Una sera qualunque il c.b. sente dire da radio-gavetta clandestina che un fortunato gruppetto di compagni è andato a lavorare in un magazzino di un kolkos di Suzdal’ poco distante dal lager. Sembra, pare, comunque si sussurra che qualcuno dei celoviek lavoratori sia riuscito a riportare dentro alle mura del lager qualche ortaggio, carote in particolare e pomodori anche, purtroppo sottratti al popolo russo. Carote rosse come le mura e i torrioni, sussurra qualcuno; carote lunghe come le ciminiere, mormorano altri; che carote, gente!, sospirano tutti. E i pomodori? Grossi e rossi come certi testoni che si vedono in giro, afferma un ignoto; tondi e teneri come le tette della kolkosiana Katiuscia, giura un anonimo.
Ma come avranno fatto quei cristi a sfuggire alla regolare perquisizione del ritorno e a non farsi beccare? È un vero mistero, pensano in molti. La solita vocina che nasce dal nulla farfuglia che lo stratagemma escogitato dai celoviek, cinque o sei, bolognesi per lo più, con Grazia e Medini protagonisti, è stato di una semplicità impensabile ed ha reso bene. Aiutati che Iddio ti aiuta, uomo! Infatti il gruppetto dei prigionieri lavoratori contadini, al termine della giornata kolkosiana che consisteva in caricare e scaricare barilotti e ceste di ortaggi vari, crauti in quantità, freschi o in salamoia, e secondo la norma in vigore nei paesi socialisti, veniva perquisito regolarmente e scrupolosamente, prima del rientro al Campo, dal nacialnik magazziniere; uomo abbastanza grassoccio e un po’ in là con gli anni. Con le mani frugava nelle tasche delle giacche, in quelle dei pantaloni; poi, con le palme delle mani tastava il corpo dei celoviek per scoprire se sotto gli indumenti si celassero rigonfiamenti sospetti. Quando le palme frugavano i pantaloni, probabilmente per una discopatia congenita o per una artrosi lombare consolidata o di recente accentuatasi, non riusciva a piegare troppo il busto e pertanto la perquisizione scrupolosa tattilo-manuale terminava sempre all’altezza delle ginocchia, o quasi; non oltre. I celoviek, che avevano sì perso tutto ma non la vivacità intellettiva dell’arrangiamento e la creatività, caratteristiche queste dell’italiano medio, annotarono il tutto e lo tennero in debito conto. Nel frattempo qualcuno pensò: se le scarpe non si allacciano troppo strette, anzi niente, e se gli avanzi dei bucherellati calzini reggono, tra la pelle e la maglia, dal polpaccio spolpato e fino al malleolo qualcosa vi si potrebbe nascondere, no? Tutto sta nell’avere il coraggio di tentare, di verificare, magari la prima volta con una piccola carotina; poi, in seguito, se lo stratagemma riesce, il gioco è fatto. Un sicuro rifornimento vegetale, vitaminico, soprattutto cibario potrebbe essere assicurato sia agli onesti lavoratori sia a qualche amico più caro. E così fu. Infatti, dopo l’ansioso primo tentativo andato bene, la parte inferiore dei calzini contenitori, dal ginocchio al malleolo, si gonfiò sempre più e per un breve periodo ortaggi di vario genere, primizie impagabili per quei tempi di carestia, si trasferirono, volenti o nolenti, pedissequamente da un barilotto kolkosiano di proprietà del popolo socialista ad un sicuro rifugio di qualche fortunato prigioniero borghese e reazionario residente nel lager 160 di Suzdal’. Il resto non fa storia, anche se l’epilogo terminò su un tavolaccio, cioè in prigione.
La notizia della fatidica impresa riuscita destò ancor più la fantasia del gruppetto degli insofferenti ribelli che non speravano certamente di essere prescelti per uscire dal Campo a maneggiare ortaggi di sorta. Il c.b. durante la notte, che sembrava eterna, dedicava qualche ora di tempo a pensieri folli, sicuro com’era, che tanto nessuno avrebbe potuto vedere né la cupa espressione degli occhi durante il tentativo dell’osare, né la sfavillante gioia dipinta sul viso ad operazione compiuta e riuscita. Il buio della notte era impenetrabile; nessuno, anche l’amico sdraiato a fianco, poteva accorgersi di niente. Oltretutto poi il pensiero era libero, libero d’immaginare, di fare, di volare, di dire e non dire, insomma libero. Cose da paradiso in quell’inferno! Che bello però, per un po’! Ma che si poteva trovare nel lager per sgranocchiare qualcosa di più? Cosa strolgare58, evitando ovviamente almeno la Siberia, per procurar dispetto a coloro che volutamente, bestialmente, con fredda consapevolezza e determinazione avevano fatto di tutto, e a lungo, per far crepare di fame, di sete, di stenti, di tifo, di freddo e di angherie d’ogni sorta migliaia e migliaia di nostri fratelli? (Bollettino dell’Armata Rossa del gennaio 1943: “Catturati nell’ansa del Don oltre 115.000 prigionieri italiani appartenenti all’Armir”; circa 4.500 sopravvissuti nel 1944. Qualcuno non ci crede? Ebbene si confronti, faccia a faccia con qualche sopravvissuto, non però rieducato.) L’unica, recondita soddisfazione che restava ad un gruppetto di temerari incoscienti, si fa per dire, era quello di rispondere sempre e a tutto un bel “no”, niet tanto ai russi che ai mezzi russi e agli squaquaraquà nostrani. Ma se questo atteggiamento soddisfaceva lo spirito e aiutava a resistere, non riempiva però né lo stomaco, né gli altri organi deputati alla nutrizione, assimilazione, evacuazione compresa.
Un giorno il c.b. passeggia in cortile con l’amico più fidato, Pontieri. Cercando di evitare incontri interrelazionari culturali e proletari indesiderati, i due bersaglieri commentano certi fatti accaduti recentemente nel lager e tentano di trovare una spiegazione plausibile e logica, in base alle notizie raccolte in giro, sulle cause che hanno originato tali fatti e soprattutto su come i russi ne siano venuti a conoscenza senza che qualcuno, non di certo russo, li abbia informati. È incredibile! Oltre ai delatori conosciuti ce ne debbono essere altri, fra noi, che riescono a sfuggire anche all’osservatore più attento, a mimetizzarsi così bene da non essere scoperti. Che tristezza, però; che pena e che rabbia! I due celoviek sottovoce parlottano e camminano; camminano e svicolano. Ogni tanto occhiate furtive a destra e a manca, davanti e dietro, anche in alto. “Zitti, il nemico vi ascolta”, stava scritto su certi manifesti in Italia: qua si potrebbe correggere: “Zitti, il nemico vi ascolta, vi vede e vi sente”. Dintorno solo fantasmi; qualche scheletro rivestito di pelle grinzosa e incartapecorita si sgranchisce frettoloso le gambe; corvi e cornacchie sui torrioni, sulle mura, in cielo, sulla terra, dappertutto. In alto, oltre a quei tristi uccellacci, solo quel piccolo fazzoletto di cielo con le dense nubi che passano e vanno. “Un cielo di corvi su un mare di merda”, scrisse un grande letterato. Aveva ragione da vendere! Che strano, immenso paese è la Russia, amico mio. Ogni luogo le bestie che merita, e quante bestie, e diverse anche ma sempre bestie!
“Ti ricordi quando nelle trincee o nei bunker di Kalmikov aspettavamo i russi all’attacco, oppure quando nelle isbe di Sagrabelovka o di Kantamirovka, vicino al Don, ci riposavamo per poi tornare al fronte, da che bestie eravamo assillati? Dai topi, non ricordi?”
“È vero, i topolini della steppa, ora ricordo”.
“Topolini piccoli piccoli, carini anche; topolini campagnoli e senza eccessive pretese che si trovavano dappertutto, anche in tasca, al risveglio. Topolini che facevano tenerezza piuttosto che schifo, ma invadenti, seccanti, rompiscatole pure. Topi nello zaino, sotto la coperta, tra la pelliccia e la fodera del cappotto, anche nell’elmetto, tanto che prima di metterlo dovevamo sbatterlo due o tre volte su qualcosa di duro perché tra il cuoio e l’acciaio qualche topino si nascondeva sempre. Quante sigarette mi hanno rovinato quelle bestiole; e nemmeno per le fotografie avevano rispetto quei morti di fame! Quasi come noi, pressappoco. A pensarci bene però, qui nel lager di Suzdal’ nemmeno i topi ci vogliono vivere; non se ne sono mai visti in giro”.
“Per la verità, se ne avessimo incontrato qualcuno non avrebbe vissuto a lungo con la fame che circola in giro. T’immagini che mangiate di topi se qui ci fossero i topini di Sagrabelovka?”
“Sempre sfortunati noi; pazienza, facciamoci coraggio e avanti”, sospira l’amico.
“A proposito di topi il mio attendente, il caro Aleci che solo Iddio sa dove ora si trova, con altri bersaglieri aveva escogitato un metodo di cattura veramente originale, da brevetto. Una trappola semplice come la più semplice delle macchine, la leva, ma efficacissima. Che capacità inventiva, che fertile creatività quella degli italiani; altro che Popòv! In poche ore si riempiva un mezzo fusto da benzina di topolini affogati; qui si potrebbe dire pronti per l’uso. Ricordo che al mio paese vendevano le trappole per prendere i topi: quelle a scatola per soli ratti; quelle a ganasce per topi e uccellini; però più di uno alla volta non se ne poteva catturare. È pur vero che da noi i topi sono molto più grossi; che vivono nelle fogne e fanno schifo mentre questi tenerezza, ma pur sempre topi sono. Vuoi conoscere, amico, com’era congegnata la trappola? Ascoltami: consisteva in una tavoletta di legno larga una decina di centimetri, lunga 60-70, spessa un paio, sulla quale veniva aggiunto un piano di lamiera, della stessa larghezza e lungo una trentina di centimetri (la leva) con ai due lati, pressappoco sulla metà della lunghezza, a seconda del peso della latta, due lamelle larghe un paio di centimetri, lunghe tre, piegate ad angolo verso il basso (i fulcri). Le lamelle venivano fissate ai bordi della tavola con due chiodi non completamente ribattuti nel legno; chiodi che svolgevano la funzione di perni (o fulcri) sui quali oscillava il piano di latta, cioè il cosiddetto braccio di resistenza e quello di potenza. Importante, per la perfetta funzionalità della trappola geniale, era calibrare bene il peso del piano della lamiera sporgente in parte da quello di legno in modo che, una volta inchiodato al piano della tavoletta, durante il periodo di riposo, restasse un unico piano inclinato formato dalla tavoletta e dalla latta assieme. Nel periodo di funzionamento, invece, cioè quando un piccolo peso (topo) rompeva l’equilibrio statico, il piano di lamiera, facendo leva sui due perni, o chiodi, si ribaltava nel vuoto per poi tornare nella posizione primitiva formando un unico piano (tavola più latta), non appena si era scrollato di dosso l’insopportabile peso che immancabilmente finiva nel bel mezzo di un bidone pieno d’acqua a metà. Il peso che rompeva la primaria posizione di equilibrio era pari al peso di un topolino, ma non era raro, anzi quasi normale considerato il numero dei topi in circolazione, che una bestiolina già in posizione di caduta del cosiddetto pavimento, rimanesse sul piano perché un altro o due topini, che la seguivano lungo il piano inclinato all’inizio della lamiera (sul braccio di resistenza), controbilanciassero il peso di quella già in zona di caduta (sul braccio di potenza). Bastava un altro passo oltre la metà del piano di latta della seconda o della terza bestiola per romperne l’equilibrio e tutti e tre tonfassero nel pozzo della morte. Completavano il marchingegno, cioè la trappola, una lunga cordicella di un paio di metri con un capo attaccato a una trave del bunker, l’altro con un bel pezzo di formaggio annodato, penzolante nel vuoto, al centro del bidone, distante circa cinque centimetri dal termine del piano di lamiera in modo che i topolini si avvicinavano con voluttà al prelibato boccone ma non riuscivano ad afferrarlo perché scivolavano sempre nel vuoto. Da precisare che il piano di legno e latta, inclinato, veniva appoggiato da una parte a terra o sul pavimento; l’altra estremità, cioè fin dove iniziava il piano di lamiera, sul bordo del bidone; il resto sull’abisso. Buona parte, quindi, del piano di latta, esclusa quella che stava appoggiata sul piano della tavoletta, veniva a trovarsi sospesa sull’acqua ed assomigliava ad un bilanciere che si abbassava verticalmente sotto un peso, lo scaricava, per poi tornare nella posizione primitiva, e così all’infinito. Anche la tavoletta e la lamiera venivano strofinate più volte col formaggio creando in tal modo una pista odorosa di leccornie latticine che inducevano piacevolmente all’olocausto tutti coloro che incautamente transitavano su quel piano inclinato sovrastante il bidone. Inoltre quella pista topicida faceva brillare davanti agli occhi degli incoscienti ghiottoni l’esca formaggina inafferrabile, penzolante nel vuoto e riempiva anche abbondantemente le loro narici, nella marcia di avvicinamento al prelibato boccone, di un soave odore di cacio nostrano. I caduti nel pozzo (meglio: nell’acqua) per un poco nuotavano velocemente col corpo mezzo sommerso, le testoline all’insù per non bere troppo, le zampette anteriori che disperatamente cercavano un appiglio, senza riuscirvi, sulle lisce pareti del bidone; appiglio che gli avrebbe consentito di uscire da quel bagno imprevedibile e mortale. Dopo pochi minuti il nuoto scomposto diventava singulto, poi più niente; dintorno solo calma di morte. Anche l’acqua tornava placida e tranquilla, punteggiata di topi con la pancia per aria; tragico epilogo dell’ingordigia roditrice delle arvicole. La processione verso il pezzo di formaggio era simile a quella di certi peccatori condannati dal divino Poeta in un noto girone infernale, incessante. Su su e poi giù, e via di nuovo, all’infinito. Quando la superficie dell’acqua era colma di cadaveri, i nuovi caduti per un poco si aggrappavano ai compagni già defunti, ma nel momento in cui riuscivano ad arrampicarsi sui corpi galleggianti dei compagni affogati, entrambi si capovolgevano andando sott’acqua e finendo in tal modo, più dolce, l’esistenza terrena. Una notte ne riuscimmo a catturare 256 e come sempre, al mattino, i cadaveri vennero gettati in una fossa comune, senza cerimonie e funerali, anticipando, in questo modo e inconsciamente, una prassi che divenne abitudinaria con altri morti, in circostanze diverse ma sempre in Russia e per altri animali; non quadrupedi ma bipedi, non bestie ma cristiani, non a Sabrabelovka né a Kantamirovka, ma a Suzdal’, a Oranki, a Krinovaja, a Tambov e in altri luoghi similari dell’impero socialista. Ora quei mille e mille topolini, quando li sogno o allorché li ricordo, si trasformano come per incanto in tordi grassocci, in allodole prosperose e finiscono sempre infilzati in uno spiedo lungo, ma lungo come il giavellotto che a Pola o a Besozzo, durante le gare, lanciavo più distante di tutti i colleghi della Scuola Allievi Ufficiali o del XVIII Battaglione. Un tordo e un lardello, un crostino di pane e due foglie di salvia, un rametto di rosmarino e tanto olio sul tutto che girava nello spiedo, baciato con calore dalle braci ardenti. Proprio come a casa mia, per il 4 novembre, San Carlo, l’onomastico dello zio; tutti gli anni polenta e uccellini allo spiedo. Che belli, che buoni, che scorpacciate! È pur vero che a Suzdal’ non esistono possibilità di scelta, ma se ci fossero tutti quei topolini si potrebbe ugualmente fare un bell’arrosto: un topo, un crostino di pane nero, una foglia, anzi due, di ortica, un rametto di betulla, alcuni fili di gramigna e... e... No, no, niente da fare; non si potrebbe far niente perché mancano i topi, l’olio, le braci e il girarrosto. Peccato! E poi, mondo cane, anche i ratti sono patrimonio del popolo comunista e perciò il permesso di prenderli chi ce lo darebbe? Solo il popolo potrebbe concedercelo, ma in un paese grande come un continente e con la guerra intorno, come si risolve il problema del permesso? Come si fa ad andare in giro e chiedere a tutti gli abitanti dell’immenso paese socialista il benestare?
“Oh, dico, son troppi i russi, son molti perdiana!”
“Però, amico mio, se ci fossero i topolini sai che potremmo fare? Mangiarli vivi e in silenzio. Ci riempiremmo lo stomaco ugualmente e alla faccia delle tradizioni, dei permessi, dei gusti proletari o borghesi, cioè alla faccia di tutti e di tutto; non ti pare?”
“Certo che mi pare, però a Suzdal’ non ci sono topi e quindi il discorso finisce qui”, risponde l’amico.
Il c.b. è del parere di smetterla con questi discorsi mangerecci per non correre il rischio di affogare con le bocconate di saliva che suscitano e, ritornando al discorso iniziale, sussurra:
“Io ho la convinzione, la certezza oserei dire, anche se ancora non ho prove sicure, che tutto ciò che facciamo, quello che diciamo, venga riferito da qualche talpa agli educatori nostrani e al russo dalle mostrine azzurre. Sai che facciamo, amico? Visto che possiamo fidarci, e con assoluta sicurezza, di un discreto numero di fedeli compagni, e considerato inoltre che molti di noi hanno già fatto il callo agli interrogatori, o colloqui interrelazionari, per non parlare del duro tavolaccio, prepariamo per quei delatori una trappola; una trappola semplice come quella per i topi. Non ci vuol troppa fantasia per tesserla; basta solo rischiare un pochettino e affrontare con un po’ di coraggio le conseguenze oggi previste dalle norme in vigore nel lager, nient’altro. Anche al rischio oramai abbiamo fatto l’abitudine, no?”
“Sì, mi pare che valga la pena di tentare, ma come?”
Le sommesse, bisbigliate parole che i due celoviek si stanno scambiando durante il lento, solitario viandare s’interrompono improvvisamente e un rauco grido rompe il silenzio dintorno:
“Boia d’un Peppe boia!”, grida il c.b.
E quell’urlo, pronunciato a squarciagola, quasi con forza, sovrasta per un attimo gli uomini, le cose, tutto. L’amico guarda attonito il c.b. che, dopo l’esclamazione, fermatosi di colpo e con gli occhi sbarrati, lo sguardo allucinato e imbambolato fissa, immobile come la statua del Biancone59, i torrioni, le mura e continua a grugnire:
“Là, lassù, qui, qua e su, su... gr... gru... gr... no?”.
I frettolosi, rari passanti che gironzolano intorno si fermano per un attimo a contemplare quella statua di umanoide che balbetta suoni sconnessi, incomprensibili, e con pena, scuotendo la testa, riprendono a passeggiare sul vialetto dei passi perduti. Qualcuno di loro pensa certamente ad un attacco isterico; altri ad una crisi epilettica, altri ancora ad una esplodente manifestazione pazzoide che, improvvisamente, ha colpito lo sventurato celoviek. Fatti incresciosi, penosi ma non rari in quei tempi nel lager di Suzdal’. L’amico scuote violentemente il c.b. che, dopo l’urlo, è rimasto immobile, stecchito, teso e, dopo aver gorgogliato i vari gr... gr... gr... non sbiascica più niente. Guarda soltanto in alto, lassù, e ora, compiaciuto e beato, pare sorridere al vento.
“Ma cosa ti è successo? Che hai fatto? Ti senti male? Oh! Dico a te, capisci? Rispondi almeno qualcosa o vuoi finir dentro prima della ventilata trappola?”
Quell’urlo, quella imprecazione nota a tutti fanno già parte di quell’attrezzo per scoprire il delatore anonimo, o è soltanto una prova?
“Allora? Rispondi, almeno, testone oppure ti si son rotte le corde vocali con quella emissione di aria violenta?”
Coi muscoli facciali bloccati, lo sguardo vitreo e fisso, il c.b. emette un flebile lamento e con un gorgoglio sardonico farfuglia:
“I corvi, le cornacchie, i volatili, gli uccelli; mille corvi, diecimila cornacchie, solo corvi e cornacchie ci sono lassù, e son tanti, come i topolini di Sagrabelovka, e son fatti di carne e si mangiano anche; eccome si mangiano! Forse hanno la carne dura e coriacea, ma meglio così, dura di più, ci vogliono più ore per digerirla; gente, ma che vogliamo di più?”
“Tu sei matto”, risponde sconsolato l’amico; “per dire la verità un po’ matto e molto incosciente lo eri anche in guerra, ma ora oltrepassi una ragionevole misura; forse sei impazzito del tutto. O bersagliere, i corvi e le cornacchie volano e noi che non siam capaci di salire gli scalini delle scale a due a due, come li prendiamo gli uccelli? Con gli accidenti secchi o con le bestemmie proletarie? Con la fantasia o ci facciamo imprestare le ali da Icaro? Va là, rientriamo ch’è tardi, e fa freddo; lasciam perdere i desideri impossibili e stiamo con le gambe poggiate per terra”.
Il c.b. segue silenzioso il collega; cammina e guarda in alto; pensa e cammina, cammina in avanti con la testa rivolta all’indietro; poi, come risvegliandosi da un freddo torpore, sussurra:
“Ascoltami bene, bersagliere, non parlare con nessuno, dico nessuno, di ciò che è successo poco fa; da questo istante dimentica i corvi e le cornacchie; questi animali non esistono più, dimenticali. Prometti?”
“Prometto; parola, se ciò ti può far piacere, parola mia”.
“Tutte le notti penserò io ai corvi, alle cornacchie, e studierò anche una trappola, inventerò qualcosa per assaporare il gusto di quei volatili del malaugurio, alimento proteico che oltre a saziare un poco lo stomaco, soddisferà in modo egregio anche il nostro spirito”.
Per diverse settimane il c.b. cessò gli incontri con gli amici più cari e con quelli meno cari, con tutti. Nelle giornate in cui il tempo lo permetteva, seduto per terra in diverse posizioni strategiche del Campo, il novello Toro Seduto guardava in alto, a destra e a sinistra, dintorno, al niente e al tutto. Ogni tanto cambiava posizione e riprendeva a guardare, a guardare quaggiù, lassù in ogni angolo di quel francobollo di cielo che faceva da tetto al lager di Suzdal’. Eventuali, sporadici tentativi di colloqui da parte di amici o solo colleghi di sventura venivano interrotti con duro cipiglio e senza possibilità di riprova. Anche la domanda del caro cappellano avvicinatosi:
“Ti senti male, fratello? Hai qualche problema che ti assilla?”, cadde nel vuoto ed ebbe come risposta sgarbata:
“Nessun problema, padre fratello; ho solo bisogno di parlare a me stesso, capito?”
A guardarlo, il c.b. eremita assomigliava stranamente a un santone indiano in contemplazione della dea Kalì oppure a un mussulmano di razza che all’ora del tramonto era tutto proteso, anima e corpo, verso la Mecca che a Suzdal’ era localizzata verso i torrioni e le mura del Campo. Per molte ore della notte la sua mente era occupata, indaffarata ad esaminare i molteplici aspetti della temeraria impresa già denominata Operazione Corvacchie. Bisognava anche erudirsi sugli usi, i costumi, le abitudini di quei maledetti prelibati uccelli iettatori, ma come fare? Mica poteva il poverello andare in giro a chiedere notizie in merito; avrebbe potuto destare sospetti pericolosi e nel lager, da tempo, il sospetto aveva preso fissa dimora e gli abitanti eran diventati sospettosi di tutti e di tutto. Né era il caso di andare al palazzotto della cultura dove si potevano trovare libri del filone marxista-leninista e social-proletario, ma dove era pressoché impossibile reperire anche un modesto libercolo, magari per classi elementari, di scienze naturali che illustrasse gli uccelli indipendenti. Allora che fare per erudirsi? La memoria, ecco; affidarsi alla sola memoria perché sulla piazza non si poteva trovare prodotto migliore. La professoressa di scienze, in quarta classe, all’Istituto Atto Vannucci di Pistoia (signorina secca come un chiodo e piallata come una tavola in ogni parte del corpo, ma vera, ottima insegnante, simpatica anche, amata da tutti gli studenti tanto che la foto ricordo della classe, fatta poco prima del termine dell’anno scolastico, immortala e tramanda ai posteri i visi degli allievi diplomandi e quello della gentile e cara signorina di scienze), ci aveva insegnato moltissime nozioni su tutto il mondo vegetale, animale e minerale.
Corvi, ordine dei Passeracei, famiglia dei Corvidi; grosso becco lungo e robusto, ali, coda, piumaggio del corpo, insomma l’intera bestia, nera come la pece, con riflessi violacei. Vivono in coppie; le coppie sono riunite in famiglie; una sola moglie, quella di nido.
Che bravi, che morali pur essendo uccelli, però! Meglio di tanti uomini, no? Si dice in giro che siano uccelli del malaugurio, iettatori anche, ma che importa? Mano in tasca e dita a forcella, e via! Sono mangerecci, anche se coriacei e fuori menù in Italia. Vivono in gruppi numerosi e gracchiano, gracchiano sempre e fino alla noia. Ci sono corvi comuni e corvi imperiali; questi di Suzdal’, dopo la rivoluzione bolscevica, sono rimasti solo comuni, e di grazia. Le cornacchie, stessa razza e famiglia dei corvi, soltanto un po’ più piccole,… quindi meglio i corvi perché più grossi; ma l’uno o l’altra fa lo stesso. L’essenziale è vedere un volatile da vicino, toccarlo, accarezzarlo, spennarlo e... e... e basta! Gracchiano, e sempre, quelle malfamate, amate bestiacce e alla stessa maniera, senza varietà di tonalità. Di giorno quel gracchiare è così sgradevole che ti infastidisce e ti urta; di notte ti dà i brividi e ti fa accapponare la pelle. Spennati però dovrebbero assomigliare se non proprio ai colombi, ai colombacci almeno.
In alto, sul torrione sinistro, che visione, gente! Su quello centrale, dove sotto è ubicata la Kommandantura e il portone di accesso al lager, ce ne sono a centinaia. Si posano sui tetti e gracchiano; fanno brevi svolazzi dintorno e gracchiano; si riposano un minuto e poi riprendono a gracchiare. Ad ogni corvo che arriva, disturbando gli altri, un gruppetto si eleva in volo per poi, con uno sguaiato sbattere di ali, riposarsi di nuovo sul torrione o sulle mura. Un discreto stormo, in picchiata come gli Stukas, è atterrato (così sembra) dall’osservatorio sullo spiazzo antistante il posto di guardia e la prigione, ma terreno minato e suicida è quello; meglio lasciar perdere. Un altro branchetto è calato dietro il lungo e stretto caseggiato che ospita i celoviek e si è posato sul terreno recintato che va dall’alto muraglione al vialetto dei passi perduti. L’alta rete metallica (circa un metro e settanta) che delimita quel tratto di terra non protegge niente; impedisce soltanto ai prigionieri di andare a razzolare in quel letamaio dove vengono ammassati gli avanzi di cibo che la cucina non sa come smaltire, né come distruggere. Putridume potrebbe definirsi quella massa fetida protetta dalla rete e composta da liquami vari, salamoia in quantità, terriccio, qualche torsolo di cavolo marcio e avanzi legnosi di ortiche. Un puzzo nauseabondo, che appesta l’aria per un bel tratto dintorno, si eleva perennemente da quel sudicio porcaio. Cosa cercheranno poi quelle bestiacce in quel sito, Dio solo lo sa. Rifiuti di cibo in giro non ce ne sono di certo perché i celoviek non rifiutano niente; inoltre se rifiuti ci fossero, lasciati per caso da persone non prigioniere, li mangerebbero subito i celoviek morti di fame. Tuttavia un fatto è certo: se quegli uccelli si posano per terra non sono certo spinti da un desiderio di svago, ma per razzolare qualche cosa, e quindi la scelta è di tipo utilitaristico e non per puro caso; altrimenti se ne andrebbero altrove giacché loro sono liberi e poi non sono soliti fare niente per niente. L’ora in cui se ne vedono in maggior numero, in volo o posati, è quell’ora durante la quale il giorno sta per lasciare il posto alla notte, cioè verso l’imbrunire quando la luce svanisce e s’accende timoroso il buio. Quell’ora non è fissa, immutabile ma, come nel resto del mondo, varia col mutare delle stagioni che in Russia sono generalmente due: nove mesi d’inverno e tre di estate.
Oltre a rinverdire le conoscenze ornitologiche, sarà bene prendere in considerazione anche l’aspetto giuridico dell’Operazione Cornacchie, poiché non è il caso di cacciarsi in una rischiosa impresa senza prevederne le possibili, immancabili conseguenze in caso di fallimento, e conseguenze non certo leggere in questo strano paese dell’Est. Il fatto spiacevole è che da queste parti è inutile fare disquisizioni intorno al diritto pubblico oppur privato (canonico escluso per norma); sulle aggravanti o attenuanti generiche di un reato, amnistie e condoni inesistenti per legge. In Russia esiste un solo diritto che non si sa bene se chiamarlo sociale, socievole, asociale o socialista; comunque una cosa è certa: si tratta di un dritto diritto del popolo, del popolo lavoratore e progressista, di nessun altro singolo o privato. Così pure è tempo perso studiare il tipo di mancanza che si può commettere, perché nella patria del leninismo e dello stalinismo esiste un solo tipo di reato: il reato di sabotaggio nel quale confluiscono tutti gli altri reati che un suddito può commettere, volente o nolente. Ed è quasi giusto che sia così perché ogni cosa che esiste, che vedi o che senti, che incontri per strada è esclusivo patrimonio del popolo; patrimonio inalienabile e intoccabile dai singoli che costituiscono il tutto, e pertanto, come accade anche in altri paesi, quando il patrimonio è di tutti significa che non è di nessuno, cioè della patria socialista che anch’essa è un tutto costituito dalla nomenklatura e dall’Nkvd che sono un tutto più tutto che meno del tutto popolo costituito dagli altri singoli. Il concetto delle parti e del tutto, o il tutto dei tutti di nessuno, è un po’ difficile da spiegare e ancor più complicato da capire, specialmente da chi non è abituato alle leggi del sociale socialista, ma poi non è un problema di primaria importanza e pertanto non val la pena di approfondirlo. Così pure è tempo perso sottilizzare sul tipo di reato che può scaturire dalla inosabile Operazione Cornacchie; cioè se si tratta di furto semplice con scasso, effrazione compresa; oppure di appropriazione indebita o circonvenzione d’incapace; concussione o rapina a mano armata ecc. In caso di fallimento dell’operazione il maldestro bracconiere diverrebbe solo e de facto sabotatore dell’Unione Sovietica e basta. Un aspetto positivo esiste, in questo codice sociale e proletario, ed è questo: esistendo un solo reato, il sabotaggio, la giustizia è rapida come la folgore nel comminare le pene, e non come quella dei paesi borghesi che è lunga come una vita. La pena per questo tipo di unico delitto-reato contemplato, peraltro molto ricorrente? Niente carcere, niente casa di pena né manicomio, nemmeno campo di rieducazione. Un po’ di gulag o di Siberia, di lavori forzati e niente altro. Per quanto tempo? Non è ben chiaro il periodo di villeggiatura stabilito dalla legge; il codice penale si palesa elastico e inoltre nei lager siberiani, tutti ubicati in paralleli molto alti, il tempo è un non tempo e quindi non esiste il tempo. La durata della espiazione dipende soltanto dal fisico che uno possiede e dalla conseguente resistenza che ha. Afferrare, quindi, o prendere a prestito, o anche rubare, forse meglio, un corvo o una cornacchia, uova comprese, non significa sgraffignare la proprietà al popolo tutto (che, come ho detto, è costituito come tutti i tutti da singole parti, cioè da individui, che, come parti non contano niente perché chi conta è solo un altro tutto peraltro indivisibile), ma sabotare la proprietà socialista che comprende il tutto e i tutti, nomenklatura ed Nkvd esclusi perché tutto del tutto. Spiegazioni a parte, è bene pensarci due volte, ma tre son troppe; o sì o no, una via di mezzo al socialismo e alla Operazione Cornacchie non esiste.
Un altro aspetto tecnico importante per la buona riuscita del colpo è la preparazione di un piano che sia il più aderente possibile alle reali capacità e possibilità di chi lo realizza e che non abbia di piano la sola superficie pianeggiante del foglio, ma qualcosa di più. In linea di massima il piano elaborato potrebbe articolarsi in questo modo: 1°) Farsi dare in prestito, dopo aver interpellato tutto, o quasi, il popolo russo che è il legittimo proprietario, un paio di corvi o tre cornacchie, magari a buon rendere e con adeguati interessi (ipotesi fantastica e quindi da scartare); 2°) Acchiappare, o rubare (tanto è la stessa cosa), un qualche volatile alla patria socialista che, in quanto tale, non dovrebbe essere individualista, ma altruista come in realtà non è (ipotesi realistica); 3°) Possibilità di riuscita dell’operazione furtiva: 30, forse il 40%; 4°) Reato: furto di patrimonio del popolo lavoratore classificato con termine di competenza giurisdizionale come sabotaggio dell’Urss; 5°) Pena prevista: gulag siberiano, convertibile per i più duri celoviek del lager, molto ricercati dalla nomenklatura nostrana in via di formazione, in un periodo educativo presso la Scuola 27 di Mosca, al termine del quale esame finale e giuramento di fedeltà incondizionata e perenne al partito (soprattutto all’Nkvd) con abbandono totale dal cuore e dalla mente di ogni sentimento umano, tranne quello belluino dell’homo primitivus, doti che non possono mancare in un buon comunista dello zoccolo duro, tipo migliore; 6°) Pericoli connessi all’operazione: essere scoperti dalle sentinelle russe: 30%; venire denunciati dai soliti noti ed ignoti difensori della patria comunista e leninista internazionale al nacialnik dalle mostrine azzurre, il capo della polizia politica: 20%; reazione sgarbata e violenta dei volatili disturbati nel sonno con conseguente allarme tipo oche del Campidoglio: 10%; 7°) Data presunta del colpo: il primo martedì dopo l’ultimo quarto di luna calante, con gobba a levante, se sereno; di domenica con tempo piovigginoso e nebbia, meglio ancora se nevica e il freddo gela il mercurio; di sabato se tira il marosc, il gelido vento del nord che solleva nevischio e polvere limitando la vista a soli pochi metri di distanza anche ai soldati che in genere lasciano il Campo e vanno in paese a sbronzarsi ben bene (di sabato o domenica fa lo stesso, ma sempre però durante la fase della luna calante); 8°) Partecipanti: quattro nella prima fase della marcia di avvicinamento al luogo del massacro; poi due di sentinella, di cui uno al portone d’ingresso del caseggiato-dormitorio e l’altro sul vialetto antistante al muro da scalare che, com’è stato accertato, ha una larga, vetusta crepa la quale offre appigli sicuri al bracconiere scalatore; il terzo di rincalzo o di aiuto al quarto, lo scalatore, durante la salita e il recupero della refurtiva svolazzante; 9°) Riserva: se il colpo notturno dovesse fallire, ripiegare su quello diurno coi mezzi di cattura ideati e in parte già costruiti (ami vari, trappola tipo età della pietra, lacci, ecc.).
Più di due mesi sono trascorsi dal giorno in cui l’attenzione del c.b. si posò sui corvi e sulle cornacchie del lager 160 di Suzdal’. Ogni notizia relativa ai segreti ornitologici dei volatili è oramai nota allo stratega: usi e costumi, luoghi di ristorazione preferiti, accampamenti notturni e diurni, spazi più o meno pericolosi per riunioni familiari e collettive, ore propizie per eventuali colpi di mano, bivacchi di fortuna, aree privilegiate per razzolamenti mangerecci, danze nuziali e nidi, tutto. Anche i mezzi e gli attrezzi per portare a termine in modo proficuo l’impresa sono stati dettagliatamente ricercati, in parte costruiti e collaudati secondo le varie tecniche ipotizzate:
1°) Scalata del muro nei pressi del torrione sinistro dove la larga crepa verticale, notata nel vecchio manufatto di calce e mattoni che cinge il lager, favorisce egregiamente la salita fino agli spalti sui quali, ogni notte, uno stormo numeroso di uccelli riposa beato. Anche la discesa, al termine del colpo di mano, non rappresenta rischi eccessivi. Attrezzi necessari: una corda, meglio un variegato canapo fatto di pezzi di filo di ferro arrugginiti annodati con fettucce di stracci debitamente attorcigliati più un cavetto d’acciaio ricavato da un paio di vecchi copertoni lisci come una lastra da pavimenti, il tutto lungo circa cinque metri; due vecchie maniche di una giacca quasi marcia, legate ad una estremità da utilizzarsi come carniere per le eventuali vittime; un pezzetto di tondino di ferro appuntito, limato sul sasso per almeno un mesetto, che sostituirà la piccozza mancante ma necessaria. Le conseguenze prevedibili con questo mezzo di cattura non sono eccessive; poche per la verità, ma molto serie per la salute e l’incolumità dei bracconieri in erba: rottura di qualche osso se andrà male; del collo o della spina dorsale nel caso peggiore.
2°) Ricorso agli ami di ferro costruiti a mano, forgiati e battuti a dovere e senza preoccupazioni di tempo; forniti addirittura di uncino antidistaccamento dall’ugola o dal gargarozzo; ami da legare al lungo canapo già approntato e mimetizzati da qualche pezzetto (che caro!) di pane secco, esca certamente gradita ed apprezzata dalle corvidi comuni e non reali. Unico, pericoloso inconveniente di questa tecnica di sterminio è lo starnazzare del volatile dopo l’abboccata all’amo; frastuono da soffocare nel più breve tempo possibile per evitare che occhi ed orecchi indiscreti, ma sempre all’erta, notino l’anomalo comportamento degli uccelli catturati giudicandolo subito come socio-politico (non fisico-psichico dei volatili), quindi da indagare perché, a priori, imputabile a un complotto bukariniano dei soliti sabotatori dell’Unione sovietica, già noti e schedati.
3°) Uso dei lacci a nodo scorsoio, tipo patibolo, e non a caduta ma a strappo, posti in luoghi appartati, vigilati però costantemente dai sabotatori per smorzare all’istante lo starnazzare delle vittime e compiere un delitto perfetto, altrimenti il reato diventa pubblico e le conseguenze immancabili. Mezzo di cattura incruento, ma di efficacia dubbia per il fatto che occorre una certa dose di fortuna per individuare il luogo adatto e anche appartato, e la fortuna nel Campo non ha da tempo più dimora.
4°) Uso della trappola silenziosa, tipo età della pietra, che causa l’immediato schiacciamento, a sogliola o a baccalà, di un volatile (e, perché no?, anche di due o tre contemporaneamente) afflitto da curiosità eccessiva. Trappola sicura, che non presenta rischi di sorta, primordiale, ma che necessita di una grossa pietra non ancora reperita con certezza, del solito canapo tutto fare, di un pezzetto di legno a forcella già pronto; nient’altro. Rischi quasi nulli; risultato assicurato. La pietra, appunto, pare che si possa reperire nel recinto del cosiddetto letamaio ma, coperta com’è da quella nauseabonda melma putrida, ancora non siamo riusciti ad appurare se quel pezzo di lastra scoperto, troppo piccolo, è un coperchio di un tombino o una parte di esso. Bisogna accertarlo in ogni modo, ma non è impresa facile. Come aveva ragione quel tizio che affermava: “Un cielo di corvi sopra un mare di mer... no... no, di letame”.
Scavalcare la rete di cinta è pressoché impossibile per due seri motivi: saremmo subito notati perché qualcuno che passeggia sul vialetto c’è quasi sempre; la rete, inoltre, nel salirvi sopra si agghiaccerebbe in maniera irreversibile, mostrando ai curiosi di vario stampo ed origine l’entrata di qualche straniero nel letamaio, e non per scopi turistici. L’interesse e la curiosità che un simile stato anomalo della rete metallica desterebbe in giro, potrebbe avere conseguenze nefaste e darebbe inizio ad inchieste poco simpatiche. Il modo più semplice e sicuro per entrare nell’oasi puzzolente sarebbe quello di fare un’apertura mobile nella rete, raso terra, facilmente occultabile, che lasciasse passare, a carponi o strisciando sul terreno, uno dei bracconieri per poi richiudersi ad operazione compiuta. Il mezzo per fare tale apertura mimetizzabile è semplice e con pochissimi rischi. Basterebbe tagliare sei o sette losanghe della rete, cioè trenta o trentacinque centimetri in altezza, sia a destra che a sinistra della metà del pertugio prefissato (una quarantina di centimetri), sulla parte che sfiora il terreno, e il gioco è fatto. A tempo opportuno, poi, alzare la ricavata serranda per entrare, riabbassandola subito una volta terminata l’operazione di verifica, è questione di attimi; inoltre, per maggiore sicurezza, fissare con due uncini di legno la parte inferiore della rete tagliata dove l’erba è alta e quindi eccellente per occultare la manomissione, è operazione che sfugge anche alle videocamere visive dell’Nkvd nascoste in ogni dove del lager. I due tagli necessari si potrebbero eseguire un po’ per giorno durante il riposo pomeridiano, seduti per terra e con le spalle quasi addossate alla rete, col pezzetto di seghetto di acciaio sottratto al kolkos durante i lavori di alta tecnologia meccanica eseguiti tempo fa, finiti in malo modo, per riparare i guasti trattori che arrugginivano nel cortile; tecnologia dubbia e dimostratasi tale durante l’adeguamento delle bronzine alle bielle che procurò agli improvvisati meccanici non premi, ma il non ambito titolo di sabotatori della patria socialista.
Sì, prima di decidere con quale strategia portare a termine l’Operazione Cornacchie bisogna appurare se nel recinto del letamaio esiste realmente quel lastrone che in parte si lascia scorgere ma che, se intero, risolverebbe egregiamente, per peso e dimensioni, quei problemi connessi alla messa in opera della trappola silenziosa e sicura; quel marchingegno che consente di raggiungere il fine desiderato e, nel contempo, di eliminare altri aggeggi più impegnativi e pericolosi per l’integrità fisica dei bracconieri (la scalata), i pericoli di vario genere conseguenti all’uso di mezzi alternativi (lacci, ami, ecc), in particolare le conseguenze da starnazzamenti e svolazzamenti scomposti.
Il c.b. intanto, ormai certo e sicuro che i piani elaborati possano conseguire con discreta sicurezza i risultati sperati, fa sapere, attraverso radio-gavetta, mezzo sicuro che evita orecchie indiscrete ed anche esplosioni scomposte di sorpresa o di meraviglia, a tre carissimi e fidati amiconi che ha necessità di parlar loro in ambiente asettico e sterile, cioè all’aperto, di una questione di vita e di morte. Appuntamento all’imbrunire vicino al letamaio, zona meno frequentata per il puzzo che rivolta lo stomaco, ma che non produce però conati di vomito perché nello stomaco non c’è niente da rimettere. Uno dei tre avvisati, dirà poi, ha pensato ad una fuga dal Campo; un altro ad una nuova rivoluzione d’ottobre, il terzo addirittura alla guerra di liberazione o a un suicidio collettivo.
Arrivati alla spicciolata al luogo noto dell’incontro, gli amiconi capiscono all’istante che stanno per apprendere qualcosa di eccezionale. L’illustrazione dell’Operazione Cornacchie li rende imbambolati, sbigottiti, increduli. L’amico alpino è certo che il c.b. sia già diventato matto; quello della Vicenza che l’impresa è troppo rischiosa e non ha le benché minime probabilità di successo; il bersagliere invece è certo che valga la pena di tentare e, se il colpo andrà bene, oltre a riempire un poco lo stomaco, offrirà loro anche un’impagabile soddisfazione per aver fregato i russi, i mezzi russi e il popolo socialista, il quale, anche se socialista, è soprattutto popolo e basta.
Rientrando nel caseggiato e dopo lo shock subito, i tre neobracconieri scuotono la testa e pensano: - Osare è bello, ma a tutto c’è un limite e noi questa volta si va oltre; ma ormai che siamo in ballo, balliamo e speriamo in bene.
Per diversi giorni, e a intervalli discontinui, fissati soltanto dal bello o dal cattivo tempo, quattro candidi prigionieri giocano a carte, pur col freddo che fa, seduti vicino alla rete metallica. Le carte che usano non sono quelle costruite con la bianca carta dei testi sacri leninisti, ma quelle economiche, miserine fatte dal c.b. con sottilissime tavolette di betulla, forse ingombranti, poco pratiche, ma sempre care.
Gioia e dolore quelle carte artigianali! Infatti sono le prime che hanno per qualche ora assopito la tristezza e la noia degli scampati all’epidemia tifoidea nel periodo cosiddetto rinascimentale, cioè di ripresa; saranno le ultime che rinnoveranno un grande dolore quando al c.b., rientrando in Patria alla fine del 1946, toccò il mesto compito di comunicare al signor Presidente del Tribunale di Pistoia la morte del figlio avvenuta nel gennaio-febbraio del 1943. Il c.b. raccolse l’ultimo respiro del collega bersagliere morente durante l’epidemia e gli promise di portare il suo abbraccio al padre se un giorno fosse rientrato in Italia. E così avvenne; ma che dolore, che tristezza vedere piangere un anziano padre che da oltre quattro anni più niente sapeva del figlio; quel figlio che fino all’ultimo aveva invocato la sua cara famiglia e i genitori. E all’affranto padre il c.b. donò, come ricordo di quel mondo infernale e del suo caro figliolo, le carte di betulla che era riuscito a riportare in Patria.
A turno, i quattro giocatori si danno il cambio come si conviene in una regolare, piacevole partita a ramino; in realtà non è questo il motivo dell’alternanza dei posti al tavolo da gioco, cioè per terra con le spalle appoggiate alla rete, ma per rispetto alla stanchezza degli arti superiori dei contendenti, non indaffarati a sostenere le dieci carte ma intenti ad altro estenuante lavoro manuale, cioè segare. In realtà nessuno di noi guarda le carte, ma gli occhi, di sbieco, sono rivolti all’intorno per scoprire in tempo qualche curioso pellegrino girovago. Se qualcuno si ferma a sbirciare il gioco, è invitato bruscamente a circolare perché i duellanti si irritano terribilmente a sentirsi posare gli occhi addosso o, ancor peggio, ad udire commenti sulla validità o meno delle mosse. I malcapitati vengono interrotti sgarbatamente prima di poter dire qualcosa; tale atteggiamento non è dettato da cattiva educazione ma semplicemente dalla necessità di evitare l’instaurarsi di un dialogo pericoloso e non offrire la possibilità di replica alcuna.
Uno dei quattro tiene con la mano sinistra le carte; con la destra, dietro la schiena, tira a sé la rete; il vicino, pure mancino, tiene con la sinistra le carte e nella mano destra, dietro la schiena, impugna il seghetto e sega, come meglio può, la prima losanga. Siffatto lavoro necessita di cambi ricorrenti per sfinimento dell’arto addetto a tagliare il filo di ferro della rete. Se si potesse liberamente usare l’attrezzo alla luce del sole, in poco più di un’ora si porterebbe a termine il lavoro, ma nelle condizioni in cui ci troviamo sono occorse un paio di settimane; ma che importa? A Suzdal’ il tempo è un non tempo e non finisce mai; pertanto avanti senza fretta. Alzando il pezzetto di rete segata, ancora intera nella parte superiore, si entra nel recinto e si esce in maniera rapida ed egregia, fulminea. Con un bastone, fatto scivolare sul pezzo di lastra che fuoriesce dalla nauseabonda melma, si capisce senza ombra di dubbio che il coperchio del tombino è integro, intero e non soltanto un pezzo. Le dimensioni sono ottimali: circa ottanta centimetri di lunghezza per sessanta di larghezza; dieci lo spessore del manufatto di cemento; il peso poi è idoneo a schiacciare non solo un corvo ma anche quattro. Che sorpresa e che fortuna! L’Operazione Cornacchie verrà intrapresa a mezzo della trappola silenziosa, escludendo le altre tecniche: gli ami, la scalata, i lacci e forme alternative di cattura.
Una quindicina di giorni se ne vanno per mettere allo scoperto il lastrone e liberarlo dal putridume che lo ricopre. Nel frattempo, col chiodo tutto fare, si ricava dal ramo di betulla nascosto una asticella lunga una trentina di centimetri che termina a mo’ di forcella, cioè con una biforcazione: sul pezzetto con la punta conica poggerà appena appena un angolino del lastrone; sull’altro verrà legato il canapo per lo strappo del sostegno che causerà la caduta a terra del coperchio. Per sicurezza il canapo verrà legato anche alla base dell’asta che poggerà su una levigata piastrella per non fare troppa resistenza allo strappo. - Non vorrei essere nei panni di quel curioso volatile che avanzerà lemme lemme verso la mortale trappola -, pensa tra sé il celoviek gladiatore; - V’immaginate a che botta andrà incontro?
La pazienza, in attesa della preda, non è messa a dura prova, né manca; tale caratteristica è prerogativa dei prigionieri in Russia. Ad ogni particolare operazione connessa all’approntamento della trappola nel recinto del letamaio, i quattro bracconieri si sporcano come i maiali e odorano come le puzzole.
“Che sei già marcio? Puzzi come un cesso”, chiede un mal capitato tizio al c.b. che, insofferente, risponde:
“Bischero! Oltre il resto, hai perso anche l’olfatto, derelitto? Ciò che senti è odore di acqua di colonia fatta artigianalmente, altro che miasma”.
Il reperimento delle esche, cioè di qualche pezzo di pane che attiri i corvi sotto le forche caudine, è l’operazione più costosa di tutte le altre; il motivo facilmente comprensibile: la fame. Rinunciare a quel tocco di impasto chiamato pane è un sacrificio peggiore dello scalare le mura, ma è giocoforza farlo per la buona riuscita del piano mangereccio; a turno i quattro celoviek si tolgono di bocca quanto necessita. Il robusto canapo, reperito annodando pezzetti di stoffa ritorta, filo di ferro arrugginito e tratti di cavetto d’acciaio, lungo circa cinque metri, quanto basta, è già stato collocato al suo posto; la vista, nonostante la distrofia, è rimasta quella delle aquile; la forza, per lo strappo finale, sufficiente a superare lo sforzo. Non manca altro; tutto è pronto; non resta che sperare in un pizzico di fortuna e niente più. Trappola armata; esche pronte; un pezzetto di corda ben mimetizzato fuoriesce da una losanga della rete metallica, raso terra, pronto per dar il via allo strattone assassino non appena la vittima entrerà in zona Cesarini.
A due a due i celoviek montano la guardia, nell’ora dedicata allo svago, alla educazione fisica e al tempo libero, alla micidiale trappola. Seduti come oranti pellegrini per terra, con le spalle addossate alla rete e lo sguardo di sbieco rivolto al luogo del massacro, sottovoce, per ingannare il tempo e qualche isolato viandante che circola nei pressi, parlano di tutto e di niente. Per tre pomeriggi consecutivi, dall’imbrunire alle prime ombre della sera, l’attesa è vana e improficua; molti volatili razzolano nei dintorni del lastrone ma nessuno vi si spinge sotto. Sembrano anche loro, quei maledetti ma tanto desiderati corvacci, iscritti nelle liste dell’Nkvd e di conseguenza sono sospettosi di tutto e di tutti. Brutta razza la razza enkevediana, popolo! E probabilmente anche gli uccelli, nei paesi socialisti, sono diversi da quelli che vivono nei paesi capitalisti e borghesi; forse sono più uccelli dei nostri. Chissà!
Il quarto giorno montano di guardia il c.b. e l’amico carissimo, pure bersagliere. Il cielo è cupo, l’aria pungente, l’attesa spasmodica. Poi, all’improvviso, l’amico che con la mano destra tiene ben stretto il pezzetto di canapo che fuoriesce dalla rete, dà uno strattone furioso tanto che il busto, seduto, si piega di scatto in avanti quasi a toccare il piano viario del vialetto. Si ode un tonfo alle spalle che pare uno schiaffo, una sberla sull’acqua; contemporaneamente uno svolazzio fa seguito all’alzarsi in volo di alcuni pennuti spauriti; infine tornano il silenzio e la pace dintorno. Che sia pace eterna, anche? Il lastrone si è adagiato per terra e sotto c’è rimasto qualcosa perché un lato, anche se leggermente, è sollevato dal piano melmoso.
“Madonna mia benedetta! Grazie Signore! Ci siamo, ce l’abbiamo fatta, si mangia, eccome si mangia e si ride, anche!”, balbettano i due addetti ai lavori.
Viene deciso di rimandare l’operazione recupero all’indomani; tanto chi è rimasto sotto quel peso non scappa di certo.
I quattro celoviek bracconieri, riunitisi al cesso del lager, non stavano più nella pelle; erano euforici, sprizzavano gioia da tutti i pori, camminavano e saltellavano insieme, non pronunciavano parole ma si capivano bene con gli occhi. Usando il linguaggio dei muti facevano progetti su come mangiare la preda. - A me pare che siano due i corvi schiacciati -, fa segno con le dita il c.b. - No, no -, risponde l’amico bersagliere scuotendo la testa ed alza l’indice per confermare una sola cattura. Gli altri due si limitano ad alzare le spalle come per dire: - Uno o due che importa? L’importante è che si mangi qualcosa, che si senta almeno il sapore di queste bestiacce.
Per ora si dorme beati e contenti, poi si vedrà. L’indomani, in luogo asettico, cioè all’aperto, noi, i discendenti di Diana, discuteremo su due problemi di capitale importanza: far sparire il corpo del reato, le penne, in modo da spargerle al vento; come fare per cuocerli, o, ripiego migliore e senza rischi, se mangiarli crudi.
La notte fu insonne; complesse le elucubrazioni mentali; enorme la saliva secreta dalle ghiandole salivari; crudele, intima la gioia al pensiero di quelle vittime innocenti, ma prelibate. Il recupero fu abbastanza difficoltoso, ma senza eccessivi timori o pericoli. Due i corvi catturati; ridotti quasi a sogliole, ma integri. Per spennare quelle bestie e far sparire il corpo del reato, considerato che l’operazione avvenne a spizzichi e, per non destare sospetti, richiese innumerevoli uscite dal caseggiato per depositare una decina di penne per volta, non di più, nei luoghi più nascosti e meno frequentati del cortile, ci vollero un paio di giorni di furtivo lavoro. Si convenne, inoltre, di tagliare col chiodo i corvi a metà; ad ognuno ala e coscia col resto d’obbligo. Scartate infine varie ipotesi di cotture, tutte pericolose, e considerato inoltre che nessuno di noi era delicato di stomaco, si decise che ciascuno si arrangiasse a farli sparire nel modo più desiderato: crudi come madre natura li aveva creati; frollati come s’usa con la cacciagione; in una sola volta o a pezzetti incartati in foglie di ortiche; insomma a piacimento, ma crudi.
Commenti e giudizio corale di alcuni giorni dopo: carne dura, coriacea, senza particolari odori o sapori, ottima però nella sostanza e nel gusto. Capitasse tutti i giorni una simile leccornia che richiama alla mente i colombacci al cartoccio e placa piacevolmente i morsi della fame! Altro che balle! In un mesetto altri cinque volatili fecero la stessa fine; morirono volontariamente per il bene del prossimo e si immolarono senza ribellarsi sull’altare sacro che ha per motto: mors mea, vita tua. Che santi, che eroi, che martiri quei proletari e comuni volatili che ci eran sempre apparsi come bestiacce del malaugurio e iettatrici. È proprio vero: prima di dar giudizi su qualcuno bisogna conoscerlo a fondo, molto a fondo, interiormente, nudo e crudo.
Poi un giorno, uno di quei giorni avversi e iellati, il foro nella rete fu trovato chiuso da un grosso filo di ferro spinato e arrugginito. Qualcuno, ovviamente, aveva notata l’apertura e, dopo averla ben bene richiusa, da un osservatorio nascosto pensò di cogliere sul fatto l’artefice di siffatto vandalismo al patrimonio dell’Unione Sovietica e dare una logica spiegazione al mistero visto che, per approfondirlo, era necessario entrare nel letamaio, sporcarsi come i maiali; e tutto ciò non era certo piacevole sia per un russo guardiano che per un mezzo russo assimilato. I quattro celoviek, anche se con sconforto e amarezza, colta al volo l’antifona fecero conto di nulla e se ne guardarono bene dallo sfidare ancora una volta la sfacciata fortuna; abbandonarono la miniera e ripresero a sognare lunghi spiedi di uccelli e battute di caccia ai germani reali. Ogni tanto, passeggiando di fronte al letamaio, una occhiata furtiva guizzava verso il lastrone non ancora ricoperto del tutto dai liquami putridi che ogni tanto venivano gettati oltre la rete dai cucinieri romeni, lastrone tutt’ora lievemente sollevato da un lato e che probabilmente celava alla vista ancora una salma di qualche cornacchia, volatili non imperiali ma comuni che tuttavia erano buoni lo stesso, riempivano egregiamente lo stomaco e saziavano mente e spirito, risanando, nel contempo, il corpo nella sua interezza.
“Pazienza!”, mormorarono in coro i disoccupati bracconieri; “del resto tutti sanno che le cose belle finiscono presto, perciò coraggio e avanti nisi virtute et animo restitissem”.
E ripresero con più forza a combattere contro la solita fame, contro i soliti soprusi, contro la vita grama di sempre. Al ricordo di quella temeraria operazione denominata Cornacchie, gli occhi dei celoviek sprizzavano lampi di gioia; la saliva riempiva loro la bocca e il dispetto fatto appagava il loro arido cuore. Al pensiero di quelle innocenti vittime cadute sul campo del disonore un sorriso ironico e beffardo incorniciava volti e labbra dei poveri prigionieri di guerra divenuti, per fame e per rabbia, bracconieri senza scrupoli e senza onore, sabotatori pure, spregiudicati e pregiudicati anche.