Due altri giorni passarono. Si fece vivo il giudice istruttore, il quale mi fece leggere alcune accuse scritte contro di me. Mi si chiamava reazionario, propalatore di notizie false a scapito del governo, infanticida ed omicida. La Legione di Maria, si sapeva, era associata all’imperialismo americano. Dopo di che il giudice, con fare paterno, mi ammonì scongiurandomi di allontanarmi un tantino da quel puzzolente letamaio che sarebbe l’imperialismo americano ed ecclesiastico su cui sedevo. Finché l’insetto vive entro un luogo putrido, non s’accorge del putridume; ma appena ne esce fuori, viene a conoscenza di un mondo migliore, e prova orrore del luogo ove si trovava prima.
Ero stanco ed avvilito dopo tanti maltrattamenti, ma non avevo ancora perso l’uso della ragione. Anzi mi sentivo indignato. Risposi: «Che cosa intendete dire? Che m'allontani dalla religione cattolica?».
Egli rimase un po’ perplesso, poi seguitò dicendomi di pensarci su, e di scrivere tutto. Dopo alcuni giorni consegnai lo scritto. Il giudice dopo averlo letto, ritornò infuriato da me: «Tu sei una losca figura — disse — un imperialista incorreggibile che sapendo parlare e scrivere in cinese ti sei rivestito della cattiveria cinese senza perdere quella occidentale: sei doppiamente detestabile. Sei una volpe e lupo insieme!». Faceva conto di non aver ancora letto lo scritto; ma nello stesso tempo alludeva spesso al suo contenuto. Una frase specialmente lo aveva infuriato. Avevo scritto, fra l'altro: «Sono accusato di delitti mai esistiti, nonostante i benefici da me fatti in 22 anni al popolo cinese. Se ci sono dei reazionari dannosi al popolo e al governo sono appunto i miei accusatori, che con le loro menzogne mettono in pericolo la serietà e la dignità della nazione e del suo stesso governo». Egli mi chiamava caparbio, bestia indomita, che tenta di azzannare qualcuno anche fra le sbarre della gabbia, e finì dicendo: «Sappi che il popolo cinese non vi teme più, schifosi imperialisti». Con questa allusione a tutti i missionari, se ne andò sbattendo la porta. Era il 27 novembre. Da allora non lo vidi più. L’8 gennaio 1954 fui interrogato da altre persone. Nel frattempo in carcere cambiarono vari secondini. Me ne capitò uno che essi certamente credevano ortodosso, essendo iscritto nel partito dal 1939, come potei sapere da lui stesso. Questi era sì un convinto marxista, ma nello stesso tempo era scontentissimo del regime che, nonostante tutti i suoi meriti di guerra, lo teneva in carcere già da un anno per delle sciocchezze, per dei pettegolezzi di donne. Era una persona alquanto nervosa, che veramente mi fece patire molto, cercando spesso di sfogare il suo fiele contro di me. Non gli andavo a genio e mi rampognava per qualunque inezia. Talvolta mi sgridava perché mangiavo — diceva lui — troppo lentamente, altre volte perché gettavo a terra qualche buccia di patata.