In quel momento entrò un poliziotto che, dopo aver scambiate alcune parole in segreto con il carcerato che mi aveva rivolto la parola, se ne usci. Poco dopo, cinque o sei poliziotti armati mi conducono in una stanza dove un ufficiale mi disse: «Da oggi ti è stata tolta ogni libertà, di cui ti sei reso indegno con i tuoi delitti. Sappi che in carcere c’è una disciplina e guai a te se non la osservi: in carcere è proibito ogni movimento della persona senza un previo permesso; è vietato di parlare, molto meno è permesso di far combriccola, come hai tentato di fare poco fa. Cosa importa a te del tempo che gli altri stanno in carcere? Ci siamo intesi?».
Fui ricondotto nella stanzaccia di prima. Mi ordinarono di sedermi non sul margine, ma dentro e sopra il Kang o letto giaciglio di mattoni rannicchiato come loro. Ciò mi procurò un raddoppiato disagio: dolore alle ginocchia, alle braccia, e alla spina dorsale. Entrando nel cortile del carcere non andai a capo chino, ma diedi occhiate qua e là per farmi un’idea del luogo. Il secondino principale della prigione mi rimproverò trucemente consigliandomi ad essere più modesto se ci tenevo a stare meno male in carcere; tanto più che per una salutare riforma della mia condotta era strettamente necessaria la modestia.
Questo monito rafforzò la mia povera buona volontà di star quieto e disciplinato. Seguitavo a star seduto, a capo chino e pensieroso. Se mi tengono così un mese, come farò a sopportare? E se mi tengono sei mesi, un anno...? Intanto andavo contando i minuti e i quarti d'ora che mi sembravano lunghi, eterni. Cresceva il dolore alle mani, alle gambe, alla schiena, tanto che nonostante i miei sforzi per stare zitto e disciplinato, non potei non manifestare il mio disagio. «Ci farai l’abitudine — fu la risposta sogghignata dal secondino. — Anche tu devi far penitenza dopo tanti delitti commessi. Del resto saprai che questa è la volontà del popolo che ci impone una disciplina per affrettare la nostra rieducazione. È per il tuo bene; quindi, coraggio!».
Passata un’oretta di tormenti, sento aprirsi la porta. Compare un ceffo che ordina seccamente al secondino di andare a prendere il pranzo per noi. Quattro scodelle piene di miglio bollito, un barattolino di erbe salate di odore nauseante, un paio di stecchetti a testa. «Prendi — mi dicono — avanti!». «Ho le mani legati di dietro, non vedete? Come posso mangiare?». «Mangi con la bocca o con le mani tu?» mi rispose. «Con la bocca, naturalmente, ma ho anche bisogno delle mani per portare alla bocca il cibo». Uno d’essi mi redarguì dicendo: «Tu sei un delinquente e non aver tante presunzioni. Fra il delinquente ed il cane non c'è differenza; quindi arrangiati». E se ne uscirono senza aggiungere altro.
Alla sera mi sciolsero le manette di dietro alla schiena e me le rimisero davanti. Poi fui condotto al cospetto del giudice per deporre dei miei misfatti. Mi accompagnavano tre poliziotti armati di pistola, altri due piantonati vicini a me con la baionetta spianata vicino alle costole. Il giudice istruttore era un bassetto dalla faccia rude, dal fare nervoso e tracotante. Volse a me uno sguardo cagnesco, poi mi chiese: «Com'è che ti trovi qui?». «Mi ci avete condotto ammanettato, come vedi». — risposi io. «Oh, come sei sciocco con questa risposta. Lo so che non ci saresti venuto spontaneamente; ma dimmi perché sei stato costretto a presentarti in questo luogo? Parla!». «Questo lo saprete voi altri, io non so niente» — risposi. «Ah, tu non sai niente! Dovresti pur sapere però che il governo conduce qui solo i delinquenti. Oseresti negarlo?». Rimasi per un po’ perplesso poiché se avessi risposto che il governo arresta gli innocenti mi sarei attirato tutte le sue ire. Risposi: «Nei casi altrui non so, ma nel mio caso oso dire che prima di darmi del delinquente il governo farebbe bene ad esaminare la questione».
«Ho capito, ho capito, secondo te il governo avrebbe sbagliato ad arrestarti». Intanto la sua voce da piana si faceva sempre più forte, risentita e feroce: «Se ti preme la vita — disse il giudice — sii sincero e racconta i tuoi delitti: ventidue anni di Cina! Ventidue anni di delitti! Orsù comincia a raccontare». A questa intimazione risposi di non aver commesso alcun delitto. Fu sufficiente per farlo andare su tutte le furie. Era in piedi e dava pugni sul tavolo. I poliziotti intorno a me scuotevano l'arme roteando gli occhi furibondi. Improvvisamente tutto si calma: «È per il tuo bene — riprende sommessamente il giudice. — Il governo del popolo non aspetta di sapere da te i tuoi delitti che già conosce sino ai minimi particolari. Non vedi questo mucchio di carte? Qui ci sono scritte le accuse che ti hanno mosso gli stessi tuoi cristiani. Qui c’è la descrizione dei tuoi delitti, ad uno ad uno. Come vedi, noi non abbiamo bisogno di saper nulla da te; però sappi che il popolo ti vorrebbe battere, uccidere, scarnificare. Il governo è intervenuto per la tua salvezza. Noi vogliamo solo vedere se tu sei sincero, e, come tutti sanno, la sincerità è principio di riforma. Se tu confessassi sinceramente i tuoi delitti noi ti riconsidereremo debitamente riformato. Adesso è il popolo che comanda, è il popolo che premia e castiga; e quando il governo dichiara che uno si è riformato di mente, allora il popolo fa grande uso di clemenza. E poi non metterti in testa che non osiamo castigarti perché sei straniero. Il popolo cinese si è rialzato in piedi e non ha paura di nessuno. Tu sai che abbiamo fucilato Antonio Riva, tuo connazionale, appunto perché si era intestardito a non essere sincero. Ma tu? Tu fai in modo di non essere un secondo Antonio Riva».
La parola «riforma» gettata là tra promesse e minacce mi rivelò a che cosa miravano. Quel tentativo di «riforma» mi urtò tanto che il mio coraggio si accrebbe da poter rispondere deciso e calmo: «Voi mi fucilerete solo se mi riscontrerete reo di delitti sufficienti per venir fucilato; ma io ho la coscienza tranquilla». Il giudice montò su tutte le furie: «Non sappiamo cosa farcene della tua coscienza tranquilla! Noi abbiamo il governo e sappiamo che non sbaglia perché è governo del popolo ed è il popolo che ti accusa. Del resto, se vuoi scegliere la fucilazione, sappi che il governo del popolo ha fucilato tanti delinquenti ostinati che non sarà davvero una novità se fucilerà anche te. Insomma: o sei sincero e racconti i tuoi delitti per ottenere la clemenza del popolo, oppure verrai fucilato. Scegli». «Fucilatemi» — fu la mia risposta. Il giudice e gli sgherri sorrisero beffardamente. Il primo disse: «Ti vengono in mente le storielle dei martiri per la religione, per il sacrificio per il vostro cosiddetto Gesù Cristo? Piano, piano. Prima dovrai rieducarti, poi cambierai parere. Se riuscirai a capacitarti dallo stato miserevole in cui ti trovi ora con i tuoi delitti, al servizio di organizzazioni imperialistiche, coinvolto in tanti misfatti, sarai salvo. Altrimenti...». Cominciavo a capire quello che volevano. I loro bersagli erano la chiesa e la religione cattolica, sottintese e camuffate nella parola «imperialismo». Poi incominciò a tirar fuori i nomi di Mussolini, di Hitler, del Papa, di monsignor Riberi, di Tojo, e di mons. Luca Capozzi, asserendo che io ero della loro risma. «Ecco — diceva il giudice — il punto dove dovresti incominciare una sincera confessione. Pensa con chi hai a che fare e saprai chi sei». L’interrogatorio durò cinque ore e mezzo. Quando mi ricondussero in prigione ero sfinito. Sopraggiunse il sonno, ma non potei chiudere occhio. Le manette mi tormentavano; le domande e le risposte dell’interrogatorio mi roteavano in testa. Le promesse di clemenza più che le minacce mi atterrivano. Fu una notte difficile. Il giorno dopo seguì un interrogatorio più severo del primo. Ero digiuno perché non riuscii a tenere nello stomaco i cibi disgustosi che mi erano stati offerti. Mi sentivo molto debole. Quando fui dinanzi al giudice mi sembrava di non poter resistere ad un secondo analogo interrogatorio.