Attilia Bussolari
Nata nel 1910, residente alla Biancolina di Lorenzatico da sempre.
Il mio primo ricordo di don Enrico risale al periodo della prima guerra mondiale. Avevo allora sette, otto anni. Lo vedevo spesso partire dalla canonica alla mattina presto in bicicletta vestito da soldato e ritornare a casa tardi la sera. Un giorno chiesi a mia madre chi fosse quel soldato che vedevo andare e venire e che stava con il curato. Mi spiegò che era un sacerdote mandato dal vescovo in aiuto al curato. Anche lui come mio padre doveva fare il soldato. Poteva tornare a casa tutte le sere, perché svolgeva il proprio servizio vicino alla parrocchia.
Lo conobbi meglio nel 1919, quando cominciò a svolgere le funzioni di parroco.
Ricordo bene quando ci preparò alla prima comunione. I bambini dagli otto ai tredici anni erano tanti, anche perché durante la guerra la funzione della prima comunione non si era potuta fare. Da febbraio a maggio ci fece catechismo, insegnandoci molte cose. La frase che più mi è rimasta impressa, anche perché ce la ripeteva spesso, è questa: “piuttosto la morte che il peccato”. La fece scrivere a tutti sul libretto che ci regalò il giorno della prima comunione.
Quando ricevemmo la cresima ci spiegò che diventavamo soldati di Gesù Cristo e che dovevamo combattere contro il demonio, che continuamente cerca di tentarci al male. Ricordo ancora le sue insistenze perché dopo la prima comunione e la cresima continuassimo a frequentare il catechismo, ogni domenica prima della messa delle undici, e andassimo alla benedizione al pomeriggio. Ci raccomandava le preghiere del mattino e della sera, da dirsi sempre; la confessione e la comunione mensile, che facevamo tutti insieme la prima domenica del mese.
Questa pratica molti l’hanno seguita fino all’età di quattordici, quindici anni.
Ho seguito sempre don Donati: sono stata sua parrocchiana e molto vicina alla chiesa, prima nell’Azione cattolica, poi, dopo sposata nella Pia unione delle madri cristiane.
Le sue raccomandazioni erano di pregare anche durante il giorno, di dire qualche giaculatoria durante il lavoro, di ricordarsi dei defunti, degli ammalati, dei giovani e dei bambini di chiedere perdono al Signore in riparazione delle bestemmie; di recitare il rosario in famiglia durante i mesi invernali e, per coloro che non potevano recarsi in chiesa, nel mese di maggio di recitare l’Angelus al suono della campana del mezzogiorno e della sera.
Don Enrico quasi ogni giorno sul tramonto si recava, con il breviario e la corona del rosario in mano al cimitero a visitare i morti.
Anche la domenica tredici maggio 1945, dopo la funzione del pomeriggio, lo vidi fare il percorso che dalla chiesa porta al cimitero.
Il lunedì mattina seppi la triste notizia; al pomeriggio dalla finestra della mia camera vidi il carretto trainato da un cavallo che trasportava il cadavere di don Enrico al cimitero. Provai un dolore immenso per quella tragica fine non meritata.
Medardo Cazzoli
Nato nel 1919 e residente a Lorenzatico dal 1925.
Quando con la mia famiglia mi sono trasferito alla Tassinara non avevo ancora compiuto sette anni.
La parrocchia di Lorenzatico era un punto di attrazione. I circa novecento abitanti della zona partecipavano numerosi alle cerimonie religiose, grazie all’intenso lavoro spirituale e materiale di don Enrico Donati. Insisteva molto e di continuo perché sia noi bambini sia gli adulti, uomini e donne, partecipassimo al catechismo e agli altri momenti di istruzione religiosa. Gli uomini la domenica pomeriggio prendevano parte, prima, al rosario e, poi, alla benedizione eucaristica.
Nonostante che si dovessero fare tre chilometri a piedi, non si mancava mai alle funzioni in chiesa. D’inverno, andare alle novene, per noi giovani era un divertimento. Don Donati teneva molto al comportamento quotidiano: insisteva sul modo di vestire in chiesa e fuori; sul saluto reciproco anche negli incontri di strada: si doveva dire “Sia lodato Gesù Cristo”.
Due volte l’anno veniva nelle nostre case: per la benedizione pasquale e per la benedizione del bestiame per Sant’Antonio abate. Lo si vedeva di lontano arrivare tutto vestito di bianco, affiancato da un chierichetto.
Per interessare maggiormente i parrocchiani, con i bambini e i giovani organizzava commedie.
La sua severità si univa al riconoscimento dei meriti di ciascuno.
Ha fatto un gran bene alla chiesa: con grandi sacrifici ha rinnovato la pavimentazione; ha ampliato lo spazio attorno all’altare; ha acquistato nuove campane, collocandole al piano terra nel cortile di fronte alla chiesa, dove si potevano suonare con tranquillità. Lui stesso andava con grande soddisfazione a batterle con un dito per godersi l’armonia.
Con grande entusiasmo demolì il vecchio campanile e cominciò, purtroppo senza riuscire nell’intento, a costruire il nuovo: rimase alle fondamenta. Quando andai a fare il servizio militare, nel 1939, rimanendo poi sotto le armi sino all’8 settembre 1943, mi mantenni in corrispondenza con lui. Gradiva molto restare in contatto con noi sotto le armi e ci accoglieva con gioia durante le licenze. Quando le ragioni belliche non consentirono più la corrispondenza ravvicinata ne soffrì molto, ma comprese la nostra situazione, essendo stato cappellano militare durante la grande guerra. Don Enrico era a Lorenzatico come parroco in rappresentanza di Gesù: come Gesù fu tradito e ucciso.
Ivano Bicego
Nato nel 1933, sacerdote, attualmente parroco dei SS. Simone e Giuda a Ravenna.
La realizzazione della vita è legata ad alcuni nostri sì e ad alcuni nostri no. È legata, inoltre, all’impressione ricevuta dall’azione degli altri.
La prima volta che lo vidi, don Enrico Donati mi colpì fortemente. Avevo allora appena compiuto cinque anni e la nonna mi accompagnava, con i miei fratelli, a Messa. Il nostro parroco stava in preghiera, con un grosso libro tra le mani, tra l’altare maggiore e quello della Madonna di Loreto. L’immagine di quell’uomo tutto nero non si è più cancellata nella mia mente.
Più tardi, cresciuto, mi resi conto che don Enrico era veramente un uomo di preghiera.
Desiderava che anche noi diventassimo uomini di preghiera e operava per questo. Durante il catechismo impegnava il meglio di se stesso nell’insegnarci a pregare. Appena giunti alla chiesa ci invitava ad andare a salutare Gesù.
Del resto lui dava l’esempio. Sempre e a lungo in ginocchio con la testa tra le mani. Una volta, mentre i miei amici erano usciti, mi fermai in chiesa. Don Enrico era lì a pregare. Dopo oltre un’ora, lo vidi alzarsi, fare una profonda genuflessione e lo udii che diceva: "Signore Iddio, aiutami! Vergine santa, non mi abbandonare!". Alzatosi e accortosi della mia presenza, mi venne vicino per dirmi: "La preghiera è la cosa più importante della nostra vita. Per la nostra anima è fondamentale quanto l’ossigeno per il corpo. Non si può fare bene la vita se non si prega. Con la preghiera si entra in contatto con Dio, si parla con lui, e il Signore stesso ti ispira che cosa devi fare".
Don Enrico trascorreva molto tempo davanti al Tabernacolo, specialmente durante le quarant’ore. Ancora oggi, quando entro nella nostra chiesa di Lorenzatico, mi sembra di vederlo lì, inginocchiato come allora.
Godeva quando pregavamo insieme con lui, dimostrando di avere ben compreso le formule del catechismo. Durante una quaresima, mentre stavamo preparandoci alla Cresima, ci disse: "pregare vuol dire offrire al Signore tutto ciò che siamo, compresi i nostri sacrifici".
Verso sera era facile vedere don Enrico percorrere la strada che dalla chiesa porta al cimitero con la corona tra le mani. Era il suo incontro con Maria. Aveva una grande devozione verso la Vergine santa. Le feste della Madonna le preparava con cura e con tanto affetto. Ci voleva tutti presenti e ben preparati. Ci diceva sempre in quei momenti: "Il Signore ci ha dato una Mamma, dobbiamo volerle bene, dobbiamo invocarla e non rattristarla con i nostri peccati. Ha già sofferto tanto sul calvario".
Strada facendo mi sono convinto sempre più che il nostro parroco si muovesse attraverso la preghiera e che in essa, "compiuti i suoi tempi", trovasse la forza per pronunciare il suo offerimus.
Dinanzi al Ministero i tempi e le ore non contavano. Don Enrico era sempre disponibile. Le ore in confessionale non si contavano, anche quando la chiesa era gelida. Giungeva sempre prima di noi, ci aiutava a prepararci e poi ascoltava con animo di pastore.
Quando nonna si aggravò nevicava e c’era già tanta neve. Lo zio Renato andò ad informarlo, anche perché tutti conoscevano la sua attenzione verso i malati. Don Enrico non attese. Prese il necessario e seguendo lo zio per le varie carraie giunse al capezzale dell’ammalata. Tra andare e venire trascorse quasi tutta la giornata. Forse, quel giorno non pranzò. Non era la prima volta che gli capitava, ma penso che non sia stata neppure l’ultima. "I malati - diceva - meritano qualsiasi sacrificio".
In quella tragica sera del 13 maggio 1945, per trarlo in inganno, usarono ciò che a Lui stava più a cuore: l’immagine di un ammalato.
Don Enrico è passato tra noi come il sacerdote della catechesi. Nel pomeriggio delle domeniche quasi ci contava. Desiderava che le famiglie, adulti e ragazzi, fossero tutti presenti. "Bisogna istruirsi nelle cose del Signore - diceva - per conoscere il Signore". Preparava quegli incontri con cura, scriveva ogni pensiero. Non era un grande oratore, ma in ciò che diceva vi poneva il cuore.
Mi ricordavano alcuni "giovani" del suo tempo che don Enrico aveva curato in canonica allo studio della Rerum novarum sulla dottrina sociale della Chiesa. Bersani, Salizzoni e, in modo particolare, Dore furono i suoi instancabili collaboratori.
Don Enrico mi è rimasto dentro con la sua passione per le anime. Nell’avvicinarsi della festa di S.Antonio abate e della santa Pasqua, poco importava che ci fosse neve o fango, percorreva a piedi quei sentieri scomodi che portavano alle nostre case e lì s’intratteneva affabilmente.
Invitava, incoraggiava, richiamava alla pratica della vita cristiana, alla santificazione del giorno del Signore. Soffriva quando qualche famiglia era in "disordine" o praticava saltuariamente: "Quando non vi vedo, soffro"; "Il Signore è morto in croce per tutti e quindi anche per voi"; "Il Signore ci ha dato tutto il suo tempo, e noi?"; "Quello che abbiamo è tutto del Signore; è necessario che ci mettiamo sulla sua strada".
Don Enrico è vivo in me più che mai e con quel suo stile tra l’austero e il gioviale ha fatto sì che la mia fantasia accarezzasse il mistero del sacerdozio.
Quando poi scopersi che pur sentendosi minacciato, non abbandonò i suoi parrocchiani, anche se poteva farlo, ma rimase al suo posto, la mia fantasia smise di giocare. Don Donati rimane un punto fermo nel mio animo e nel mio cuore.
Nella fede e nell’opera, martire del dovere, apriva la strada ad un altro martire: Giuseppe Fanin. In fondo era una sua creatura. Lui lo aveva formato al senso del dovere.
La croce, la gioia di orientare le anime a Cristo, la consapevolezza di avere una missione da compiere affidatagli dal Signore, ha fatto di don Donati una immagine a cui ispirarsi.
Da tutto questo è scaturito in me il desiderio di mettermi sulla stessa strada. Certo mi sento ben lontano da quel suo palpito di amore che ha avuto per ognuno di noi.
Primo Cazzoli
Nato nel 1913, residente alla Tassinara di Lorenzatico dal 1925.
Ho conosciuto l’arciprete don Enrico nel 1925, dopo essermi trasferito con la famiglia nella parrocchia di San Giacomo di Lorenzatico.
Arrivavo dalla mia abitazione alla Chiesa a piedi, oppure in bicicletta. Attraversavo il cortile dei Fratelli Gorni, quello dei Peliccioni, la campagna della proprietà Zucchi. Giunto sulla via Biancolina all’altezza delle scuole comunali, oppure vicino al ponte del Cristo, percorrevo la via Biancolina vecchia. La scorciatoia che facevo dimezzava il percorso. I proprietari consentivano volentieri il passaggio sulle loro terre.
Il parroco aveva adibito un monolocale di fronte al parco Gotti ad uso macelleria. In questo modo, le donne che andavano a Messa potevano comprare la carne senza doversi recare a San Giovanni in Persiceto. Era, tuttavia, molto esigente perché voleva che si partecipasse tutti alla vita della parrocchia. D’altronde aveva con tutti rapporti di reciproca stima e amicizia.
La sua puntualità e precisione erano un esempio per tutti. Voleva che le donne andassero in chiesa a capo coperto e con le gonne fino al polpaccio.
Aveva disposto un premio per le bambine della prima comunione che andavano in chiesa con la sottana più lunga.
La vita parrocchiale era intensa. Alla sera si faceva la Via Crucis all’aperto. Le meditazioni le facevano i giovani di Azione cattolica.
Spesso erano presenti per incontri e convegni i dirigenti dell’Azione cattolica bolognese: Raimondo Manzini, Alfonso Melloni, Angelo e Carlo Salizzoni, Giovanni Bersani, Giuseppe Delfini.
Amava molto, ma molto, i parrocchiani e curava moltissimo l’assistenza spirituale dei malati. Desiderava essere informato, dai famigliari e dai vicini, ogni qual volta qualche persona non stava bene in salute. Voleva portare il conforto della fede e dei sacramenti, oltre che della sua presenza.
Conosceva tutte le famiglie della parrocchia. Due sole non riuscì ad avvicinare alla chiesa: una per vecchi rancori sull’eredità; l’altra per la posizione matrimoniale irregolare: l’uomo aveva compagna una vedova di guerra, che non voleva sposarsi per poter continuare ad usufruire della pensione.
Poiché facevo parte dell’Azione cattolica e frequentavo la parrocchia, potei conoscere a fondo l’arciprete, che fu anche il mio direttore spirituale. In occasione del travaso e dell’imbottigliamento del vino lo si poteva vedere in camice grigio a lavare le bottiglie.
Quando mi sposai, il 7 giugno 1942, alle famiglie che mi chiedevano di quale regalo avessi avuto piacere, rispondevo che il regalo più gradito sarebbe stato la loro partecipazione alla cerimonia nuziale, l’accostarsi a ricevere la santa Eucaristia e la preghiera per me e mia moglie. Don Enrico manifestò per questo la sua grande gioia.
Aveva fatto costruire un teatrino perché noi giovani potessimo allestire commedie. Ma i lavori più importanti riguardavano la chiesa, ampliata a tre navate. Aveva acquistato le campane e fatto abbattere il campanile. Diceva: " a costo di mangiare sempre cipolla il campanile lo voglio fare". Godeva a sentire il suono delle cinque campane. La loro armonia era come un canto mistico di lode al Creatore.
La situazione sociale di Lorenzatico venne profondamente modificata con la guerra. Le famiglie furono indebolite e preoccupate dal richiamo alle armi dei giovani. Molte famiglie sfollate, alloggiate alla meno peggio, portarono comportamenti inconsueti. I rapporti sociali furono soprattutto incrinati dai partigiani. Essi incitavano all’odio verso coloro che non aderivano. Facevano riunioni nelle aie dei coloni: con la scusa di una partita a bocce si radunavano varie persone; poi, al tramonto si preparava la tavolata per lo spuntino a base di pane, vino e salumi; infine, si chiedeva l’adesione al movimento. Dicevano: "noi ci conosciamo tutti, chi aderisce è con noi; chi non aderisce stia ben attento a parlare; è questione di vita o di morte. Se qualcuno parla noi lo veniamo a sapere subito: sarà punito con la morte. E non è uno scherzo".
Furono proprio alcuni sfollati a tenere le prime riunioni nelle stesse case in cui erano alloggiati.
Negli ultimi mesi di guerra si erano formati il comitato di liberazione e la camera del lavoro. Quale rappresentante della corrente cristiana nel sindacato partecipavo alle riunioni del comitato di liberazione e dei capi lega.
In quelle riunioni si insisteva nel dire che i braccianti, i coloni, gli operai erano ignoranti e avevano la testa dura e che, quindi, si doveva far capire loro che ciò che si faceva era fatto nel loro interesse. Gli errori erano sempre da imputarsi agli altri; se poi gli altri facevano cose buone si doveva fare in modo di far credere che era stato merito nostro.
Si diceva, ancora,che non si dovevano mai firmare accordi, perché i primi ad essere cercati erano quelli che avevano firmato.
Nel comitato di liberazione, poi, si facevano molte parzialità. Chi si iscriveva al partito comunista, nonostante i notori trascorsi fascisti, non veniva epurato. Altri persicetani, invece, venivano minacciati, percossi e allontanati dal posto di lavoro.
In questo clima venne prelevato anche don Enrico Donati.
È vero, aveva invitato i genitori a seguire i loro figli, perché non si mettessero su di una strada pericolosa, ma occorre aggiungere anche la propaganda anticlericale incentrata sull’odio al prete.
Venne, comunque, prelevato con l’inganno. Due sconosciuti la domenica 13 maggio al calar del sole gli si presentarono dicendo di avere bisogno della sua presenza. Don Enrico prese con sè la stola e quanto gli serviva per amministrare il viatico, come faceva sempre.
Comprese di essere caduto in una imboscata, quando, giunto all’altezza dell’osteria di Zenerigolo, ai due si unirono altri due e poi al bivio di via Zenerigolo con via Poggio due altri ancora. A questo punto fece resistenza e dichiarò di non voler continuare.
Certamente chiese aiuto. Nessuno sentì, nemmeno lo sparo. Chi lo stava cercando, fu messo in allarme dalla pozza di sangue che gli assassini avevano coperto con polvere della strada. Chi fornì il sacco per chiudere dentro la salma con dei sassi perché stesse a fondo nel macero insieme con la bicicletta? Gli assassini avrebbero potuto essere compromessi anche dalle orme lasciate fino al macero a fianco della via Poggio.
L’omertà e il silenzio hanno ceduto il posto alla giustizia divina.
Tuttavia, quando Giuseppe Breviglieri portò la salma di don Enrico al cimitero di Lorenzatico, una ragazzina, dietro un filare di alberi sbirciava, seguendo a distanza la operazioni di rimozione e di trasporto della salma.
La mattina del 14 maggio venni informato da Gino Breviglieri del ritrovamento della salma del nostro amato parroco.
Andai subito dall’ufficiale sanitario per interessarlo a fare la constatazione di morte e per istruire la pratica della sepoltura. Ma questi dichiarò di non poter intervenire. Le pompe funebri senza documenti non vollero occuparsi del funerale.
Il corpo martoriato di don Enrico Donati resta tra noi come segno di contraddizione, come memoria indelebile dell’odio, della paura, della brutale bestialità.
Il suo amore pastorale - ne sono certo - ha avuto la sua ricompensa. Questo amore, vivo e vitale, guida il nostro cammino.
Domenico Gotti
Nato nel 1929, residente in via Biancolina di Lorenzatico da sempre.
Quando morì don Enrico (per tutti il signor arciprete) ero appena un ragazzo e non ho, di allora, che il ricordo di pochi episodi in me, ancora oggi, vivissimi.
La sera del 13 maggio 1945, all’imbrunire, l’arciprete e mio padre sedevano, come erano soliti fare, tranquillamente conversando davanti alla canonica. Ad un tratto entrarono nel sagrato della chiesa due uomini in bicicletta che, fermatisi davanti a loro, si qualificarono come rappresentanti del Comitato di liberazione con l’ordine di accompagnare, per chiarimenti, don Enrico alla caserma di Persiceto.
Né don Enrico, nè mio padre conoscevano quegli individui. L’arciprete, già in allarme per alcuni minacciosi segnali, rispose che il Comitato lo aveva convocato pochi giorni prima, ma in quella sede si era appurata la inconsistenza dei sospetti che gravavano su di lui e gli fu detto che poteva tornarsene a casa tranquillamente. Non vedeva, perciò, la necessità di questa nuova convocazione e, soprattutto, non ne ravvisava l’urgenza. In ogni caso avrebbe potuto recarsi a Persiceto il mattino successivo. I due sconosciuti, con fare non arrogante, ma determinato, assicurandolo che non correva alcun pericolo, gli fecero balenare la minaccia che ad un suo rifiuto altri sarebbero venuti in macchina a prelevarlo forzatamente.
Don Enrico domandò a mio padre: "Lei, Francesco, cosa mi consiglia?" "Non so proprio cosa consigliarle arciprete", fu la risposta. Don Enrico ritenne che non vi fossero alternative. Certamente sospettava che si potesse avviare alla sua fine ma, forse, la consapevolezza della sua innocenza e del bene che aveva sempre animato ogni sua azione lo fecero ancora sperare. Quindi si alzò e fece per entrare in casa a mettersi la veste talare (indossava una leggera veste detta comunemente "spolverino") ma i due glielo impedirono, dicendo che non occorreva perchè sarebbe tornato assai presto.
Il povero prete partì sulla sua bicicletta "da donna" scortato dai due sconosciuti, con un mesto "arrivederci" a mio padre.
Il giorno successivo mia zia Ernestina si recò, come faceva quotidianamente, alla Messa mattutina: don Enrico non era tornato e di lui non si avevano notizie. Al ritorno la zia riferì il fatto molto preoccupata: "ci mancherebbe anche questa disgrazia" ripeteva. La frase aveva questo significato: alle sventure familiari (la recente morte di mia madre in una incursione aerea) non vorrei si aggiungesse anche la morte di don Enrico. L’arciprete, infatti, era ritenuto uno di famiglia.
Non ricordo chi mi avvertì e quando del ritrovamento della salma; forse la zia stessa che mi invitò ad andare al cimitero per dire una preghiera.
Era una luminosa mattina di maggio, in bicicletta, mi recai al vicino cimitero. Non vi era anima viva nè sulla strada nè al lavoro nei campi. Il cancello del cimitero e la porta della cappella socchiusi. Entrai e vidi, nella penombra della chiesetta, la Rita, un’anziana e pia donna che abitava accanto alla canonica. Il dolore le traspariva dal viso e mi indicò la salma sussurrando: vedi come l’hanno ridotto!
Il nostro arciprete era disteso su un tavolaccio, quello che i becchini usano per trasportare le bare. Il volto e le mani bianchissime per la lunga permanenza nell’acqua del macero. La bella testa rotonda con i capelli grigi cortissimi, leggermente inclinata, il corpo massiccio rivestito dallo "spolverino" dal quale fuoriusciva il collarino inamidato.
La Rita mi indicò il foro di entrata del proiettile nella nuca ed il foro di uscita nella guancia destra.
Non avvertivo paura o repulsione per quanto vedevo ma solamente un senso di ribellione per il modo indegno con cui era stato trattato un uomo. Gli animali, i maiali venivano uccisi, ripuliti e distesi su un tavolaccio!
Quella scena l’ho rivissuta tante, tantissime volte. Non è stata per me un incubo ma certamente il motivo di un rancore che ancora oggi permane.
Alla benedizione della salma era presente un prete (non della zona), la Rita e mia zia. I parrocchiani, che lo amavano, chiusi nelle loro case per paura di rappresaglie.
Ma quale era stata la causa, quali le motivazioni, che avevano scatenato una vendetta così atroce?
Un giorno (autunno-inverno 1944) il signor arciprete venne a Persiceto, ove eravamo sfollati, per parlare con la zia Ernestina. Era molto in ansia e preoccupato; chiedeva consiglio e aiuto alla zia. Cosa era accaduto? In quel periodo , in parrocchia, si erano verificati dei fatti gravi. Un gruppo di giovani (quasi tutti figli di parrocchiani) si erano presentati nottetempo, armi in pugno, presso alcune famiglie della zona rubando viveri, vestiario (non so se anche soldi) dicendo che servivano alla sussistenza dei partigiani. Minacciavano vendette se i derubati avessero sporto denuncia o resa pubblica la notizia della grassazione. Nei giorni successivi ai misfatti, alcuni di essi passeggiavano spavaldamente rivestiti con gli abiti rubati. Don Enrico, messo ovviamente al corrente dei fatti e dei nomi, sentì, come suo preciso dovere di parroco, di chiamare tutti i capi famiglia ad una riunione in canonica per raccomandare ai padri una più stretta vigilanza sull’operato dei figli. Al termine dell’incontro uno dei capi famiglia sussurrò a don Enrico una frase: "non vorrei che lei avesse a pentirsi di avere indetto questa riunione". L’arciprete la intese come una minaccia di condanna a morte.
Alla zia, che ben conosceva l’uomo che aveva proferito quella minaccia, don Enrico chiedeva se ritenesse opportuno che ella lo invitasse a chiedergli ragione di quanto aveva detto e per assicurarlo che il sacerdote non avrebbe mai fatto sapere i nomi dei giovani nè, tantomeno, avvertito le autorità di quanto era a sua conoscenza.
La zia si disse pienamente disponibile a convocarlo ed anzi l’avrebbe espressamente preavvertito, che qualunque cosa fosse accaduta al parroco lei l’avrebbe ritenuto responsabile e quindi agito di conseguenza.
A don Enrico sorse poi il dubbio che l’intervento della zia radicasse ancora più nell’uomo la convinzione che il prete non taceva e non avrebbe taciuto. Decise quindi di soprassedere.
In un successivo incontro con la zia apparve più tranquillo perchè riteneva di essersi chiarito con l’interessato.
Ritengo che la causa prima dell’assassinio sia stata, appunto, il coraggioso, doveroso, onesto richiamo del pastore alle famiglie del suo gregge.
Altri tragici avvenimenti vennero artatamente distorti per indirizzare i sospetti su don Enrico. Nell’inverno 1944-45 accaddero fatti di inaudita ferocia ad opera degli stessi giovani. Vennero uccisi, invitandoli amichevolmente ad una festa, tre militari italiani di leva per utilizzarne le divise. Tutti ragazzi assolutamente innocui, di appena vent’anni. La reazione tedesca non si fece attendere. I nostri giovani non erano eroi e qualcuno, per salvarsi, accusò i suoi compagni. Fu fatto credere che la delazione fosse avvenuta ad opera di don Enrico. Tutta la popolazione era a conoscenza del reale svolgimento dei fatti e della persone coinvolte. Misteriosi "giudici" decretarono la soppressione del prete per far convergere su di lui accuse tanto infamanti quanto inesistenti e salvare, in tal modo, l’onore degli "eroici" giovani e la rispettabilità delle loro famiglie.
Don Enrico non poteva più difendersi; ma non c’era persona fra quante lo conoscevano (compresi i suoi assassini) che credesse alla veridicità di quelle accuse.
Don Enrico è stato un parroco buono, leale e devoto che viveva, in dignitosa povertà, solo per la Chiesa e la parrocchia.
Ernesto Tabellini
Nato nel 1919, sacerdote, attualmente parroco di San Giovanni Battista di Altedo (Malalbergo).
Fondo questo ricordo sulla tragica fine del compianto don Enrico Donati sulle notizie che circolavano in quei giorni tra i miei ex parrocchiani di Zenerigolo.
Alcuni giovani, certamente del comune di Persiceto, in una notte del settembre 1944 andarono a rubare presso la famiglia di Virgilio Fanin della parrocchia di Lorenzatico.
Correva voce che il Fanin avesse riconosciuto alcuni di quei giovani e l’avesse poi confidato all’arciprete don Enrico Donati. Questi in una adunanza alle donne della sua parrocchia aveva messo in guardia i genitori dell’accaduto. Intervento pastorale più che logico, ho sempre pensato.
In quell’autunno (1944) presso le scuole di Lorenzatico vennero dei soldati alpini italiani al servizio dell’esercito della repubblica di Salò. Tre di questi alpini furono invitati una sera ad una festa da ballo presso una famiglia e poi traditi e uccisi per togliere loro le armi. Furono sepolti dentro l’argine del fiume Samoggia. Questo fatto creò molto allarme; alcuni giovani furono arrestati, e si trattava di giovani già noti nel furto Fanin.
Chi aveva dato questi nomi? Chi aveva informato i carabinieri?
S’incolpò l’arciprete di Lorenzatico, perché solo lui conosceva questi nomi. Eravamo ancora nel "si dice"; non eravamo ancora all’irreparabile.
Però, una settimana prima del passaggio del fronte la situazione si aggravò. Otto giovani (quattro di Lorenzatico e quattro di Zenerigolo) vennero arrestati e messi in custodia presso le scuole elementari di Lorenzatico e vigilati dai soldati alpini.
E arrivò finalmente il 21 aprile 1945: gli alpini scapparono e, invece di lasciare liberi gli otto giovani prigionieri, li consegnarono ai soldati tedeschi, i quali li trascinarono a Cavezzo di Modena e li uccisero senza pietà.
Questo fatto fece scoppiare l’odio. Don Enrico Donati doveva essere il responsabile; lui solo poteva conoscere i nomi dei giovani; lui solo poteva averne dato l’elenco ai carabinieri di Persiceto.
Il giorno dopo, domenica 22 aprile 1945, fu chiamato in comune presso il Comitato di liberazione, che pur riconoscendo l’estraneità del sacerdote ai fatti, gli ingiunse di non allontanarsi dalla sua parrocchia per eventuali richiami.
In quei giorni non si parlava d’altro, e persino i bimbi del catechismo, riportando frasi ascoltate in famiglia, dicevano che il parroco di Lorenzatico era una spia e doveva fare la fine di quei giovani.
Feci presente al vicario foraneo, mons. Cantagalli, arciprete di Persiceto, questa situazione quanto mai delicata.
Don Enrico venne chiamato dal card. Nasalli Rocca, che gli propose di rimanere in seminario per un po’ di tempo. Ma lui, innocente com’era, non accettò l’offerta: il suo allontanamento, la sua fuga avrebbe confermato la voce popolare. E rimase fra i suoi parrocchiani.
A Zenerigolo, il 18 maggio 1945, vi fu un ufficio funebre in suffragio di quei giovani così barbaramente trucidati. Alcuni giorni prima - e qui mi ricordo bene - il venerdì 11 maggio 1945, un giovane, mai conosciuto, mi chiese se avessi invitato all’ufficio funebre l’arciprete di Lorenzatico, e, alla mia risposta affermativa, disse: "se viene non tornerà più a casa". E partì senza salutarmi con la sua bicicletta.
Il giorno dopo, sabato 12 maggio, festa di S.Danio, ad Amola eravamo in parecchi sacerdoti, e c’era pure don Enrico Donati. Lo chiamai in disparte; non gli riferii la frase nuda e cruda del giovane, ma gli feci capire, data la situazione delicatissima nella quale era stato coinvolto, che se fosse rimasto a casa sarebbe stato più prudente, data la presenza dei famigliari in lutto e quanto mai eccitati. Mi ringraziò e mi rassicurò che sarebbe rimasto a casa.
Purtroppo il giorno dopo, domenica 13 maggio 1945, nella serata don Enrico venne prelevato da due sconosciuti. Passata la chiesa di Zenerigolo venne ucciso, messo in un sacco e nascosto dentro un macero lungo via Poggio. La mattina dopo venne ritrovato e portato al cimitero di Lorenzatico. Misera fine di uno zelante sacerdote.
Giuseppe Breviglieri
Nato nel 1929, residente alla Tassinara di Lorenzatico da sempre.
Ho conosciuto don Enrico Donati sin da piccolo, mi ricordo che scherzava.
Per noi di campagna era difficile andare a San Giovanni in Persiceto. Qualche volta, prima della guerra, si usava la bicicletta, ma andavamo a scuola e in chiesa a piedi.
Ogni cosa costava e meno si usava, più durava!
La mattina del 14 maggio 1945 venne a casa nostra, in via Tassinara 15, Arvedo Massari. Raccontò che don Enrico era stato ucciso e lui, trovando delle tracce di sangue sulla strada e poi una scia sull’erba del prato, tra le vie Zenerigolo e Poggio, era andato fino al macero e con un rastrello aveva trovato il corpo del nostro parroco dentro ad un involucro di telo di sacco. Nell’involucro avevano messo anche un sasso per appesantire di più il tutto.
Nel pomeriggio andai con il cavallo e il biroccio da foraggio di casa nostra; Arvedo lo trovai lungo la strada, vicino al macero. Vidi l’involucro contenente il cadavere; Arvedo mi fece vedere il viso di don Enrico; rimettemmo il lembo del telone sul viso e caricammo insieme la salma. Eravamo solo noi due. Erano circa le ore 14 e la gente era già tutta in campagna. Arvedo partì prima di me e ci ritrovammo al cimitero, dove mi stava aspettando. Non c’era nessun altro. Scaricammo l’involucro contenente il corpo di don Donati e poi andai subito a casa mia. Dopo non seppi più nulla. Non sentii nessun commento.
Giorgio Pederzini
Nato nel 1919, sacerdote, attualmente parroco del Sacro Cuore di Gesù di Vergato (Bologna).
Ho vissuto molto a San Giovanni in Persiceto come seminarista e sacerdote novello. Mi toccò in sorte di impartire la benedizione alla salma del canonico Enrico Donati nel cimitero di Lorenzatico. Ero a San Giovanni in Persiceto per rivedere la famiglia dopo otto mesi di silenzio durante la sosta invernale del fronte sulla linea gotica e quindi anche su Vergato, dove io ero cappellano. Al mattino del 14 maggio dopo la messa, monsignor Amedeo Cantagalli parroco di San Giovanni mi disse: "Va a Lorenzatico a benedire la salma di don Donati ucciso da sconosciuti questa notte, hanno invitato me ma nessuno si presta a portarmi, tu ci vai in bicicletta. Tanto tu ritorni poi a Vergato." Presi la stola, l’asperges, il rituale, la cotta e via verso le dieci a Lorenzatico. Per la strada nessuno, intravedevo dalla porte semiaperte della gente che guardava, la paura era nell’aria, non un carabiniere si mosse per vedere cosa fosse successo a Lorenzatico; veniva in mente il versetto biblico "Aspettavamo la pace ed ecco il terrore".
Al cimitero trovai tre persone: il fratello di don Donati, la domestica e una signora, credo la signora Zucchi. La salma era già nella povera bara ancora aperta, vidi tre fori sul viso aperti dai proiettili della pistola con la quale era stato ucciso: uno in fronte, uno in una guancia e uno sul mento.
Dopo qualche minuto di silenzio azzardai chiedere se fosse il caso di suonare la campana a morto per avvisare la gente e convocare qualche amico, qualche fedele; mi dissuasero, decisamente, mi pare fosse il fratello, motivando il rifiuto con queste parole: "Ma non sa che hanno detto guai a quel prete che gli dice una Messa?" Ascoltai il suggerimento e lessi la preghiera del rituale per le esequie di un defunto sacerdote, poi aspersi di acqua santa e impartii la benedizione finale a conclusione della squallida sepoltura.
È davvero giusto e doveroso a quarant’anni di distanza riparare a quella ingiustizia con riti solenni celebrati nella sua amata chiesa dai confratelli giovani e meno giovani.
A quell’altra ingiustizia perpetrata contro l’innocente don Donati da fanatici vittime dell’odio seminato nel loro cuore da ben nota ideologia, avrebbe dovuto provvedere la magistratura, ma sarà meglio aspettare la giustizia di Dio che è lenta, ma arriva.
Tuttavia quest’ultima dà la precedenza al perdono come certamente avrà invocato nella sua agonia il buon pastore don Enrico Donati.