Cominciavo a farmi un’idea del loro piano: mi avevano scelto come capro espiatorio; volevano far di me un vescovo artificiale per oltraggiare e condannare in me tutta la diocesi e fare gran scalpore. Nulla valse a far mutare le loro affermazioni. Dissi che molti sapevano bene chi ero io. Non ci doveva essere alcun dubbio su questo. Ma essi avevano bisogno di farmi apparire vescovo, e non ci fu verso di far loro cambiare idea. Anzi mi chiamavano a deporre di tutti i delitti commessi dai sacerdoti di Yutze. Riprendendo poi il tema dell'imperialismo, il giudice proseguì: «Che cosa ti importa ormai di stare dalla parte degli imperialisti? Non vedi che dovranno essere soppressi dal popolo? Mettiti dalla parte del popolo e vedrai che potrai diventare un bravo sacerdote. Solo allora sarai felice come sono felici tutti i sacerdoti che stanno in Russia, i quali vanno d'accordo con il popolo, senza venire oppressi dall’imperialismo americano e vaticano. Insomma, pensaci su e domani fa di essere sincero nel riprendere la confessione dei tuoi delitti. Tanto, come vedi, noi non ti vogliamo mica punire, ma ti vogliamo mettere sulla via della redenzione e della salvezza. Pensa che potresti vivere ancora una trentina di anni felici. Non troncare i tuoi giorni per delle fisime che hai in testa. Tu, più che un delinquente, sei una vittima dell’imperialismo. Fa in modo di uscire dal groviglio di tutte quelle idee sorpassate; prendi posizione contro l’imperialismo; conosci di esserne stato lo strumento, forse inconscio, e noi ti aiuteremo in tutto e per tutto. Sta’ certo, sarai felice».
I gendarmi — uno mi teneva per un braccio, un altro alle manette, uno davanti mi faceva da battistrada, uno di dietro con la baionetta puntata in canna — mi condussero nella prigione. Era buio pesto nel breve tratto di via che ci separava dalla cella. Uno dei tre carcerati, quello di turno, era sveglio e seduto sul kang. Gli altri ronfavano ansimanti. Appena chiusa la porta del carcere, il secondino sveglio mi disse: «Coricati, è ora di dormire, fa’ presto».
Che fosse ora di dormire, nessun dubbio: erano le due dopo mezzanotte. Dopo essere stato seduto tante ore su un panchetto con gli occhi contro la luce, e dopo lo sforzo mentale per conservare la presenza di spirito, mi sconquassarono tanto che al primo coricarmi mi sembrava di fluttuare sopra una zattera abbandonata sulle onde: la testa mi girava, il cuore pulsava con grande agitazione. Si acuiva il dolore alle membra, specialmente alle braccia, ai fianchi e alla spina dorsale; dolore che. durante l’interrogatorio mi era passato inosservato. Dormire? Come potevo dormire? Eppure volevo dormire. Sapevo bene che la polizia mi faceva soffrire di giorno e mi interrogavano di notte per togliermi ogni riposo, per frantumarmi i nervi. Cercavo di tenere le braccia nella posizione più adatta per non sentire lo stringimento delle manette, ma, appena accennavo ad assopirmi, le braccia si rilassavano e le manette mi procuravano un dolore acuto. Eppure dovevo dormire. Ma lo stesso sforzo, lo stesso pensiero di voler dormire mi tenevano sveglio. La mia mente riandava sull’interrogatorio; le idee però erano troppo sconnesse per poterle riordinare. Tuttavia mi rendevo conto che presso simili tribunali la più grande sfortuna è di essere e di dichiararsi innocenti, per il semplice fatto che il considerarsi e il dichiararsi innocente ci si poneva in contraddizione con la volontà del governo, il quale non ammette di sbagliare quando arresta qualcuno. L'arrestato è sempre reo.
Il dì seguente, 8 novembre, mi ordinarono di mettere in iscritto la mia vita in Cina ed i miei «delitti». Volevano che scrivessi con le manette. Mi rifiutai. Me le tolsero, imponendomi di scrivere in fretta, senza sostare in meditazione con il pensiero. Non mi importò di questo, perché non avevo timori di dire la verità o di contraddirmi. Accennai brevemente ai capi principali della mia vita ed infine passai a dire qualcosa sulla Legione di Maria. Dichiarai che l’avevo istituita io; che essa non conteneva nulla di reazionario; che non avevo usato di essa se non per istruire i cristiani. Scrissi, in riguardo ai miei giudizi di politica internazionale, che mi riservavo la libertà di pensiero che la legge garantisce. Consegnai il mio scritto e mi furono rimesse le manette. Ma la fatica fatta per scrivere quei pochi fogli mi prostrò tanto che incominciai a vomitare non appena ingerivo qualche cibo. L'immobilità mi deprimeva e il pensiero che dovessi rimanere in prigione per lungo tempo con quei continui dolori mi costernava. Sapevo che avrei potuto affrettare la mia scarcerazione facendo qualche accusa sensazionale contro la Chiesa o qualche suo esponente, e specialmente se avessi deposto qualcosa che potesse far apparire reazionaria ed illegale la Legione di Maria. Mi incominciarono a girare per la mente dubbi e difficoltà; mi si abbozzavano tanti progetti e stratagemmi di compromessi per poter evadere da quella sciagura. Ma tutto si risolve con la decisione di rimanere sui principi di verità e di giustizia dettati dal Vangelo. Gesù chiama beati coloro che vengono perseguitati per il suo nome e per la giustizia. Di grande incoraggiamento e consolazione furono per me le parole del Signore: «Chi vuol salvare la propria vita in questo mondo la perderà; e chi invece darà la propria vita in questo mondo per me, la salverà». E ancora: «Io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». È consolazione grandissima, in simili frangenti, sapere che Gesù aveva previsto e parlato di noi, assicurandoci il suo amore e il suo interessamento. Nello stesso tempo presi tanto in orrore il comunismo con i suoi barbari sistemi e tanta compassione mi facevano quei poveri esseri costretti insieme a me a soffrire l’ingiustizia di un tal durissimo carcere, che andavo escogitando con tutte le mie forze mentali il mezzo migliore e più rapido per dissipare quegli orribili nemici dal genere umano e togliere dalla faccia della terra tanta barbarie. Non mi venne in mente altro mezzo più efficace di questo: il Rosario. Ci è stato promesso da una fonte infallibile che la vittoria finale sarà per il bene dell’umanità credente, purché si faccia penitenza e si reciti spesso il Rosario. Cominciai segretamente a recitarlo contando sulle dita, giacché la coroncina mi era stata asportata insieme a tutto quanto avevo indosso al momento dell'arresto. Così la mia mente si distoglieva dai dolori del corpo per divagare serenamente attraverso soggetti più rassicuranti. Una volta però il vomito fu così clamoroso che il secondino mi comandò di coricarmi qualche minuto per provare di fermarlo. Il poliziotto di guardia mi vide attraverso le fessure della porta e scattò contro di me: «Maledetta tua madre! Sei venuto qui per dormire e riposarti? Ti si slogassero le gambe! Ti si schiantasse il filone della schiena! Cane!». Il 10 novembre il giudice, accompagnato da alcuni poliziotti, venne nella cella per interrogarmi. Mi rimproverò di non aver denunciato i miei delitti e mi ammonì che raccontassi tutto sinceramente, altrimenti erano guai. Mi domandò se mi fossi deciso a confessare almeno uno dei miei peccati, che così, rotto il ghiaccio, avrei potuto poi confessare con comodo gli altri in seguito. Avrei insomma dovuto dare un buon inizio a quella che lui chiamava la mia conversione e la mia salute. Ad una mia risposta negativa egli divenne paonazzo. Dissi: «Come? Dovrò dunque inventare crimini per sganciarmi da un processo che mi si fa ingiustamente?». Non l'avessi mai detto. Sbottò in mille improperi dicendo che io ero il vero tipo di imperialista ostinato, un secondo Antonio Riva, della risma di Hitler, di Mussolini, di mons. Riberi e di Tojo e che lui sapeva tutte le nostre camorre e che il popolo era deciso a vendicarsi di noi, ecc. Prima di andarsene, bofonchiò: «Tu intanto rimani lì a pensare ed esaminare la tua situazione. Ti auguro di venir presto ad una decisione, che altrimenti la pagherai cara!».
I suoi accenni ai citati personaggi, mi impensierivano, non per ragioni reali di reato, ma perché mi svelavano l'estrema gravità con cui essi consideravano il mio caso. Pensavo che, essendo io l'ultimo missionario rimasto nello Shansi, volessero fare di me una vittima, tanto per aggravare la situazione della chiesa, come per fare mostra dinanzi al popolo che il regime comunista è forte anche di fronte agli stranieri e non ha paura di mandarli a morte. Già anche fra i secondini del carcere ho sentito scambiarsi alcune parole: «Hai visto? Non è mica più come una volta che si temevano gli stranieri». Materialmente parlando mi sentivo perso; ma nello stesso tempo cresceva la mia decisione di morire piuttosto che compromettermi e calunniare. Non mi importava neanche più dei dolori e del cibo, tanto sino alla morte ci sarei arrivato. Anzi ero arrivato al punto di desiderare ed amare la morte come una liberazione. Il giorno appresso ritornò il giudice e mi chiese se avessi incominciato, se avessi deciso, se avessi «alzato il coperchio per far dissipare la puzza del mio letamaio». Risposi di non aver nessun letamaio da scoprire. Cominciarono le invettive contro me e contro tutti i cosiddetti imperialisti. Controbattei energicamente, tanto che l’interrogatorio divenne un litigio vero e proprio. Se ne andò dicendomi che ero l'imperialista più testardo e stupido che avesse mai incontrato e che avrei potuto salvarmi con un po’ di sincerità, ma mi ero incaponito a marciare verso la morte. «Peggio per te, imperialista cretino».
E così dicendo uscì fuori dalla cella, che i poliziotti si affrettarono a chiudere a chiave.
Dal giorno del mio arresto il tempo è stato fosco e piovoso. Nella stanzaccia umida e oscura era entrato il nuovo padrone: il freddo. Tremiti passavano per tutto il corpo come scosse elettriche, e mi facevano battere i denti. La situazione diveniva sempre più difficile. Il 12 novembre ritornò il giudice che mi sottopose ad un nuovo interrogatorio. Non si venne a capo di nulla. Tentò di intimorirmi dicendomi che da Scjouyanh erano venute molte persone con l'intenzione di addentarmi e di mangiarmi brano a brano, tanto era lo sdegno e l'ira per i torti che io avrei loro fatto in passato. Addirittura omicidi e infanticidi. Più grosse le diceva, meno mi spaventavo. Si trattava, ovviamente, di una banale manovra intimidatoria per indurmi ad ammettere che la Legione di Maria era un’organizzazione reazionaria. Feci notare invece che detta Legione era per un progresso di attività religiosa e culturale, molto adatta per i nuovi tempi. «Brutto stupido! — interloquì il giudice — Come potete parlare di progresso voialtri che rigettate l'unica via del vero progresso: il materialismo?». Infine mi chiese se almeno ammettevo di essere un imperialista. «No», risposi. Se ammettevo almeno che la Legione di Maria era reazionaria. «No», risposi. La sua faccia divenne torva, si rivoltò con una smorfia feroce, e andandosene concluse: «Peggio per te, stupido! Farai i conti con il popolo!».
Passarono otto giorni, uggiosi, carichi di preoccupante silenzio. Il giudice non si vedeva; nessuno mi rivolgeva parola. Mi vedevo divenuto un essere dolorante, immobile, abbandonato. È duro l'abbandono, anche da parte dei nemici, con i quali si vorrebbe questionare, almeno con la speranza di giungere ad una chiarificazione.
Pochi giorni prima del mio arresto era venuto da me un cristiano di nome Cao N. N., dal volto emaciato, dagli occhi esterrefatti e pieni di agitazione. Era stato dimesso dal carcere per venire a seppellire il suo babbo morto sotto l’oppressione e la tortura di false accuse di corruzione e peculato. Appena mi vide scoppiò in un pianto disperato: «Padre, io mi voglio suicidare! Non posso più vivere così! Non è giusto vivere così!». Cercai di consolarlo con i principi di rassegnazione mettendogli davanti gli esempi di Gesù e di tanti santi. In ultimo egli annuì: «Padre, sì, è vero, ma come è duro seppellire il proprio padre ucciso lentamente con la tortura dei nervi, per poi entrare in prigione e subire la stessa sorte! Padre, preghi per me». In quel momento io non capivo tutto il suo dolore, la sua costernazione e la sua agitazione. Davvero è cosa tremenda la tortura dei nervi; il lento logorio di un individuo fisicamente sano.