Chi ha ucciso? Questa è la domanda che poneva Togliatti dopo il tentativo di assalto alla forza pubblica avvenuto a Modena il 9 gennaio.
I comunisti hanno cercato di rispondere a questa domanda ergendosi a giudici delle «tenebrose macchinazioni» del Governo, parlando di «piano per la terrorizzazione della città di Modena» e ricostruendo i tragici avvenimenti nel modo che tornava loro comodo.
Prima di iniziare questa nostra documentazione pensiamo che si debba precisare che i morti di Modena sono le vittime di chi andava da tempo preordinando una azione paramilitare a largo raggio; sono le vittime di chi ha scagliato in agitazioni inconsulte i lavoratori; di chi ha precipitato con la sapiente tattica la colonna o meglio le numerose colonne dei lavoratori all'aggressione degli agenti, anche essi figli del popolo e cittadini che non possono abdicare al diritto di legittima difesa, non diciamo della autorità che essi rappresentano, ma di se stessi.
Ha ucciso a Modena e altrove, il fanatismo. Il fanatismo marxista organizzato, importato a noi dal partito «che lavora nello spirito di Lenin e di Stalin» come Togliatti ha detto a Modena, con parole che hanno suonato stridule come il tono falso di un cantante. Quello spirito lo conosciamo; è lo spirito dell'odio utilizzato come dinamite.
Proprio quello spirito richiederebbe che, alla denuncia contro il prefetto e il questore di Modena (vera guasconata da leguleio, proposta da Terracini), si controponesse la denuncia contro i propalatori e gli alimentatori dell'odio fanatico. Se il monito popolare dovesse rimanere ancora una volta inascoltato e nuovo sangue dovesse correre, sorga nel paese un movimento generale delle masse popolari tale da imporre il castigo dei responsabili.
Se questa dichiarazione finale della mozione modenese è intesa a precostituire un alibi per future iatture che vogliono infliggersi al Paese, questo alibi è già respinto e confutato dalle precise responsabilità assunte dai perturbatori socialcomunisti nei conflitti che hanno insanguinato il Paese.
Se quella dichiarazione vuole anche rappresentare una minaccia, noi diciamo con tranquilla fermezza che sarà l'autorità dello Stato, interprete della coscienza civile della nazione, a «imporre il castigo dei responsabili».
Così affermava giustamente il quotidiano «Il Popolo» commentando la mozione uscita da quel «parlamentino» rosso che costituì un tentativo maldestro di scaricare precise responsabilità e di precostituire un alibi per il futuro.
I comunisti amano porre sotto gli occhi dell'opinione pubblica i precedenti che sarebbero all'origine, dei luttuosi fatti. E' bene sfatare subito questa leggenda.
Se è vero che vi era una vertenza in corso è altrettanto certo che la sera della domenica 8 gennaio questo pretesto per organizzare la nota manifestazione, che si diceva diretta ad impedire la riapertura delle Fonderie Riunite Orsi su decisione unilaterale del datore di lavoro al di fuori dell'organizzazione sindacale, era caduto. Infatti una Commissione investita d'autorità dalle parti interessate (su sollecitazione oltre a tutto dell'organizzazione sindacale comunista) era riuscita a compiere passi notevolissimi in ordine alla composizione della vertenza; in secondo luogo il datore di lavoro aveva rinviato la decisione di riaprire lo stabilimento e la C.d.L. oltre ad esserne stata informata, sapeva che nessun operaio era stato convocato in azienda per la mattina del lunedì. E' bene riepilogare questi precedenti perchè dimostrano come i comunisti non abbiano voluto rinunciare a quella dimostrazione di forza, organizzata per ben altri scopi, ma che si doveva giustificare presso le masse con un pretesto che fosse stato il meno politico possibile e quindi di ordine economico-sindacale.
E' chiaro che alla C.d.L., qualora le trattative fossero eventualmente fallite, rimaneva la possibilità piena di indire ogni e qualunque manifestazione di protesta e quindi anche quello sciopero generale che oltre a tutto pregiudicava lo sviluppo delle trattative in corso.
Le prove della premeditazione?
«Due date storiche per i lavoratori modenesi che cadono con cronometrica precisione esattamente alla distanza di dodici mesi: 9 gennaio 1949 - 9 gennaio 1950. La classe di avanguardia del movimento operaio non ha mai piegato
i1 capo di fronte a nessuno, e nemmeno lo piegherà. 9 gennaio 1949 - 9 gennaio 1950. Un anno di lotte indimenticabili, un anno di sacrifici memorabili...»
Questo riavvicinamento di date presentate con tanta insistenza campeggiava a caratteri cubitali sulla edizione straordinaria de «La voce del Lavoratore» organo della C.d.L. di Modena, si noti, stampata il 5 gennaio e distribuita domenica e lunedì mattina prima dei funesti incidenti. Il 9 gennaio 1949 si era tentata una spedizione, durante uno sciopero generale e la polizia era stata fatta segno ad un tentativo di sopraffazione tanto che aveva dovuto difendersi e ne erano sorti tafferugli con feriti più o meno gravi. Ora, se veramente pacifiche erano le intenzioni della C.d.L. per lunedì mattina, perchè l'organo della C.G.I.L. si sentiva autorizzato ad accostare le due date, anticipando l'annuncio di quegli avvenimenti che si dovevano poi lamentare con un esatto richiamo ad analoghi incidenti?
Da tempo si andavano preparando gli animi a questo scontro: lo slogan delle cellule era: «un vero comunista non ha paura della Celere». Uno slogan non nuovo.
C'è un episodio nelle cronache di questa terra modenese che dà la misura di dove giunga l'odio contro i rappresentanti della legge, i tutori dell'ordine. Mentre l'eco degli incidenti del 9 gennaio non si era ancora spenta, nell'aula della corte d'Assise di Modena, risuonava un grave verdetto: la Corte condannava i due esecutori materiali e i due istigatori della soppressione di un giovane agente della Celere.
L'agente Vittorio Candela — riconosce la sentenza — fu ucciso da Walter Castagnoli e Camillo Degani, due giovani poco più che adolescenti in odio all'appartenenza alla polizia. Li spinsero al crimine altri due coimputati Zilibotti e Ricco, i quali affermavano che era disdicevole per un comunista, che era una vergogna per un compagno contrarre amicizia con un agente della polizia e si giunse anche alla minaccia: «se non lo ucciderete, faremo fuori voi» ed ecco questi due ragazzi, Castagnoli e Degani, preparare il tragico disegno criminoso, portano l'agente Candela in un campo («gli volevamo bene, diranno, però...») e poi freddamente lo sopprimono («lui parlava, io, dice il Castagnoli, tirai fuori la rivoltella, gli puntai la canna alla tempia e sparai... Vittorio cadde subito»). Eccoli Castagnoli, Degani, Zilibotti e Ricco, che verranno poi condannati rispettivamente a 24, 23, 14 e 17 anni di reclusione, che in sede di interrogatorio ammettono la loro appartenenza a organizzazioni comuniste, poi in udienza, mentre sono titubanti nel riferire ogni particolare, nel rinnegare la loro fede politica, sono precisi energici ed insistenti senza accorgersi che in questo caso il delitto avrebbe perduto il movente che essi ancora ammettevano. E tanto questa loro affermazione si faceva insistente che il Presidente esclamava: «Tutti adesso vi vergognate di essere stati comunisti».
E la stessa atmosfera di odio in cui è maturato il delitto Candela è sorta l'idea di questa manifestazione di forza che è costata quei morti che oggi pesano tragicamente sulla coscienza dei sobillatori.
La mattina del 9 gennaio tutto era predisposto: l'ordine di convocazione stava facendo convergere sulla città lunghe colonne di dimostranti che avevano ricevuto l'ordine nelle riunioni pubbliche e private, attraverso i giornali, attraverso volantini a stampa diffusi nelle campagne. Dava i suoi frutti quella intensa azione di sobillazione delle masse, svolta in precedenza per eccitarle e spingerle, in un clima sempre più arroventato, ad assalire gli stabilimenti Orsi ed in particolare le Fonderie per occuparli, ricorrendo, in caso, anche alla violenza.
La Questura era informata di ciò che stava accadendo ed era stata anche informata che si prevedeva l'uso di ordigni esplosivi, armi, bastoni, corpi contundenti per conseguire, ad ogni costo, l'intento che si andava fomentando nelle masse, cioè il convincimento che soltanto un gesto di forza del genere avrebbe potuto risolvere la situazione a favore dei lavoratori.
Allo scopo di prevenire incidenti, la Questura di Modena si era sforzata di mantenersi in collegamento con la C.d.L. e la FIOM e, tenuto conto della ripresa delle trattative, aveva svolto azione di persuasione presso i dirigenti delle organizzazioni sindacali. In via subordinata la Questura chiedeva che lo sciopero dichiarato avesse avuto sfogo in un comizio facendo sì che le masse convocate avventatamente fossero guidate e controllate da elementi responsabili.
Questi elementi responsabili si resero però irreperibili per tutta la giornata del 7 e dell'8 e vennero rintracciati la sera di domenica, ma i successivi contatti con loro furono mantenuti con difficoltà, essendo evidente in essi il deliberato proposito di sottrarsi a qualsiasi impegno preciso, in vista dell'azione illegale predisposta. E' da notarsi che le autorità di polizia non riuscirono ad avere un colloquio con il Segretario provinciale della C.d.L. che, nonostante la gravità della situazione, si rese e si mantenne irreperibile.
Come spiegare senza pensare ad una vasta premeditazione la confluenza di 8.000 lavoratori soltanto davanti alle Fonderie Riunite? e la presenza in città di altri 12.000 dimostranti? Non si partecipa ad un comizio armati di bombe a mano, di mazze di ferro, di randelli!!!
Dopo gli incidenti la polizia in una ispezione effettuata alla presenza del Procuratore della Repubblica, reperiva nella zona bombe a mano, mazze ferrate, bossoli di proiettili non in dotazione alle forze dell'ordine, ben 166 grossi bulloni lunghi 15 cm. e del peso di mezzo chilo ciascuno e numeroso altro materiale, mentre solo ad una colonna di dimostranti venivano sequestrati oltre due quintali di randelli.
Lo sciopero, per la prima volta nelle cronache modenesi, anzichè iniziare alle 6 del mattino, era stato ordinato per le ore 10: è evidente che gli organizzatori volevano avere sotto mano tutte le maestranze, senza nessuna assenza, in modo da poterle inquadrare e portarle così sul luogo di manovra.
A questo proposito abbiamo una testimonianza che non è certo sospetta: ci è data da uno degli stessi dimostranti, addirittura da uno di quelli che i comunisti chiamano «vittima di un tentato assassinio premeditato». Gino Morandi rimasto ferito durante gli scontri ha dichiarato:
«Alle 10, dai componenti della commissione interna, noi tutti operai delle Carrozzerie Orlandi ricevemmo l'ordine di sospendere il lavoro e portarci uniti nei pressi delle Fonderie Orsi ove avremmo trovati tutti gli altri dimostranti, siccome era stato proclamato lo sciopero generale. Ci fu pure detto che sul posto avremmo trovato scioperanti giunti da altri comuni della provincia. Il nostro gruppo era capeggiato da tre o quattro elementi. Non posso dire quali ordini precisi avessero avuti questi tre o quattro elementi che capeggiavano il nostro gruppo: io so soltanto che noi dovevamo sostare in via P. Ferrari per fronteggiare lo stabilimento e con noi erano operai di altre fabbriche.
Ero davanti al gruppo dei dimostranti delle Carrozzerie Orlandi quando, ad un tratto, udii provenire dalla massa che si trovava in viale C. Menotti grida di incitamento a prendere d'assalto la fabbrica. Notai così un ondeggiare di massa in direzione dello stabilimento per cui gli agenti della forza pubblica che lo presidiavano, evidentemente per disperdere i dimostranti che erano già diventati pericolosi, incominciarono a fare uso di artifici lacrimogeni...»
E Giovanni Giugni operaio della FIAT Grandi Motori pure rimasto ferito durante gli incidenti, dichiara:
«Per le ore 9 la FIOM aveva dato ordine di sciopero dalle ore 10. Alle ore 10 dopo aver letto un avviso nella bacheca dei sindacati che ordinava di uscire e di recarsi a protestare alle Fonderie Orsi, in massa ci siamo avviati per via Emilia, via C. Menotti ed abbiamo raggiunto lo stabilimento. Questo ordine era stato affisso dalle prime ore del mattino...»
Ma il documento più impressionante è il seguente:
«Io sottoscritto Baldi Mario di Benedello di Pavullo dichiaro di essere stato avvicinato verso le ore 16 del giorno 6 gennaio 1950 a Benedello di Pavullo dal capolega Valmori Gaetano, il quale mi faceva presente che tutti i compagni della lega avevano fatto un'offerta, poichè il lunedì successivo, mi disse, ci sarebbe stata l'occupazione delle Fonderia Orsi e che certamente sarebbe intervenuta la polizia e ci sarebbe stato da lottare. Chiedeva anche a me il contributo di una piccola offerta per le famiglie degli eventuali caduti. Questo dichiaro di mia spontanea iniziativa aggiungendo che il Valmori disse che occorrevano i soldi anche perchè lunedì egli avrebbe fatto un telegramma di protesta al Prefetto».
F.to Mario Baldi
Il reclutamento di dimostranti da tutte le zone della provincia ed anche dalle provincie limitrofe, è documentato. E preordinata era anche la tattica dei dimostranti: le prime file delle colonne, quando venivano a contatto con la forza pubblica, alzavano le mani in atto di resa, ma la folla dei dimostranti che si accalcava dietro, iniziava subito una fitta sassaiola: si noti che vari spostamenti e gli ordini di attacco venivano impartiti da capi gruppo muniti di fischietto. Se gli agenti avessero reagito, i fotografi della C.d.L., come rilevava un collega di un giornale torinese, avrebbero scattato le loro macchine fotografiche e così in tutta Italia si sarebbero visti i lavoratori colpiti dalla feroce polizia.
E va aggiunto — e la precisazione è molto importante — che sino a quando la situazione non divenne minacciosa, anzi sino a che la polizia non ebbe le prime vittime, alle Fonderie non era stato predisposto nessun intervento eccezionale delle forze dell'ordine, ma vi si trovava il presidio di agenti che da un mese era mantenuto sul luogo per ragioni di ordine pubblico. Guardie e carabinieri vennero dunque aggrediti nei propri posti di servizio.
Quella sorta di sospetta profezia apparsa il 5 gennaio sull'organo della C.d.L. va affiancata all'edizione del settimanale locale della federazione comunista nella quale campeggiava perfino la fotografia di quello che doveva poi essere l'obiettivo diretto della manifestazione: le Fonderie Riunite.