Poi un bel giorno, così, all’improvviso e senza avvertimenti alcuni, la notizia tanto attesa passa di bocca in bocca simile al fragore di una vecchia quercia abbattuta e corre per ogni dove nel Campo:
“Davai bistrà, tra un’ora si parte, davai, davai”.
Lunga marcia a piedi, poi in lontananza appare il solito treno fermo su un binario morto in attesa del carico.
“Cristo santo, parto anch’io”, dice agli amici il c.b., quasi convinto che oramai i russi e i mongoli nostrani si siano dimenticati di lui.
Che strano però, ma poi mica tanto in questo più che strano, incomprensibile paese! Il convoglio riprende a rotolare lentamente, lentamente accompagnato dal sordo tam-tam delle ruote che passano sulle giunture delle rotaie; la locomotiva sbuffa ma riesce a trainare i carri e gli uomini, e va, va... va... verso occidente, non ci sono dubbi, anzi, per essere precisi si potrebbe dire verso nord-ovest, est escluso.
Piove per alcuni giorni, mondo cane; il sole, ci vuole il sole per stare tranquilli e conoscere la direzione di marcia con sicurezza; acciderba al cielo piovoso che confonde l’orientamento!
Oggi è sereno; ecco il sole che rompe là, s’alza laggiù, tramonta e sparisce qua e il treno, il convoglio corre nella direzione giusta. Dal nulla nasce una vocina timorosa che indica in Sighet il luogo della nostra prossima tappa.
“E dove si trova questo Sighet? In che parte del mondo è ubicato?”
“Sighet si trova in Romania”, affermano alcuni dotati di ricca cultura geografica.
Altri controbattono che quella cittadina si trova in Ungheria. Al c.b. poco importa se quel Sighet è un paese o una città della Romania o dell’Ungheria; se è in occidente basta così. Le guardie, durante una sosta del treno e come di abitudine in un luogo isolato, in aperta campagna, rispondono educatamente ed esaurientemente alle nostre ansiose domande:
“Nis naio, davai bistrà” (noi non sappiamo niente di niente, via).
Visto che ci stiamo allontanando sempre più dal paradiso rosso, al “davai bistrà” delle sentinelle qualcuno azzarda a rispondere:
“Spasibo (grazie), all’inferno paisa’”.
E la corsa del treno riprende lenta e monotona, verso ovest. Giorni e giorni di viaggio; chilometri e chilometri percorsi attraverso un paesaggio che non era più solo steppa infinita. Ci seguono tanta apprensione non confessata, ansia pure, ma anche speranza sempre più grande.
Fermi, il treno è giunto alla meta; si scende e un “davai bistrà” riforma la solita, tortuosa colonna. Ci troviamo alla periferia di una cittadina che grande non è ma che nemmeno ha segni di Russia; una scritta sbiadita dal tempo su un muro sbrecciato, con l’intonaco a pezzi, anche se a fatica indica il luogo dove siamo sbarcati: è proprio Sighet. I tetti delle case vicine si scorgono da un abbaino del grande caseggiato nel quale ci hanno alloggiati; non si notano in giro coperti di isbe e questo è un bel segno. Anche il cielo ha un azzurro come quello d’Italia e l’orizzonte confuso, che si perde non molto distante non è un orizzonte infinito come quello della steppa. Non c’è motivo di dubitare oltre; anche se di nuovo fermi, un altro lungo tragitto per arrivare nel nostro Paese è stato percorso.
“Dopo Sighet incontreremo l’Austria, poi le Alpi e infine la nostra Patria”, sussurrano con gioia e letizia i celoviek prigionieri.
Anche il c.b., generalmente sempre dubbioso e diffidente, soprattutto memore delle ramanzine enkevediane e paesane (niet firmare, niet Italia, niet scuola, niet ritorno e così via), quasi quasi si convince che il rientro in Patria sia oramai prossimo e fra non molto abbia termine il calvario infernale.
La permanenza a Sighet si protrae per diverso tempo e quando ormai tutti sono rassegnati a trascorrervi un periodo di riposo tipo Odessa, un urlo annuncia che stiamo per ripartire verso la meta finale. La gioia è immensa, offuscata in parte da un fatto non inconsueto: si rivedono in giro, caso strano ma non troppo, quelle vecchie facce di terracotta dei fuoriusciti portate a spasso da quelle statue prese a prestito dall’isola di Pasqua. S’incontra anche il Robotti nazionale, senza la Montagnana, però.
I nostri colleghi rieducati si muovono indaffarati in qua e in là, parlottano fitto fitto fra di loro furtivi e isolati, sembrano anime in pena. Molti di noi, cioè i duri, o gli insofferenti, o i reazionari come ci chiamano, pur euforici e contenti oltre ogni dire, si toccano il cavallo dei pantaloni per fugare malocchio, iella e ammennicoli vari che certi menagrami sparano al loro passaggio o inevitabile incontro.
“Adunata, tutti in fila per la conta; davai, davai bistrà”, grugniscono i soldati di scorta.
“Fare in fretta, sbrigarsi”, vociano alcuni paesani assimilati, con a capo un sottoprodotto del migliore.
Mamma mia che miracolo!
“Affrettiamoci pure, gente, perché se perdiamo il treno siamo fregati”, mormorano in coro alcuni bersaglieri insofferenti.
“Fottuti, gente”, replica in sordina il celoviek alpino.
È certo che in quei luminosi e frementi momenti di attesa, in quei frenetici attimi di preparativi per riprendere la corsa verso l’ultima meta, un fugace pensiero di ringraziamento partì dal cuore di tutti i celoviek (meglio: quasi tutti) verso l’alto dei cieli dove abita il Signore buono. Di quel “quasi tutti” qualcuno pensa alla magnanimità del piccolo Padre, ma a Sighet è già meglio non gridarlo.
“Come mai ci sono tante guardie mongole e armate fino ai denti dintorno a noi?”, chiede il c.b. all’amico alpino e a qualche altro.
Un convertito, che ha udito la domanda mentre sta rientrando nel gruppone dopo una conventicola mal celata con altri ben noti personaggi, risponde con un sorriso da idiota:
“Per proteggerci, miscredenti; ora siamo in Ungheria, non in Russia!”.
Nello spiazzo adiacente il caseggiato tutti i celoviek sono riuniti festanti e felici a gruppetti, a frotte, a crocchi; ovunque un disordinato e confuso vociare che par d’essere al mercato o ad una fiera di paese.
“Silenzio, attenti, pronti per l’appello”, ordina il nacialnik russo con voce imperiosa, e per diverse volte.
“Silenzio e pronti per l’appello”, gli fa eco la solita faccia nostrana che par di terracotta.
Nel vasto cortile della riunione il c.b. è a fianco di un amico d’infanzia, Ruzzolini Andrea, un paesano emigrato da giovane in una grande metropoli del nord, Milano, e ai due più cari amici, insofferenti e duri dello stesso calibro: un ufficiale degli Alpini, Ebene73, e uno del Terzo, Pontieri.
I cognomi dei partenti vengono scanditi ad alta voce dal russo, in particolare dall’aiutante italiano, e si odono nitidi nel silenzio di tomba che si è fatto sul vasto piazzale. I chiamati lasciano in fretta il gruppo dei 540 superstiti, che si assottiglia, e si riuniscono poco distante nel gruppo dei partenti che via via cresce di numero.
“Che strano, però”, mormora il c.b. volgendo lo sguardo in giro; “siamo già alla lettera elle ed io con Ebene non siamo stati ancora chiamati. Probabilmente alcuni cognomi sono stati scritti in cirillico ma... speriamo in bene”, sussurra ai tre amici il c.b. poco convinto dell’ipotesi cirillica.
Qualcuno dalla faccia nota del gruppo-duri è stato però chiamato; anche un paio dei più famosi e sconosciuti congiurati è tra i partenti e questo è un bel segno. Poi si arriva alla lettera erre e il paesano Ruzzolini passa nell’altro gruppo che è ora molto numeroso, mentre quello in attesa è ridotto a un centinaio di persone. Parte Ruzzolini e Pontieri resta.
Nelle orecchie di molti ancora in attesa di essere chiamati giunge, come un eco lontano lontano, una voce udita e riudita per anni là nell’immensa steppa gelata: “Niet questo, niet quello, niet Italia”. Ma è solo l’eco; non è possibile altro!
Alla lettera esse il c.b. dà una rapida occhiata al gruppone dei partenti, un lungo sguardo al gruppetto ancora da chiamare e poi con un gesto di stizza e sputando per terra alla moda russa esclama:
“Gente, siamo fregati!”
L’alpino, Ebene, dello stesso parere, urla: “Siamo fottuti!”
Pontieri, un signore sempre composto e compassato, chiede con voce alta al russo e al mezzo russo: “Niet Italia, da? Niente scuola, niente Italia, da?”
Nessuna risposta e l’appello continua per i pochi rimasti. L’ultimo prigioniero col cognome che inizia con la lettera zeta, mi pare Zatterin, si avvia verso la folta schiera sempre più vociante dei partenti. I rimasti, una cinquantina; alcuni volti noti, altri notissimi, diversi anonimi.
Eccoli i trattenuti; annota Storia vera, ricorda Madre Patria: Clerici Ernesto, Baradel Giorgio, Guarnieri Pietro, Radaelli Mario, Camino Ugo, Chini Luigi, Mangone Orazio, Pontieri Salvatore, Bracci Felice, Verrastro Vito, Girometta Carlo, Moccellin Aldo, Fiaschi Sergio, Veliconia Sigfrido, D’auria Michele, Boero Mario, Mangini Giovanni, Marabotto Giuseppe, Camerino Alberto, Corcione Domenico, Toti Antonio, Sandali Rodolfo, Cecchini Bruno, Torriani Carlo, Bonadeo Agostino, Caneva Carlo, Giannone Mario, Naso Antonio, Barberio Romeo, Malgarini Disma, Bosello Mario, Capodaglio Vero, Caffi Francesco, Bertoldi Corrado, Petillo Salvatore, La Mattina Rosolino, Ebene Desiderio, Paolozzi Vittorio, Quarti Marino, Pignone Roberto, Ottavianelli Mario, Cupidi Walter, Fusco Massimo, Gherardini Gabriele, Lanza Dario, Malaguti Augusto, Fulgente Astro, Lionetti Carlo, Perra Aldo, De Felici Angelo.
Incredulità, gioia grande, forse anche un po’ di tristezza fra tutti, o quasi, i partenti; silenzio e occhiate dure di odio e di disprezzo nei puniti. Guardandosi in faccia, tuttavia, i molti e i pochi si capirono e tutti, nessuno escluso, compresero senza necessità di spiegazione il perché di quella ultima vigliaccata, degna soltanto della nomenklatura russa e dei cosiddetti fratelli comunisti dello zoccolo duro, o trinariciuti ch’è lo stesso. E il c.b. e gli altri 49 rimasti non videro dintorno scene di disperazione, tanto meno qualcuno fare testamento; non udirono elevarsi al cielo grida d’invocazione, di aiuto, né richieste di badanti agli uomini vicini; nessuno nel nome di Dio vide o udì questi atteggiamenti o invocazioni; tutti invece, anche i sordi e gli anellidi, i partenti e i rimasti, ascoltarono urla di maledizioni, di rabbia, di sdegno, di disgusto, di disprezzo verso i russi, i mezzi russi e gli assimilati, soprattutto.
Negli occhi dei partenti gioia immensa, felicità grande e un poco di tristezza per gli infelici compagni puniti rimasti; in quelli dei restanti impassibilità glaciale, durezza e fierezza insieme. Nient’altro in verità, per la verità, nel rispetto dei vivi e nel sacro ricordo dei morti, nel linguaggio dei santi e in quello dei peccatori.
Il c.b. scrisse su un bigliettino grande come un francobollo, col piccolo pezzetto di matita gelosamente custodito, un breve saluto per la famiglia lontana e abbracciando l’amico paesano partente glielo consegnò dicendogli:
“Andrea, nascondilo bene a scanso di guai e se giungerai in Italia consegnalo ai miei genitori che, spero, tu possa ritrovare in vita anche se sono ormai più di quattro anni che non so più niente di loro. Abbracciali per me, porta un bacio al mio fratellino e avverti mio padre che in un modo o nell’altro anch’io un giorno più o meno lontano tornerò da loro. Non aggiungere altro, non dire nulla di più, non farli soffrire, ti prego Andrea”.
L’ultimo prigioniero del gruppo dei partenti svanì nel nulla e anche le loro festanti voci si persero nel niente, così come sparirono col vento gli arrivederci, le parole di conforto e i fraterni messaggi di saluto. Un ufficiale del Terzo si riaffacciò all’angolo del cortile e anche a nome degli altri gridò:
“Arrivederci amici; se la fortuna ci consentirà di arrivare in Italia urleremo a tutti, grideremo ai quattro venti chi sono i rimasti, perché vi hanno trattenuti, chi è stato a farvi restare; ve lo giuro, a nome di tutti noi e sul mio onore, ricordatelo”.
E dopo un saluto militare sparì.
In questa impensabile, triste circostanza non si unì al gruppetto dei rimasti un messaggero di Dio, un altro santo come Don Enelio Franzoni, rimasto volontariamente a Suzdal’ coi primi trenta trattenuti. Si era affezionato ad un giovane ufficiale che stava morendo e che se ne sarebbe volato in cielo dopo circa tre mesi. E il buon Enelio rimase con lui. - Gesto umano e fraterno, da buon pastore, raro tra i celoviek e i cappellani stessi prigionieri - disse a se stesso il c.b. a quel ricordo e tra i tanti atti bestiali, orrendi che riaffiorarono nella sua mente confusa riapparvero anche altri non comuni e dimenticati gesti di bontà, di carità, d’amore verso il prossimo sbocciati durante il primo inverno di prigionia nell’infernale lager di Suzdal’, quando la fame, la sete, i soprusi di ogni sorta, le malattie e la terribile epidemia di tifo, che mietevano a migliaia le giovani vite dei poveri prigionieri, avevano trasformato quegli esseri umani in un branco di bestie randagie, dominate da sciacalli e da iene. E tra tanti comportamenti inumani, divenuti regola di vita in quella infernale bolgia dantesca, accadeva che ogni tanto una mano fraterna aiutasse una testa ad alzarsi per rivolgere gli occhi su in alto verso il cielo e il Signore; una brodaglia di ortiche condivisa con un morente rimasto privo per giorni di alimenti calmasse a quell’infelice almeno i morsi della fame; uno sdrucito cappotto diviso in due riparasse un corpo rimasto seminudo in quello stanzone ghiacciato che era il lazzaretto; una manciata di neve fatta scivolare a fatica in una gola riarsa dalla febbre offrisse un sollievo ad un infelice che rantolando stava esalando l’ultimo respiro; una frase, forse non udita, o un sorriso non veduto cercassero di ravvivare la forza della disperazione del morituro per resistere e sopravvivere. Atti e comportamenti rari a quel tempo, ma non inesistenti; fulgidi esempi di carità cristiana, di amore verso il prossimo, che ridavano dignità alla persona umana; dignità assopita, forse scacciata dai cuori resi aridi dalle invivibili e insopportabili avversità del quotidiano sopravvivere, ma non distrutta nell’anima di esseri creati da Dio e in Dio credenti. Quanti eroi senza medaglie scomparsi nell’oblio dei ricordi di quel tempo che fu.
No, no, coi cinquanta reazionari fascisti non rimasero santi o beati e tanto meno martiri; restarono invece, e per forza, cinque rappresentanti della cricca clerical-vaticana, cinque cappellani, cinque semplici pastori di Dio, forse non santi ma in gamba sì, eccome! Tra di essi Don Bonadeo, il caro cappellano del Terzo, e don D’Auria, chiamato padre Ganascia per la fame che lo divorava, ma un duro, fra i duri; due uomini veri, di esempio per gli altri, e in gamba; eccome se in gamba lo erano! E gli uomini e la Storia, i santi e i peccatori calarono con pietà, o con interesse, forse per paura, un velo sui fatti di Sighet, impensabili quindi impossibili a credersi. E dei rimasti, dei trattenuti, dei puniti di Sighet chi ne ha più parlato?
Intanto i celoviek rimasti non si davano pace e pensavano in ogni momento del giorno e della notte al modo o al mezzo per non tornare in oriente, ad est, in Russia. Che fare? Tutto, fuorché ripartire per i lager staliniani o forse, stavolta, per la gelida Siberia.
“Di tutto, qualsiasi cosa, ma mai più all’est”, giurarono a sé stessi il gruppetto dei duri insofferenti.
“Mai più in Russia o nei paesi comunisti”, giurarono in coro i rimasti.
Sciopero della fame? Un atto inconsulto? La fuga?
“Esamineremo a fondo la situazione, vedremo il da farsi, studieremo la soluzione meno rischiosa e più idonea ma non impossibile, soprattutto guarderemo in che direzione corre il treno quando ci faranno ripartire e poi decideremo la scelta”, convennero il c.b. e gli altri del gruppo (non tutti), e attesero. Intanto, per cominciare, sciopero della fame totale. Che pena, che strazio, che agonia rinunciare a mettere sotto i denti quel poco di brodaglia che passava il convento! Avanti, celoviek, dobbiamo resistere.
Il tempo intanto trascorreva ancor più veloce nel mondo seguendo le immutabili leggi dell’universo; lento da morire secondo i ritmi dell’ambiente in cui erano rimasti i cinquanta disgraziati trattenuti (chissà poi perché?, anche se in verità un dubbio perché proprio non è).
Comunque nessuno, né santo né peccatore, oltre ai rimasti, tenti mai di sognare, di descrivere cosa rappresentavano per quei prigionieri puniti, così vigliaccamente trattati, le ore, i giorni, le settimane e i mesi trascorsi dopo la partenza dei sopravvissuti per l’Italia. Sofferenze e continuità di una lunga agonia vissuta per anni; angoscia per l’incerto domani, convinzione insopportabile di ritornare a Suzdal’ o più in là; rabbia impotente di giorno e di notte a stento repressa; voglia violenta di farla comunque finita con tutto e con tutti; attesa, spasmodica attesa di ritornare a vivere da uomini liberi in un mondo umano, nella propria terra, con le famiglie lontane; tutto, tutti i nostri sogni e le nostre speranze distrutte in un attimo, nel corso di un assolato pomeriggio a Sighet, con un ingenuo appello, con una chiamata da farsa e già predisposta da umanoidi sciacalli, voluta non soltanto da quella stramaledetta polizia politica, l’Nkvd, ma anche da qualche cosiddetto fratello nostrano. Tali stati d’animo, tali sofferenze, i dolori e le angosce di quei giorni nessuno, oltre a quei cinquanta disgraziati, tenti di narrare o dica, affermi, scriva qualcosa di diverso se non spudoratamente, vilmente o per paura mentendo; nessuno e nel dovuto rispetto pei vivi, nel sacro ricordo dei morti.
Un certo giorno, di buon mattino, i russi guardiani convocarono i celoviek e gridando come di solito “davai bistrà, davai” ci comunicarono che stavamo per riprendere il viaggio.
“Per dove nacialnik, per quale meta, tovarisc?”
“Nis naio, nis naio; davai bistrà”.
“Ma dove andremo, dove ci condurranno?”, si chiesero e chiesero invano i cinquanta ufficiali trattenuti.
Il piacere e la gioia di riprendere il cammino erano soffocati dal terrore di ripartire verso est.
“Signore, facci vedere un solo raggio di sole”, esclamò in coro quel pugno di derelitti dopo alcuni giorni di pioggia e del solito tam-tam che rimbombava nei carri merci trainati dall’asmatica locomotiva che, ignara di tutto e di tutti, rotolava sulle rotaie verso l’ignoto. Il sole, soltanto il sole ci indicherà la direzione di marcia.
“Signore, o nostro Signore, facci vedere un solo raggio di sole!”
“Si corre verso occidente”, annunciò il sole un sereno mattino.
“Si va verso ovest”, ripeterono in coro i celoviek vedendo spuntare l’aurora ad oriente.
Il dubbio però era duro a morire.
“E se dall’Ungheria si passa in Cecoslovacchia per arrivare in Polonia e, magari dopo aver preso altri prigionieri trattenuti, torniamo in Russia?”, si chiesero confusi e smarriti gli insofferenti reazionari.
Beh! Finché il treno corre a occidente, tutto va bene; se prende verso nord c’è da preoccuparsi molto; se fila ad est metteremo in pratica la decisione prescelta; ma mai ci faremo riportare ad est, mai.
Il viaggio fu lungo, disagevole ed estenuante: ecco Satu Mare, poi Debretzen, infine Budapest e il Danubio, non proprio blu, anzi giallognolo, ma sempre bello. Breve sosta a Ghior, bellissima città magiara, poi via di nuovo verso il confine austriaco.
Infine, in un tardo pomeriggio di una solita uggiosa giornata, il treno si fermò in un luogo isolato, sconosciuto, ma dissimile da qualsiasi luogo visto negli ultimi quattro anni. Diversa l’aria, il paesaggio, le strade, le case lontane, il cielo, l’odore, tutto diverso; l’ambiente stranamente, piacevolmente diverso. In lontananza si scorgeva la periferia di una grande città, o almeno così ci pareva.
Dopo un breve cammino a piedi, i cinquanta ufficiali furono alloggiati in un edificio un tempo adibito a scuola, semidiroccato, ubicato in un sobborgo di una città che pareva non finire a vista d’occhio, vasta, buia però. Comunque si trattava di una grande città perché si stagliavano tra il grande agglomerato di case enormi palazzi, maestosi edifici, larghe strade e, purtroppo, qua e là i segni inconfondibili di ferite di guerra. Né Odessa, né Vladimir, né Stalino, né Sighet avevano qualcosa in comune con questa sconosciuta metropoli dove ci eravamo fermati. Impensabile, impossibile, miracolo! Eppure quella grande città che s’intravedeva era Vienna, la celebre Vienna, la Vienna vicina all’Italia e non Praga o Varsavia, tantomeno Mosca. Alleluia, osanna al Signore, alleluia, risorge la speranza nei cuori!
Lo spiazzo che circondava l’edificio nel quale eravamo stati alloggiati aveva come recinto un reticolato di filo spinato; le sentinelle russe, col mitra imbracciato, camminavano avanti e indietro lungo il perimetro della vasta area dintorno alla scuola; di fronte una vasta brughiera con qualche arbusto e rare piante; poco distante si scorgeva in fondo alla via il Comando delle guardie, indicato chiaramente da un lungo pennone sul quale sventolava la inconfondibile bandiera rossa, grande come un lenzuolo a due piazze, decorata dagli immancabili attrezzi del proletariato: la falce e il martello sormontati da uno stellone dorato. - Questa è la volta buona - pensò il c.b.; - Da Vienna indietro non si torna, costi quel che costi; se siamo in Austria, poco distanti ci sono le Alpi, poi l’Italia e la libertà e le nostre famiglie, tutto. Inoltre in questi luoghi la steppa non esiste; non soffia il gelido vento del nord, isbe non se ne vedono in giro e tra la gente non dovrebbe nascondersi l’Nkvd; insomma qua è tutto un altro mondo. Gente, ma che vogliamo di più?
Il celoviek alpino, che parlava bene il tedesco, e i soliti indomabili reazionari insofferenti, una decina, iniziarono lo studio del terreno che circondava la scuola e i dintorni; le abitudini, i cambi, i comportamenti delle sentinelle; l’andirivieni, raro, dei frettolosi passanti che non potevano fermarsi, né tantomeno dimostravano interesse alcuno a sbirciare oltre il reticolato; l’orientamento e i vari punti cardinali di riferimento; dove nascevano l’alba e il sole e il punto in cui il tramonto e l’imbrunire facevano strada alla notte; il Grande e il Piccolo Carro con al timone la immobile, fissa Stella Polare.
Alle lodi, alle preci e ai rosari elevati dai cappellani verso il Signore dei cieli, facevano eco le più numerose maledizioni lanciate dai peccatori verso i nostri carcerieri in terra; i lunghi silenzi, interessati però, dei duri incalliti segnavano il fluire di quelle interminabili giornate e delle corte nottate d’attesa. Questi molteplici atteggiamenti e comportamenti servivano egregiamente a nascondere gli oscuri pensieri di quel gruppetto, nel gruppo, or più che mai decisissimo a raggiungere il fine prescelto: la fuga.
Osservando attentamente le ammuffite cantine e gli scantinati del vasto edificio viene fatta una scoperta entusiasmante: un cunicolo, alto una sessantina di centimetri, attraversando il piano viario, sfocia in una grande fogna ed è collegato alla cunetta di scolo della strada da un tombino coperto da un chiusino in ferro con pozzetto sottostante. Alzando con un po’ di disagio il non leggero coperchio da un lato, anche di un paio di dita, si vedono intorno il grande spiazzo, il reticolato, le sentinelle, la scuola e i dintorni fino al termine della via. Cristo santo che osservatorio ideale! Altro che quello di Arcetri o di Palomar!
Una mattina, ad un paio di celoviek di turno all’osservatorio, intenti a scrutare ciò che accadeva d’interessante nelle vicinanze, apparve una leggiadra fanciulla che camminava, saltellando qua e là proprio come fanno le farfalle che svolazzano di fiore in fiore, sul lato sinistro della strada prospiciente la nostra dimora. Una cara, dolce fanciulla che poi tutti i celoviek chiameranno per sempre l’Angioletto del Signore, la Piccola Salvatrice viennese.
“Ma quella fanciulla non è russa, no, no; così disinvolta, vestita a quel modo, con quel faccino incorniciato dai riccioli biondi, non può essere russa”, esclamarono i due prigionieri di vedetta.
Le guardie l’hanno notata, ma una soltanto le ha puntato contro il fucile gridando il solito “davai bistrà”; le altre non si sono nemmeno accorte di lei e ciò significa che non desta curiosità o interesse. È soltanto una innocua fanciulla che cammina saltellando, e forse zigzagando in quel modo gioca e serena e spensierata canticchia anche, come del resto fanno tutti i bambini quando sono felici. Che strano, però!
“Gente, tentare non nuoce”, disse il celoviek alpino.
I dieci cospiratori decisero:
“Se ripasserà un’altra volta le diremo qualcosa, chiederemo chi è, dove abita; sì, val la pena di tentare perché russa quella non sembra affatto e poi, bambina com’è, anche se i russi la vedranno fermarsi non le faranno certo del male; tutt’al più le grideranno di andarsene ma non le spareranno addosso”.
La sera i celoviek parlottarono a lungo fra loro sul fatto accaduto; tante ipotesi, tante congetture, tanti propositi e... E poi l’alpino scrisse un bigliettino in tedesco, lo arrotolò per benino e tutti furono concordi di farlo avere alla fanciulla nel caso che fosse di nuovo ripassata sulla via nei pressi del chiusino di ferro, il nostro ben mimetizzato osservatorio:
Siamo 50 ufficiali italiani prigionieri di guerra e trattenuti a Vienna dai russi, nascosti nella ex scuola semidiroccata. Chiunque, non russo, riceva questo messaggio ci aiuti; avverta inglesi, francesi, americani di venirci a salvare. Aiutateci tutti, nel nome di Dio.
E l’attesa non fu vana. Dopo alcuni giorni, in un pomeriggio pieno di sole, il piccolo angioletto di Vienna riapparve in lontananza; udì le accorate parole uscire dal chiusino appena sollevato; non ebbe paura, anzi si avvicinò lentamente e quando fu a due passi dal tombino si fermò e, chinandosi con un solo ginocchio poggiato per terra, prese a legare insieme i lacci di una scarpa mai slacciatasi. Poi guardò di sottecchi verso il chiusino leggermente alzato da un lato; rispose qualcosa nella sua lingua al celoviek alpino che parlava tedesco; vide il rotolino di carta cadere vicino ai suoi piedi, lo raccolse con mano sicura, lentamente si rialzò e saltellando come sempre al bordo della via opposta al reticolato riprese il viandare accompagnata dalla solita allegra cantilena per poi scomparire alla vista in fondo alla via. Nell’incrociare, ad una quindicina di metri dalla sosta forzata per riallacciarsi la scarpa, un soldato di guardia che la sollecitava con uno sgarbato “davai bistrà” ad allontanarsi in fretta, rispose con un inchino da ballerina e un sorriso che avrebbe intenerito il cuore anche ad un cagnaccio arrabbiato e randagio.
Rientrando alla base l’alpino, con un balbettio che tradiva l’emozione e la soddisfazione provata per la buona riuscita del tentativo, disse a noi tutti:
“Mi pare di aver capito che la fanciulla è figlia o parente o conoscente di un addetto alla Croce Rossa Italiana a Vienna, o qualcosa di simile” 74.
“Speriamo proprio che consegni quel messaggio a suo padre o a qualcuno che non sia russo”, vociarono in coro i fautori della iniziativa folle, ma stupenda e soprattutto fortunata.
Facciamoci coraggio, gente; il messaggio è chiaro; la fortuna dopo anni ci aiuta, quindi è lecito sperare; su con la vita e Avanti Savoia!; oppure, come ci hanno detto di dire ora: viva la repubblica.
“E no”, disse poco convinto il gruppetto dei duri: “Noi aspetteremo qualche giorno ancora e poi via, verso il noto ignoto; altro che continuare a riempire le balle, che già straboccano, con la vana speranza. Chi vive sperando, muore disperato, ma noi non morremo così”.
Intanto il solito tempo inutile e vuoto trascorreva ancor più lento del solito; i secondi parevano ore; i minuti giorni, i giorni settimane e queste mesi. L’attesa si fa ogni giorno più insopportabile. Spadroneggia sul gruppo un tenente russo che abbiamo soprannominato familiarmente “il porco nero”, cortese come un ignorante, distinto come un barbone, buono come un cane rognoso. Si fa servire il pasto da una ragazza, molto bella, che giornalmente gli porta i viveri in un vaso da notte. Simile vassoio qualche volta ritorna alla mensa, o nei pressi, coi resti di qualcosa coperti da un foglio di giornale; è proprio un tipico attrezzo proletario e democratico che non si ribella a qualsiasi uso, obbedisce e patisce senza ribellarsi perché così è la norma e basta. Il nacialnik ha ordinato al gruppo degli italiani di pulire pavimenti e cessi non solo dei locali da noi usati, ma anche quelli utilizzati dalla variegata umanità che popola il grande caseggiato.
Tutto il gruppo dei rimasti decide di iniziare uno sciopero della fame totale. Mamma mia che supplizio rinunciare a quel po’ di cibo che ci passa il convento!
Il comandante russo, sdraiato all’ombra, ci guarda e sogghigna:
“Voi non mangiare e noi risparmiare”.
Intanto il capitano Gherardini viene sbattuto in prigione quale responsabile della infranta disciplina che non ammette scioperi di sorta.
La debolezza comincia a farsi sentire; alcuni amici, durante l’appello del mezzogiorno (tre al giorno le conte e gli appelli) manifestano segni di sfinimento. Altri colleghi si sentono male veramente: Don Bonadeo ha fatto una colica e dal dolore si lamenta e si contorce sul giaciglio come una biscia; Don Bertoldi75, forse il più grave, delira come se avesse la febbre a cinquanta e ogni tanto pronuncia parole sconnesse e senza senso come un vero pazzo; Don D’Auria quasi quasi non ci vede più e viene condotto fuori del Campo, forse ad una infermeria, perché la sua vista è in pericolo; due colleghi sono cascati a terra svenuti come se fossero stati colpiti da una sincope e riprendono conoscenza a poco a poco, per fortuna.
Dopo questi avvertimenti alcuni dei duri propongono di farla finita con una azione decisa: aggredire le sentinelle che ci stanno vicine, ammazzarle, prendere le armi, aprirsi la strada verso la zona sottoposta al controllo degli inglesi, la più vicina, sperando di non essere ammazzati prima di arrivarci. O la va o la spacca. Ma la maggioranza dei celoviek non è d’accordo; preferisce tentare di resistere ancora per qualche tempo e poi ribellarsi in un modo o nell’altro. Nessuno sorrida o tenti d’immaginare con la fantasia più fertile e l’immaginazione più grande il tormento e l’ansia che angustiava quei cinquanta prigionieri trattenuti, e in particolare quella decina di schedati insofferenti pronti da tempo a ben altre soluzioni. Molti ragazzini, incuriositi da quello sparuto gruppetto di celoviek che in continuazione girovagano lungo il recinto spinato, tentano di comunicare con noi ma la sentinelle russe li convincono con modi sbrigativi a non avvicinarsi troppo.