La convenzione Comune-Orlandini

Disordine degli Atti

    La ponderosa pratica, che per brevità abbiamo convenuto di indicare col binomio Comune-Orlandini, è come un voluminoso libro al quale sono state strappate delle pagine, forse molte pagine; la differenza sta soltanto in questo: che, mentre nel caso di un libro è facile accertare quali e quante pagine siano mancanti, non altrettanto agevole risulta il compito di chi si voglia accingere a ricostruire questa pratica. Aggiungerò che la scoperta del famoso verbale redatto in data evidentemente diversa da quella reale, dimostra che nella pratica possono venire inseriti opportunamente, e in qualunque tempo, atti nuovi o diversi da quelli esistenti e magari smarriti, per cui si deve procedere con molta cautela e difficoltà, accontentandosi di repertare documenti sulla cui autenticità non si può certo giurare, trattandosi spesso di atti slegati, senza alcuna numerazione o indicazione di protocollo e con firme talvolta illeggibili.
    Pertanto la mia indagine non può dirsi completa, anche perché ho di proposito trascurato di accertare eventuali responsabilità dei singoli, ciò che spero sia fatto da un'Autorità superiore, soprattutto per salvaguardare il buon nome di impiegati e funzionari del Comune, su cui potrebbe gravare ingiustamente l'ombra del dubbio.
    Come ho detto al principio, il problema Comune-Orlandini risale a mio avviso al 1889, e pertanto sono convinto dell'esistenza di documenti molto vecchi inerenti al problema stesso. Ma arduo compito ricercarli! Ho dovuto pertanto trascurare il più lontano passato iniziando le mie indagini dall'esame della convenzione Comune-Orlandini del 21 dicembre 1936.
    Debbo innanzitutto rivendicare la priorità di tutte le numerose osservazioni di cui è stata oggetto questa convenzione. Ciò non dico per vanagloria, ma semplicemente perché taluno possa condividere la mia grande meraviglia nel constatare che fra tanti esperti di legge nessuno abbia osservato prima di me ciò che ho messo in rilievo io, e che appare molto evidente.

1ª Osservazione: Sulla rinuncia all'esproprio

    L'osservazione più importante perché non si presta ad alcun equivoco, risulta fondata nella legge 25 giugno 1865 n. 2359 riguardante le espropriazioni per causa di pubblica utilità, il cui art. 22, modificato dall'ari. 34 del R.D. 8 febbraio 1923 n. 422, così sancisce:
    «L'espropriante può rinunciare all'espropriazione delle zone attigue quando i proprietari si obblighino a dare essi alle zone stesse la prevista nuova sistemazione e presentino sufficienti garanzie per l'esecuzione delle opere relative. Tale rinuncia, che dovrà essere approvata dall'Autorità che ha emessa la dichiarazione di pubblica utilità, libera l'espropriante dagli oneri derivanti da questa circa le zone anzidette».
    Non v'ha dubbio quindi che la convenzione non poteva impegnare il Comune, a rinunciare all'esproprio, neppure delle aree attigue a quelle destinate all'opera di pubblica utilità, senza la preventiva autorizzazione dell'Autorità che emise la dichiarazione di pubblica utilità. E poiché tale dichiarazione di pubblica utilità è contenuta nella legge 11 aprile 1889 n. 6020 che approva il Piano regolatore della città di Bologna, la rinuncia all'esproprio Orlandini doveva essere approvata dall'Autorità che ordinò tale legge, cioè dal Capo dello Stato. Ora, non risulta dagli atti che tale approvazione abbia avuto luogo; si può pensare che sia stata chiesta e respinta, o neppure chiesta, non intendendo il Comune troncare il procedimento espropriativo, ma soltanto anticipare con un accordo amichevole il pieno possesso degli immobili. Comunque l'approvazione non c'è, e pertanto la convenzione non vale quale rinuncia del Comune all'esproprio. Una conferma che la convenzione per impegnare il Comune in tutte le sue clausole doveva essere approvata dagli organi superiori dello Stato, la troviamo al patto n. 11 della convenzione, dove si legge: «Questo compromesso — mentre è, fino da oggi impegnativo per il Cav. Giovanni Orlandini — diverrà invece tale, per il Comune, solo dopo intervenute tutte le approvazioni e sanzioni superiori, compreso il visto prefettizio di esecutorietà sul contratto». Ho ricercato «tutte le approvazioni e sanzioni superiori, compreso il visto prefettizio di esecutorietà» e, mentre ho trovato questo, non mi è risultata altra superiore approvazione all'infuori di quella podestarile, cioè del podestà stesso che firmò la convenzione. Ciò evidentemente non può rappresentare «tutte le approvazioni e sanzioni superiori» che il detto patto 11 della convenzione prescrive per rendere impegnativa pel Comune la convenzione stessa. Pertanto il Comune non era obbligato al rispetto di quelle clausole contrattuali, per la cui validità la legge prescrive approvazioni superiori al visto prefettizio, anzi non poteva nò doveva rispettarle, non potendo comportarsi contro legge.
    Cos'hanno fatto invece gli Uffici comunali e infine la Giunta comunale fra il 1949 e il 1950? Hanno riconsegnata in due tempi agli espropriati gli interi immobili, ivi compreso, si noti, anche il terreno che doveva servire all'opera pubblica, cioè quell'area di 250 mq. circa che doveva divenire suolo pubblico. Hanno riconsegnata anche quell'area che per nessuna ragione poteva essere sottratta all'esproprio, neppure col rispetto dell'art. 34 succitato. A nulla vale affermare che, di fatto, parte di quell'area era già stata immessa in sede stradale fin dal 1937; a nulla serve ricordare che nel verbale gemello di quello incriminato di falso è detto che fu riconsegnata tutta l'area meno quella da immettersi in sede stradale. Ripeto, anche tale area fu restituita, il titolo di proprietà degli Orlandini su quell'area non fu mutato, prova ne sia che essi, il giorno appresso la delibera di riconsegna integrale dell'area, poterono rivenderla tutta ad una Società di cui dirò in appresso: e fu da questa Società che il Comune dovette acquistare quei 250 mq. di area da immettersi in sede stradale, pagandola quasi allo stesso prezzo che gli Orlandini avevano realizzato dalla Società acquirente, prezzo ben lontano da quello di un esproprio attuale e assolutamente senza confronto col prezzo fissato nell'esproprio del 1935.
    Incidentalmente, giova ricordare inoltre che il Comune consegnò agli Orlandini anche una striscia di suolo pubblico, non contemplata neppure nella convenzione.
    Ritornando alla violazione dell'art. 34 della legge dianzi citata, dirò come questa gravissima mancanza sia da considerarsi Come illegalità sufficiente da sola a far revocare tutti i provvedimenti emanati dall'Amministrazione comunale in merito al rapporto Comune-Orlandini. Su questo punto, la Commissione ha chiesto un parere dell'Ufficio Legale del Comune.
    Ma, dei pareri dell'Ufficio Legale, riferirò più avanti.

2ª Osservazione: La convenzione ignora il vincolo ministeriale

    Continuando nell'esame della convenzione ho fatto un secondo rilievo, ed è questo: in quel contratto non vi è nessun accenno al viticolo ministeriale esistente fin dal 1915 sulla casa di via S. Felice 3 -Lame 4, dichiarata monumento nazionale, che il Comune, in base alla convenzione si impegnava di demolire, riconsegnando eventualmente all'Orlandini l'area libera e sgombera di materiali in un breve termine di tempo stabilito. Come poteva il Comune impegnarsi a demolire un Monumento nazionale legittimamente vincolato? Chi dava al Comune la certezza che il vincolo sarebbe stato tolto dal Ministero e tanto alla svelta da consentire al Comune stesso di prevedere la demolizione di quel fabbricato entro cinque mesi dalla consegna che ne avrebbe fatto l'Orlandini? (Ho letto questa previsione nel contratto d'affitto richiamato nella convenzione e stipulato il 23 dicembre 1936 fra il Comune e l'Orlandini). Stranissimo che nessun accenno al vincolo, nessuna riserva in proposito appaiano dalle clausole della convenzione. Eppure un contratto che, con le legittime superiori approvazioni, avrebbe potuto costituire anche un compromesso di compravendita, non poteva ignorare un privilegio di quella sorta, gravante su un immobile che si pretendeva di demolire. A mio avviso è evidente che il Podestà, quando stipulò il compromesso, ignorava che uno dei fabbricati era intangibile quale monumento nazionale e c'è da chiedersi come mai l'Orlandini non dichiarò l'esistenza del vincolo che a lui — proprietario — era certamente nota. E in base alla constatazione di una così grave mancanza, può ritenersi che il contratto sia stato stipulato coi requisiti fondamentali che la legge esige? La Giunta e il Sindaco in questa vicenda hanno sempre espresso le loro preoccupazioni per pretese inadempienze del Comune; è mancata questa osservazione elementare sul comportamento della parte avversaria.
    Debbo ricordare che, quando per la prima volta chiesi, in Consiglio, perché la demolizione di quei fabbricati fu a un certo momento sospesa, mi fu testualmente risposto: «Lo saprà la Giunta di allora!».
    Ciò mi fece pensare che il Sindaco volesse scindere la responsabilità propria e dell'attuale amministrazione da quelle della passata amministrazione podestarile e m'attendevo una netta presa di posizione del Sindaco e della Giunta in difesa dell'Amministrazione democratica.
    Ma non fu così.
    Tornando alle cause della mancata demolizione degli immobili Orlandini, cause che io volevo insistentemente conoscere, ricorderò che alla fine si disse che i lavori di demolizione erano stati interrotti per la guerra. Ciò non è vero! Nel contratto d'affitto fra Orlandini e il Comune, richiamato nella convenzione e che ho ricordato dianzi, si legge che era prevista la demolizione del primo fabbricato entro il 31 marzo 1937 e per il secondo, che l'Orlandini avrebbe consegnato l'8 maggio 1937, la demolizione era prevista entro il 30 settembre 1937.
    La prima demolizione fu ultimata regolarmente, mentre la seconda non ebbe più luogo. Come mai, quando era stata prevista, ripeto, per il 30 settembre 1937? Facile dimostrare: 1) che tale previsione non sarebbe stata possibile se il Comune fosse stato a conoscenza del vincolo, in quanto non si poteva prevedere se e quando il vincolo sarebbe stato tolto dal Ministero, tanto più che, a quell'epoca, nessuna domanda in proposito era stata avanzata né dall'Orlandini, né dal Comune; 2) che la sospensione della demolizione dello stabile S. Felice n. 3 - Lame n. 4 fu dovuta esclusivamente all'esistenza del vincolo ministeriale, taciuta nella convenzione e nell'annesso contratto d'affitto, vincolo di cui il Comune dovette evidentemente tener conto soltanto più tardi, quando stava per accingersi a demolire il fabbricato. Se la pratica non avesse subito le già denunciate manomissioni, troveremmo ciò documentato in qualche lettera, relazione, o altro, perché è inconcepibile che la constatazione di un fatto così preminente sia passata sotto silenzio. Io ho trovato, fuori degli uffici comunali, che il Comune chiese al Ministero dell'Educazione Nazionale l'autorizzazione a demolire il fabbricato vincolato, soltanto allorché, ricevuto in consegna l'immobile l'8 maggio 1937, si apprestava a demolirlo. Ho trovato pure la lettera del Ministero dell’Educazione Nazionale in data 9 luglio 1940 n. 4594 Div. III dove si autorizza la demolizione di quel fabbricato: nel 1940, cioè a distanza di quasi quattro anni dalla data della convenzione, mentre il Comune prevedeva di ultimare la demolizione entro il 30 settembre 1937, cioè tre anni prima, e su ciò aveva evidentemente calcolato al momento di stipulare la convenzione. Tutto ciò non è stato visto e non è stato discusso.
    È invece da esaminarsi perché la convenzione non parla del vincolo, come dovrebbe; e perché conseguentemente la demolizione che obbligatoriamente doveva farsi, non fu fatta. Qualcuno, mi sembra, abbia detto anche che fu sospesa la demolizione in attesa che fosse definito il piano per la zona: neppure questa versione è vera, perché nella convenzione è detto chiaramente che i fabbricati sarebbero stati demoliti per far posto al nuovo palazzo che doveva sorgere e all'allargamento della strada. Quindi, qualunque fosse stato il piano definitivo, i fabbricati dovevano essere ugualmente demoliti: questo era l'intento del Comune, che aveva tutto l'interesse e la volontà di far presto, come aveva dimostrato con la demolizione del primo stabile e la previsione del breve termine per la demolizione dell'altro fabbricato.

3ª Osservazione: Il termine 18 mesi

    Ammettiamo per un momento che il Comune avesse chiesto e ottenuto dal Governo di poter rinunciare all’esproprio, il che non è: sarebbero entrate in vigore le clausole che prevedevano o la compra-vendita di tutta l'area oppure la riconsegna all'Orlandini dell'area stessa con o senza eventuale reintegrazione.
    L'area doveva ritornare all'Orlandini in due casi: 1°) se, dopo la definizione urbanistica della zona, fossero rimasti disponibili per la riedificazione almeno 900 mq., 2°) se, rimanendo disponibili meno di 900 mq., il Comune avesse potuto aggregare all'insufficiente residuo altre aree limitrofe entro il termine di 18 mesi dalla data della convenzione, cioè entro il 21 giugno 1938.
    Cercando di interpretare il contratto come vuole la legge, cioè, non limitandosi al senso letterale della parola, ma indagando quale sia stata la comune intenzione delle parti, può dimostrarsi che il termine di 18 mesi fissato per il secondo caso, deve intendersi, a maggior ragione, valido anche per il primo caso.
    Infatti il limite di tempo massimo fu logicamente indicato per quello, fra i casi previsti, che comportava le maggiori difficoltà ed il maggior perditempo. Nel primo caso invece, si ritenne evidentemente superflua l'indicazione di un termine, perché in quel momento si riteneva certa la definizione urbanistica della zona con l'esito del concorso che sarebbe stato noto perentoriamente nel marzo 1937, cioè entro tre mesi dalla data della convenzione, la quale appunto dice: «Considerando che, secondo le risultanze di un concorso bandito per un piano di sistemazione edilizia dell'intera zona di cui sopra è cenno, potrà verificarsi una delle seguenti ipotesi» omissis. E salta fuori il termine, che non fu esplicitamente dichiarato nella prima ipotesi (quella che restassero disponibili almeno 900 mq.), ma che va sottinteso: cioè, quel termine mancante nella previsione del primo caso, è logicamente la data in cui si sarebbero conosciute le risultanze del concorso. Non fu previsto, evidentemente, che dal concorso non sarebbe sortito un vincitore assoluto: infatti, furono tre i progetti classificati più meritevoli: «Felsina 1937» - «K. 12» - «Porta Stiera 6», ma nessuno dei tre progetti fu giudicato interamente realizzabile. Si noti, peraltro, che tutti e tre, attenendosi alle direttive del concorso, prevedevano l’allargamento delle vie S. Felice e Lame, lasciando della proprietà Orlandini un'area riedificabile di gran lunga inferiore ai 900 mq.. Ma ciò, dico soltanto per contestare l'affermazione di coloro che hanno elencato studi e progetti relativi alla zona concludendo che tutti meno uno (imprecisato) lasciavano all'Orlandini un'area riedificabile superiore ai 900 mq. Quindi dall'esito del concorso non poté sortire la definizione della zona e tale definizione si è trascinata, come abbiamo visto, fino ai giorni nostri; per cui si è reso necessario indagare sulle intenzioni dei contraenti impegnati nella convenzione per accertare se essi erano o no disposti ad attendere indefinitamente il verificarsi di una delle ipotesi previste. A mio avviso può rispondersi con certezza che l'intenzione dei contraenti fu di porre un termine. Vi fu, come ho detto, un'omissione di precisazione, una lacuna nella lettera della convenzione; ma la legge prevede eventuali deficienze nella lettera di un contratto e per questo detta che «Le clausole contrattuali si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto». Ora, nel fissare il termine massimo di 18 mesi per il caso che, restando meno di 900 mq., il Comune avesse dovuto provvedere alla reintegrazione dell’area con l’espropriazione di aree limitrofe, cosa si è inteso pattuire? Si è inteso pattuire che l'eventuale disponibilità dell'area da riedificare doveva aversi entro e non oltre 18 mesi. Questa è la chiara, inequivocabile volontà delle parti: entro e non oltre i 18 mesi il Comune doveva mettere a disposizione dell'Orlandini un'area riedificabile di almeno 900 mq., libera e sgombera di materiali, diversamente Orlandini era obbligato a vendere ed il Comune ad acquistare il tutto. Non si può negare questa evidente intenzione dei contraenti. Il limite di tempo indicato deve assumere un significato logico e non va ristretto ad una sola delle clausole contrattuali, perché in tal caso si cadrebbe nell'assurdo: si dovrebbe ammettere cioè che vi è diversità sostanziale fra un’area rifabbricabile di 900 mq. posta in angolo fra via S. Felice e via Lame già tutta di proprietà Orlandini e la stessa area, ma già di proprietà in parte di Orlandini e in parte di altri confinanti. Come non riconoscere l'identità dei due valori sopra espressi?
    Concludo riaffermando che, anche nella prima ipotesi prevista dalla convenzione, l'area riedificabile doveva essere resa disponibile, previa demolizione dei vecchi stabili e sgombra dei materiali, entro il 21 giugno 1938. Ciò non fu possibile, per cui la convenzione, data per ipotesi che la rinuncia all’esproprio fosse valida, si sarebbe risolta allora nella compra-vendita totale. Gli effetti attivi e passivi, come si desume dalla convenzione stessa, avrebbero avuto decorrenza dal termine delle demolizioni, continuando nel frattempo il Comune a corrispondere all'Orlandini il canone pattuito con l'apposito contratto d'affitto.

4ª Osservazione: Il prezzo dell’area

    Si è detto che, ammesso che si fosse maturata la compra-vendita dopo i 18 mesi, il Comune non avrebbe oggi potuto pagare l'area in ragione delle 750 lire al mq. allora convenute, ma avrebbe dovuto pagarla al prezzo attuale, trattandosi di un debito di valore e non già di un debito di valuta. Questo criterio è stato seguito dalla Giunta anche quando si è trattato di pagare quei 250 mq. di area immessa in sede stradale, per cui abbiamo visto che le 750 lire sono state rivalutate a ben L. 18.000 circa. Confesso la mia perplessità quando si cominciò a trattare del problema valore e valuta, sopravvenuta onerosità del contratto, ecc. Non era certo la mia materia, pure, non rimasi convinto dai miei contraddittori e volli approfondire le mie modeste cognizioni. Trovai così una sentenza del Tribunale Superiore delle acque pubbliche in data 3 agosto 1951, la quale sancisce che «Il credito dell’indennità dovuta all’espropriato è un credito di valuta che non è soggetto a variazione per il mutamento del potere di acquisto della moneta».
    Lo dissi in Commissione ed è riportato in una mia relazione, ma non ottenni che una riconferma che il criterio adottato dalla Giunta era giusto: si doveva cioè rivalutare il prezzo.
    Di fronte ad una tale decisa convinzione della maggioranza, confortata dal solito parere dell'Ufficio Legale del Comune, mi sono chiesto come mai, quando si è trattato per il Comune di introitare, anziché dover pagare, il prezzo di aree cedute in passato a privati, senza averne ancora riscosso il prezzo, non abbia il Comune sollevata la questione della sopravvenuta onerosità del contratto ed il problema del credito di valore. Intendo riferirmi, in particolare, alla nuova convenzione S.A.C.E.B. deliberata dal Consiglio, con la mia astensione e di altri consiglieri, nella seduta del 3 luglio 1950.
    In detta convenzione sono fra l'altro precisati alcuni lotti importanti (I e V di Via Marconi e VI di Via Ugo Bassi) ceduti dal Comune alla Saceb nel 1942 mediante il versamento di un acconto e non ancora pagati al momento della delibera 3 luglio 1950. Trattasi di migliaia di metri quadrati di area, che il Comune pagò con lire non svalutate quando espropriò la zona, e che gli vennero rimborsate dalla Saceb, quasi completamente, nel 1950, quando una lira rappresentava poco più di un centesimo della lira anteguerra! Ma nessuno di coloro che hanno giustificata la rivalutazione nel caso di quei 250 mq. di area ex Orlandini che il Comune doveva pagare e che poteva anche scomputare se avesse imposto il contributo di miglioria, nessuno di essi, ripeto, si è sentito in dovere di chiedere la rivalutazione anche nel secondo caso, quello Saceb, dove erano dei privati a dover pagare e dove il Comune perdeva somme enormi forse dell'ordine di centinaia di milioni. Davanti a questi confronti, davanti alle evidenti contraddizioni nell'interpretare le stesse leggi, come non rimanere perplessi e dubbiosi?
    Ma, a parte la convenzione Saceb che ho citato incidentalmente e per la quale ci sarebbe molto da dire, ritorniamo alla sentenza da me citata: «Il credito dell'indennità di esproprio è credito di valuta». Si è detto che il credito degli aventi causa Orlandini non è credito per indennità di esproprio: perché all'esproprio è stata sostituita la convenzione che rappresenta una cessione spontanea, una trattativa privata, un volontario compromesso di compra-vendita. Errore, perché all'esproprio dell'area destinata all'opera pubblica, cioè a quei 250 mq. incorporati in sede stradale, il Comune non avrebbe mai potuto rinunciare; mentre avrebbe potuto rinunciare all'area adiacente soltanto con la superiore approvazione già detta, ma questa mancò. E ove, proprio per assurdo, fosse vero quanto sostiene la relazione di maggioranza, che la Convenzione Comune-Orlandini del 1936 rappresenti una valida rinunzia all'esproprio, questa rinunzia è a sua volta resa nulla dalla conferma dell'esproprio avvenuta secondo legge con l'approvazione interministeriale del Piano di risanamento in data 17 ottobre 1940. Tale approvazione ha inoltre sancito un secondo esproprio. Come si può pretendere che una convenzione privata del 1936 possa annullare un disposto di legge del 1940?
    Deve quindi considerarsi la convenzione valida soltanto quale accordo transativo per stabilire amichevolmente l'indennità di esproprio e, come tale, il prezzo convenuto deve intendersi indennità di esproprio concordata ed accettata per tutte le aree che sarebbero state trasferite al Comune. L'espropriato acquisiva fin d'allora il diritto ad un credito per indennità di esproprio; non era indicato il credito totale, bensì vi era l'unità di misura per calcolarlo quando fosse stata accertata l'area da trasferirsi al Comune. Cioè, il credito dell'indennità di esproprio era da quel momento di lire 750 per ogni mq. di area e tale doveva rimanere. Ma, anche ammesso e non concesso che l'area dovesse venir pagata dal Comune al prezzo attuale come vogliono i difensori, tale prezzo doveva almeno essere prezzo di esproprio e non prezzo di affezione: il Comune pagò infatti l'area immessa in sede stradale ben 18.000 lire al mq. circa altrettanto cioè del prezzo realizzato da Orlandini nella vendita di tutta l'area alla Simpa. Non vale giustificare l'alto prezzo pagato dal Comune agli aventi causa Orlandini col fatto che la Simpa abbia contemporaneamente pagato 111 mq. di suolo pubblico in ragione di lire 40.000 circa al mq. Ben altro poteva pretendere il Comune, specialmente il diritto al contributo di miglioria concessogli dalla legge, e che sarebbe stato giusto far valere nei confronti di chi già tanti vantaggi aveva avuto dal Comune.

5ª Osservazione: La definizione urbanistica della zona

    Sempre volendo ammettere per assurda ipotesi, che la convenzione potesse rappresentare una valida rinuncia all'esproprio da parte del Comune, rimane da vedere in base a quale legittimo provvedimento gli Uffici comunali ritennero, nel 1949, che si fosse verificata la condizione che obbligava il Comune a restituire tutti gli immobili agli Orlandini a norma della convenzione.
    La definizione urbanistica della zona d'incontro delle vie S. Felice e Lame non venne, come era stato previsto nella convenzione, dall'esito del concorso bandito nel 1936. E allora, come e quando fu stabilito che si era verificata la prima ipotesi, quella cioè che lasciava disponibili per la riedificazione più di 900 mq. dell'area Orlandini? La Giunta e il Sindaco hanno dato su questo punto varie risposte, indicando in un primo tempo, e per lungo tempo, come definitivo il piano particolareggiato con varianti deliberato nel 1941 e «confermato» nel piano di ricostruzione 1946; poi citando studi, concorsi, progetti ecc. e infine accennando di sfuggita al piano di risanamento 1938-40. Ma in definitiva, la mia insistente domanda diretta a conoscere in quale preciso momento e in forza di quale legittimo provvedimento fu determinata la zona in questione, è rimasta insoddisfatta. Perché? Perché la definizione della zona è avvenuta arbitrariamente, in violazione dell'ultimo piano legittimo quale è il Piano di risanamento 1938 approvato con decreto interministeriale 17 ottobre 1940. L'esistenza di questo piano è rimasta per molto tempo ignorata. Se ne ebbe la prima notizia in un riferimento del Segretario Generale del 20 dicembre 1952 e la Commissione, nella sua prima edizione della relazione di maggioranza, affermò finalmente che il piano definitivo era quello di risanamento. Sappiamo che in precedenza era stato indicato come definitivo il piano invalido del 1941 e che la sistemazione ora adottata violava il Piano di risanamento. Comunque la maggioranza della Commissione ritirò silenziosamente l’ultima ammissione, pur lasciandone traccia in un periodo della relazione finale che rende bene evidente la fatica impiegata dai redattori della relazione stessa nello studio della forma e nella scelta delle parole più opportune. Leggo testualmente dalla prima edizione della relazione di maggioranza:
    «Da questa serie di provvedimenti amministrativi che si sviluppa a lungo nel tempo la Commissione è in grado di affermare che col Piano regolatore del 1889 quelle aree hanno avuto una prima determinazione di massima che ha servito di base a tutti i successivi progetti i quali ad esso hanno dovuto uniformarsi.
    «Ma la loro definitiva sistemazione è avvenuta col decreto interministeriale 17 ottobre 1940 che approva e rende esecutivo il Piano di Risanamento podestarile del 1° ottobre 1938».

    Questo ultimo periodo, nell'edizione finale, è stato così modificato:
    «Ma, comunque si può ritenere che gli Orlandini — in caso di vertenza — avrebbero potuto sostenere che era da considerarsi provvedimento definitivo, a termini di contratto, circa la fisionomia urbanistica della zona, il decreto interministeriale 17 ottobre 1940 che approva e rende esecutivo il Piano di risanamento podestarile 1° ottobre 1938».
    In questo modo la maggioranza della Commissione non ha ammesso che la risoluzione data al problema Comune-Orlandini è illegittima e invalida. Se poi consideriamo la data in cui dal documento incriminato di falso risulterebbe consegnata la prima porzione dell'area, restiamo maggiormente perplessi, perché, se la definizione della zona fosse avvenuta nel 1941, come sempre sostenne il Comune, non si capisce perché si sia atteso fino al 1949 per restituire almeno l'area libera; mentre se il Comune vuol sostenere di aver ritenuto legittimamente definitivo per la zona il progetto fatto approvare da ultimo dal Ministero della Pubblica Istruzione, perché consegnò l'area oltre un anno prima di tale approvazione che avvenne il 27 luglio 1950?
    Ho cosi concluso l'esame della convenzione, esame che non avevano certamente fatto con pari completezza di analisi né gli Uffici né la Giunta Comunale allorché credettero di effettuare e deliberare la riconsegna senza chiedere un parere all'Ufficio Legale.

Come fu dal Comune attuata la convenzione

    Gli Uffici, la Giunta e il Sindaco sono unanimi nel dichiarare che la convenzione era un contratto valido e operante, che il Comune doveva rispettare; e dichiarano di averlo rispettato, senza peraltro voler riconoscere che, a un certo punto, le clausole contrattuali furono messe da parte e si diede atto ad un nuovo accordo più che altro verbale e amichevole con rappresentanti dell’altro contraente.
    Non si sa con precisione quando e per ordine di chi fu riconsegnata agli Orlandini una prima parte degli immobili oggetto della convenzione. Nel verbale incriminato di falso è detto che la riconsegna parziale avvenne il 21 giugno 1949 ad opera di un funzionario comunale, che dichiarò di agire per conto del Comune di Bologna.
    Ma chi aveva impartito al funzionario suddetto l'ordine di riconsegnare? Si sarebbe indotti a credere che lo stesso abbia agito di propria iniziativa, attribuendosi la competenza del Consiglio Comunale e della Giunta Provinciale Amministrativa riuniti, poiché trattavasi di dare esecuzione ad un accordo transativo di valore eccedente le lire un milione o comunque di valore indeterminato, per cui la necessaria delibera del Consiglio doveva essere sottoposta per l'approvazione alla G.P.A. (art. 99 della Legge Comunale e Provinciale). In difesa della illegalità, si sostiene che si trattava di esecuzione pura e semplice della convenzione, quindi oggetto di ordinaria amministrazione. Ma chi può crederlo, quando è dimostrato e dichiarato anche negli stessi atti che almeno talune clausole della convenzione furono consensualmente annullate e se ne stabilirono delle nuove? È inutile che il Sindaco ci venga a dire di avere, coi nuovi accordi procurato al Comune un vantaggio di dieci milioni: anche in questo caso, che è da dimostrarsi, la competenza a deliberare era del Consiglio e l'approvazione spettava alla G.P.A..
    Perciò quel funzionario che riconsegnò parzialmente gli immobili Orlandini commise un gravissimo atto e la sua azione era priva di effetto giuridico. Lo stesso dicasi in merito alla delibera 28 marzo 1950, con cui la Giunta Comunale disponeva la restituzione agli Orlandini di tutta l'ex proprietà. Con tale delibera si annullò completamente la convenzione, perché fu riconsegnata agli Orlandini pure quella piccola area già immessa in sede stradale fin dal 1937, area che non poteva in nessun modo sottrarsi a quell'esproprio che originò la convenzione.
    Va rilevato inoltre che l'arbitraria delibera di Giunta attesta essere stata «definita la sistemazione stradale e urbanistica da effettuarsi in luogo» ma si astiene dall'indicare il piano cui si è uniformata la definitiva sistemazione.
    L'atto della Giunta Comunale è comunque esso pure privo di effetti giuridici per difetto di competenza, anche se si afferma che la delibera, sfuggita al vaglio dell'Autorità tutoria, divenne esecutiva per decorso di termine.
    Tutto il procedimento della pretesa esecuzione della convenzione e della riconsegna degli immobili è pertanto giuridicamente inesistente; è quindi nullo. Né può dirsi che la posizione della Giunta sia migliorata con la tardiva comparsa in atti del verbale 20 aprile 1950 di riconsegna integrale: in quanto, se pure questo secondo verbale chiarisce che l'area da immettere in sede stradale non è stata riconsegnata, rimane che, in forza della delibera, gli Orlandini hanno potuto rivendere anche la strada e il Comune l'ha dovuta poi acquistare dalla nuova proprietaria Soc. Simpa. Così è stata attuata la convenzione Comune-Orlandini.
    Le migliorie ottenute, secondo il Sindaco e la Giunta, consisterebbero nell'essersi la Simpa assunto l'onere di sistemare le 22 famiglie e i vari negozianti che occupavano lo stabile riconsegnato. Vice-versa, la Simpa sistemò, con metodi energici, coloro che in qualche modo potevano pagare un nuovo affitto o acquistare un negozio, mentre ai più poveri pensò generosamente il Comune, offrendo loro, a scelta, i portici della Certosa o la tana sotto il Cavaticcio di via Marconi.
    Mi son chiesto ripetutamente perché, il Comune sia voluto entrare in un'azione simile nell'assumersi di «sistemare» le famiglie più povere, fra cui quella numerosa d'un compagno, quando la Simpa doveva essa provvedervi. Mistero! Mi son chiesto ancora come mai nel riferimento dato dall'Ufficio Economato il 21-23 dicembre 1950 circa la sistemazione delle famiglie e dei negozianti che occupavano gli immobili Orlandini al momento della riconsegna, non figuri quella occupante che è citata nel verbale «fasullo».