Al termine del conflitto, nel 1947, una relazione del Ministero dell’Assistenza Postbellica delineava un consuntivo della situazione degli oltre 1.450.000 militari italiani che, caduti in mano nemica sui vari fronti e nei più diversi momenti, erano poi passati attraverso i campi di prigionia e di internamento sparsi in tutto il mondo, in tutti i continenti e a tutte le latitudini:
dalle Americhe alle isole Haway; dalla Gran Bretagna ai territori di sovranità britannica dell’Africa, dell’Australia e dell’India; dalla Russia europea alle steppe siberiane; dai campi di morte di Germania, Polonia ed Austria all’inferno balcanico; dal cuore di Francia alle zone atlantiche e mediterranee dell’Africa Settentrionale.37
Una tale “dispersione” comportò ritardi pressoché generalizzati nel rimpatrio dei prigionieri, dovuti prevalentemente alle scarse possibilità materiali degli Alleati, impegnati ancora nel tardo 1945 dalle prioritarie urgenze logistiche provenienti dai diversi territori occupati, e alle evidenti difficoltà di funzionamento del governo italiano, forse più preoccupato di “spalmare” con equità gli uomini dei partiti antifascisti sulle istituzioni dello Stato e sulle amministrazioni locali che di fare rimpatriare reduci dalla prigionia le cui idee politiche erano ancora tutte da verificare.
Nel caso dei militari prigionieri nell’Unione Sovietica, invece, furono piuttosto le autorità detentrici a ritardare la restituzione degli italiani, lasciando peraltro i familiari nella più completa oscurità riguardo la loro sorte: tale era il disprezzo del governo sovietico nei confronti di una piccola nazione che aveva perduto la guerra, e così grande era l’odio verso il soldato che cade prigioniero del nemico, da indurre l’Unione Sovietica a limitarsi alla richiesta di restituzione di tutti i civili russi in territorio italiano, disinteressandosi del tutto di una loro espressione di volontà in tal senso. Accanto a tutte le difficoltà immaginabili, infatti, si aggiungeva il proposito di non fare uscire, o di fare uscire il più tardi possibile, gli “occidentali” che fossero venuti a contatto con l’Armata Rossa: prova ne è il fatto che gli italiani internati nei lager nazisti che furono raggiunti e “liberati” dai russi nell’autunno 1944 furono poi da costoro internati nei lager sovietici e costretti al lavoro coatto; essi vennero poi restituiti all’Italia assieme ai vari contingenti di prigionieri di guerra in numero di 11.059, con un numero di decessi nei lager sovietici pari ad almeno 1.153 casi accertati38.
Non ripercorreremo qui le vicende, intricate quanto penose, del ritorno in patria degli italiani dalla Russia39. Sarà sufficiente ricordare che le operazioni di rimpatrio della maggioranza dei prigionieri (anzi, dei sopravvissuti) si svolsero fra il settembre 1945 e il marzo 1946, eccezion fatta per gli ufficiali e per coloro che, colpevoli nella più parte di avere manifestato forti sentimenti anticomunisti, o anche soltanto patriottici, furono trattenuti ancora per periodi variabili da qualche mese sino ad alcuni anni.
Le partenze degli ufficiali furono invece avviate verso la fine di aprile 1946: la notizia, non appena diramata per il Campo 160, provocò un giubilo generale, subito però tramutatosi in rabbiosa amarezza quando si venne a sapere che trenta uomini sarebbero stati trattenuti: fra questi gli ufficiali superiori, alcuni ufficiali accusati di attività “reazionaria” e un malato grave, il tenente degli Alpini Giulio Leone. A costoro si aggiunse un altro prigioniero determinato, per scelta propria, a non partire: il cappellano don Enelio Franzoni, che chiese e ottenne dal comandante del Campo di rinunciare al rimpatrio per rimanere vicino al moribondo e continuare il suo apostolato presso i trattenuti (gesto che gli valse poi la Medaglia d’Oro al valore militare).
Gli ufficiali che partirono per il ritorno in patria, da Suzdal’ vennero trasferiti a Odessa sul Mar Nero, dove rimasero a stazionare per un mese e mezzo, fino al 6 giugno, allo scopo piuttosto palese di impedire loro di prendere parte alle consultazioni referendarie e per la Costituente o di influenzarle con i loro racconti. Poi furono inviati a Maramaros Sighet in Romania, dove rimasero una settimana in attesa di proseguire per l’Austria. E proprio a Maramaros avvenne un altro episodio drammatico che coinvolse anche il sottotenente Cecchini e che nel suo memoriale trova ampia descrizione: dietro indicazione di funzionari politici italiani, furono trattenuti cinquanta ufficiali individuati fra i cappellani e gli “irriducibili” (ovvero fra coloro che durante la prigionia avevano sempre dato prova di ostilità nei confronti del regime staliniano o di impermeabilità alla propaganda comunista), i quali vennero rimpatriati dopo qualche settimana soltanto, dopo essere rimasti nella più penosa incertezza riguardo la loro sorte. Probabilmente si voleva evitare che con la loro condotta influenzassero i colleghi inducendoli a gesti o manifestazioni avverse al Pci; secondo gli autori del Rapporto Unirr, inoltre, i trattenuti dovevano considerarsi “evidentemente in ostaggio, in attesa delle reazioni che si sarebbero prodotte in Italia al rientro del gruppo principale” 40.
Altri 28 militari italiani, invece, dovettero attendere ancora qualche anno prima di ritornare in patria: trattenuti con accuse pretestuose, non escluse opportunistiche delazioni a opera di compagni di prigionia, furono sottoposti a processi-farsa, “dimenticati” per anni nel lager di Kiev in Ucraina, e infine rispediti a casa soltanto fra il 1950 e il 195441. In queste persecuzioni personali ebbero parte non trascurabile i delatori asserviti ai commissari politici comunisti, molti dei quali peraltro, nonostante le loro proteste, furono fatti rimpatriare assieme agli altri; il sottotenente Manlio Francesconi ricorda che cosa avvenne al momento del passaggio del confine italiano:
Un’ansia compressa, trattenuta lungo tutto il viaggio stava per esplodere: ribolliva in noi come l’acqua dei torrenti ingrossati dalla pioggia. Improvvise esplosero, deliberate e violente, le reazioni alla forzatamente contenuta sopportazione della condotta dei delatori, concretandosi in atti brutali, tremendamente umani. Un padre cappellano, ai primi sintomi della tempesta che stava per scatenarsi in noi, rivolse a tutti parole di fratellanza e di perdono, ma poi si dev’essere convinto che nei delatori c’era il demonio, perché lui pure entrò nella mischia. […] Una reazione sintetizza tutte le altre. Due corpi avvinghiati rotolarono giù per la scarpata erbosa e bagnata della ferrovia dove il treno era in sosta. I due corpi si fermarono seminascosti dall’erba sul prato sottostante. Uno si rialzò per primo e tenendo con un ginocchio e con una mano fermo l’altro, raggomitolato e tremante, divelse un bastone dalla terra molle. Il bastone si agitò più volte descrivendo nell’aria lo stesso arco. Sembrava non dovesse più fermarsi, gli occhi di tutti seguivano quel movimento forte e rabbioso. Ad ogni colpo, qualcuno scandiva un nome, il nome di un amico che non era tornato: “Tenente Joli, Capitano Magnani, Capitano Jovino, Tenente Reginato, Tenente Pennisi, Tenente don Brevi, Maggiore Massa, Maggiore Russo, Maggiore Zigiotti, Capitano Musitelli…”42.
Il ritorno dei prigionieri, tra la seconda metà del 1945 e l’estate ’46, avvenne per lo più nell’indifferenza generale: troppe erano le ferite da rimarginare nel paese; al Nord tutti avevano combattuto o sofferto la guerra civile; ovunque la gente era impegnata nella ricostruzione e non c’erano né tempo né moti di compassione per i reduci dai lager sovietici. Di quel periodo dà oggi un quadro generale, in una ricostruzione efficace e convincente, Guido Crainz43. Ad attendere i rimpatriati, pressoché a ogni arrivo alle stazioni delle diverse città, c’erano i genitori e le spose dei militari “dispersi”, di cui non si avevano più notizie, che mostravano ai reduci le fotografie dei loro cari domandando se li avevano visti e se ne sapevano qualcosa.
È esemplare dell’aspetto fisico del reduce dalla prigionia l’aneddoto ricordato dal tenente pilota Loris Nannini, che durante il viaggio di ritorno verso la sua natia Pistoia fece scalo alla stazione di Firenze dove ricevette, non richiesta, un’elemosina:
Mi riprese la stanchezza; forse anche qualche brivido. Avevo bisogno di aiuto ma non lo chiesi. Appoggiai lo zaino contro la parete appena fuori del bar della stazione di Santa Maria Novella; mi sedetti a terra, accovacciandomi accanto a quel mio bagaglio. La stanchezza, le emozioni, la fame, presero di nuovo il sopravvento. Caddi in uno stato di sopore. Ormai, dopo tanto, ero quasi a casa, sopravvissuto miracolosamente a quelle prigionie. In quello stato febbricitante sentivo, lontano, quasi fosse soltanto nella memoria, un rumore argentino, che a tratti risuonava vicino a me, rotolando un attimo, quale una moneta che trovava la sua quiete sui marmi di quella stazione. “Poveretto” sentii dire, mentre percepivo nel palmo della mano il freddo di un dischetto metallico. Guardai; era proprio una monetina.44
Il problema dei prigionieri italiani in Urss determinò nella popolazione forti tensioni sin dai primi passi compiuti dal governo Bonomi nel Regno d’Italia liberato dagli Alleati, nell’estate 1944; il motivo stava evidentemente nella assoluta mancanza di notizie su tutti i dispersi, di cui non si sapeva se fossero ancora vivi e prigionieri o se fossero morti e dove. L’esame delle carte diplomatiche italiane da quell’anno 1944 fino al 1954, compiuto di recente45, ha dimostrato che il governo italiano, pur nella frammentarietà delle notizie, era tuttavia a conoscenza con una certa precisione che i prigionieri detenuti dai sovietici erano in numero ben minore di quanto l’opinione pubblica italiana sperasse. La questione dei prigionieri in Urss era trattata con particolare cautela, sia per la precaria posizione dell’Italia, almeno sino alla definizione del trattato di pace, sia per la difficoltà di rapportarsi con uno Stato molto diverso per forma di governo, per costumi e per ideologia, che considerava i prigionieri di guerra (compresi i propri cittadini detenuti in quel momento da altre potenze) come traditori della patria indegni di qualsiasi forma di attenzione.
Al tempo stesso la presenza in Italia di un forte Partito comunista, il cui peso specifico doveva ancora essere valutato a pieno nelle elezioni nazionali, contribuiva a inquinare ulteriormente una situazione contingente nella quale si profilava all’orizzonte un numero di morti come non si era avuto in nessun’altra forma di prigionia. Perciò una certa parte dell’opinione pubblica – quella di sinistra – vedeva nei reduci dalla prigionia coloro che (specialmente gli ufficiali) dopo avere partecipato a una guerra fascista di aggressione nei confronti dell’Urss, subendo conseguentemente una “meritata” prigionia, minacciavano ora di farsi strumento di propaganda anticomunista a danno dei partiti uniti nel Fronte Democratico Popolare. Infatti il ritorno in massa alle proprie case di una grande quantità di ex-combattenti che avevano preso contatto diretto con le miserevoli condizioni del popolo sovietico (tali non soltanto a causa dell’economia di guerra) e con l’infernale macchina poliziesca che lo opprimeva, avrebbe creato un serio imbarazzo nei militanti del Pci che proprio in quel periodo, in Italia, cantavano le meraviglie del paese di Stalin.
In un primo tempo, dunque, prevalse indubbiamente nei partiti di centro-destra la necessità di garantire la stabilità del governo di coalizione antifascista da qualsiasi forma di tensione, evitando perciò di coinvolgere apertamente sia l’Urss sia personalità del Pci, a essa legate, che avevano avuto ruoli attivi nei campi di prigionia: nonostante le manifestazioni anticomuniste sorte spontaneamente a opera di associazioni e singoli militanti, quindi, il governo mantenne intenzionalmente un profilo basso sulla questione dei prigionieri in Russia. In un secondo momento, invece, e precisamente dopo l’allontanamento dei social-comunisti dal governo e la formazione del IV gabinetto De Gasperi nel maggio 1947, l’argomento dei prigionieri prese a essere utilizzato in funzione apertamente propagandistica ed elettorale, al punto da risultare fra i temi dominanti della campagna in occasione delle elezioni del 18 aprile 1948.
L’evento più sensazionale fu rappresentato dal “processo D’Onofrio”, intentato dal senatore Pci Edoardo d’Onofrio con l’accusa di diffamazione ai reduci firmatari dell’opuscolo Russia. In prossimità delle consultazioni del 18 aprile un gruppo di reduci pubblicò un libello polemico per svelare all’opinione pubblica il trattamento subito nei lager sovietici e il comportamento dei commissari politici italiani, definiti come aguzzini. La particolare delicatezza dell’appuntamento elettorale, ormai inserito a pieno nella “guerra fredda”, fece sì che i partiti avversi al Pci garantissero allo scritto un’enorme risonanza mediatica. Uno degli esponenti comunisti chiamati in causa, il senatore Edoardo d’Onofrio, querelò per diffamazione i firmatari del pamphlet. Il processo, cominciato il 21 febbraio 1949, salì alla ribalta delle cronache soprattutto fra il 16 maggio e il 22 giugno (periodo in cui avvennero le deposizioni dei vari testi) e nel corso del mese di luglio (occupato dai dibattimenti e dalle arringhe sino al giorno 22 in cui fu emessa la sentenza) e si concluse con l’assoluzione degli imputati nonostante non tutti i fatti attribuiti a D’Onofrio fossero stati provati46.
Le strumentalizzazioni politiche dell’una e dell’altra parte si sono riprodotte inevitabilmente anche nella storiografia, che troppo spesso ha assunto funzioni penitenziali e giustizialiste, più proprie d’un pubblico ministero esaltato che d’un giudice imparziale quale lo storico deve tendere a essere, come se il giusto tributo a chi era nei Campi a patire e a morire dovesse implicare per forza di cose un’esaltazione del militarismo o del regime che aveva voluto quella guerra. Per lungo tempo è quindi persistito l’atteggiamento di taluni storici improntato alla cautela, quando non addirittura alla diffidenza, verso la memorialistica dei reduci più accanitamente anticomunisti (ma mai antirussi), al punto da fare dire che a rappresentare la prigionia “nei resoconti giornalistici e nella memorialistica” furono i “più vocianti” 47. Ciò stride a fronte della giusta considerazione che si è sempre riservata ai racconti dei superstiti dai campi di prigionia germanici, il cui valore in sede storiografica non è mai stato negato, ed è offensivo del rispetto che si deve al particolare punto di vista dell’autore di ciascun memoriale e del suo diritto alla soggettività. In realtà le memorie che non fossero depurate dei maltrattamenti e delle pressioni psicologiche sono immediatamente incorse nella censura di chi le ha bollate come funzionali alle consultazioni elettorali o, nel migliore dei casi, come una letteratura d’evasione volta alla ricerca del patetico e diretta a un pubblico desideroso di lasciarsi commuovere, ma sostanzialmente priva di approfondimento analitico.
In realtà il reduce dai lager russi non è mai ricorso a bizantinismi unicamente perché non ne ha sentito il bisogno: per ricostruire il suo dramma sono sempre bastati i fatti, mentre per descrivere il suo stato d’animo nessuna parola è stata né potrà essere mai sufficiente. I suoi racconti vanno ascoltati con la ragione e con il cuore: con la ragione perché essi sono motivati da quel bisogno di narrare i “fatti grandi e meravigliosi” che ha animato le migliori opere storiche; con il cuore nella consapevolezza che i rimpatriati dei lager sovietici non sono reduci come gli altri, poiché essi portano con sé, anzi addosso a sé, il ricordo dei morti, dei quali costituiscono il monumento vivente.
4- Tra “lavaggio del cervello” e resistenza
37 Cit. in Umberto Cappuzzo, “Le condizioni dei prigionieri di guerra nei vari fronti”, I prigionieri e gli internati militari italiani nella seconda guerra mondiale, a cura di Renato Sicurezza, Roma, ANRP, 1995, p. 85.
38 Vicentini e Resta, Rapporto, cit., p. 153-154. Il caso più eclatante è forse quello di Enzo Boletti, eroe della resistenza polacca, anch’egli “liberato” dai russi e restituito all’Italia soltanto nel 1956, per il quale rimando a Claudio Sommaruga, “Dai lager ai gulag”, Il dovere della memoria, a cura di Claudio Sommaruga e Olindo Orlandi, Roma, Edizioni ANRP, 2003, p. 153.
39 Sul ritorno dei prigionieri di guerra da tutti i fronti è ancora di una certa importanza il saggio-documentario di Massimo Sani, Prigionieri: I soldati italiani nei campi di concentramento 1940-1947, Torino, ERI-Rai, 1987, con una introduzione che lo stesso Sani presentò successivamente al convegno di Cesena del 1995 dedicato al ritorno dalla prigionia, i cui atti sono riportati in Il ritorno dai lager, a cura di Pietro Vaenti, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1996. Tra i saggi più recenti cf.: Il ritorno dei prigionieri italiani: Tra indifferenza e rimozione, a cura di Anna Maria Isastia, Roma, ANRP, 2006; Agostino Bistarelli, La storia del ritorno, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
40 Vicentini e Resta, Rapporto, cit., p. 177.
41 Francesco Bigazzi e Evgenij Zhirnov, Gli ultimi 28: La storia incredibile dei prigionieri di guerra italiani dimenticati in Russia, Milano, Mondadori, 2002.
42 Manlio Francesconi, Siamo tornati insieme, Roma, Volpe, 1968, p. 181-182.
43 Guido Crainz, L’ombra della guerra: Il 1945, l’Italia, Roma, Donzelli, 2007.
44 Loris Nannini, Prigioniero in U.R.S.S., Pistoia, Nannini, 1993, p. 231-232. Su questo personaggio si veda il mio “Loris Nannini: Un aviatore italiano nei lager di Stalin”, Rivista Aeronautica, a. LXXXI, n. 5 (2005).
45 Daniel Cherubini, I prigionieri italiani in Unione Sovietica: Tra storiografia e fonti d’archivio, Civitavecchia, Prospettiva Editrice, 2006.
46 Le arringhe dei legali di D’Onofrio furono pubblicate nel volume di Giuseppe Sotgiu e Mario Paone, La tragedia dell’Armir nelle arringhe di Sotgiu e Paone al processo D’Onofrio, Milano, Milano Sera, 1950. Le argomentazioni della difesa dei reduci si trovano invece nel volume di Giorgio Mastino Del Rio, In difesa dei reduci di Russia, Roma, s.e., 1949. La raccolta di interventi parlamentari di Edoardo d’Onofrio e Mario Palermo, Vogliamo un’inchiesta sul disastro dell’Armir: Discorsi pronunciati al Senato della Repubblica il 5 e il 6 luglio 1948, Roma, CDS, s. d. (ma 1948), documenta la linea politica del Pci. Il libro di Benigno Benassi, Il processo D’Onofrio e la verità, Bologna, Abes, 1949, contiene una sintesi degli atti. Il succitato volume è stato ripubblicato nel 2008 dall’Associazione Culturale il Mascellaro. Una ricostruzione viene oggi proposta in Alessandro Frigerio, Reduci alla sbarra: 1949: Il processo D’Onofrio e il ruolo del PCI nei lager sovietici, Milano, Mursia, 2006.
47 Calandri, “Quali scelte dei prigionieri…”, cit., p. 115.