappellano e quattro graduati infermieri erano stati fucilati (20-21 dicembre 1942) e lo strumentario chirurgico e i medicinali non ci erano stati ancora sottratti».
«... È noto che molti feriti durante la precipitosa ritirata furono abbandonati a Kantemirovka ma non è a tutti noto che alcuni medici e soldati di sanità restarono volontariamente accanto ai feriti affrontando la prigionia. Al cap. med. Mulazzi gravemente ammalato di tifo addominale, fu fatta firmare la dichiarazione in stato di incoscienza e delirio; dopo qualche settimana, convalescente del tifo, decedette in cachessia..... A sua volta il ten. Pastore decedette in altro campo dopo lunghe marce di trasferimento nonostante le ferite non si fossero ancora rimarginate.... L’elenco dei ricoverati, l’elenco dei morti e il registro operatorio mi furono sottratti dalle autorità russe».
L’ultima parola al ten. Pugliese il quale al D'Onofrio che lo accusava di essere «proditoriamente entrato in casa sovietica da ladro e da brigante» rispondeva che «... quando facevo esporre fuori dell’infermeria la bandiera della CRI era un accorrere di gente che veniva a far medicare le proprie piaghe, a chiedere medicine e farsi visitare. Molte volte mi sono allontanato dal reparto per recarmi in qualche isba spersa nella steppa a visitare qualche civile gravemente ammalato. Questa mia opera mi valse il soprannome di «umanitario».
E concludeva: «Ma ora voglia essere cosi gentile da togliermi una curiosità: perché i russi si affannavano ad estorcere dichiarazioni ed attestati «di benemerenza?». Forse erano consci di essere in difetto e volevano crearsi una documentazione che li scagionasse? Perché quell'attestato di benemerenza come molti altri del genere, rilasciato alle autorità sovietiche e raccolto da ufficiali russi nel 1942 a Kantemirovka si trova ora in mano sua? Forse lei è stato nominato avvocato difensore dello Stato sovietico?».
Ma questi interrogativi rimasero senza risposta.
Qualche giorno più tardi usciva il numero unico «Russia» e il sen. Edoardo D'Onofrio si querelava.