Il contegno di questa meravigliosa famiglia cristiana fu ricordato da tutti indistintamente gli illustri oratori che la domenica 7 novembre commemorarono il Martire. Oriunda veneta del Comune di Sossana nel basso Vicentino, la famiglia Fanin contava 24 membri nel 1910, quando si divise e parte si trasferì nel bolognese, a Persiceto, e precisamente in parrocchia di Lorenzatico, località Tassinara.
E in Tassinara la nuova famiglia tenne fede alle tradizioni: lavorò con impegno e con capacità. «Mi dicono agrario, osserva il Sig. Virgilio, perché posseggo ora 23 ettari di terreno, e non sanno che solo da pochi anni sono riuscito ad estinguere il debito contratto da mio padre nel 1910, quando comprò questa terra. E non sanno quel che mi costa di lavoro per farla fruttare a sufficienza a fin di mantenere i miei figli».
Il terreno qui è fertile; gli abitanti sono tuttora fieri di aver dato alla vicina Modena un venerato Arcivescovo: Mons. Bussolari, morto nel 1940, ma arrossiscono quando si ricorda loro la data del 13 maggio 1945: in tale giorno entro un sacco in fondo a un macero, fu trovato il cadavere del Parroco Don Donati.
Nella confinante parrocchia dell’Amola, Don Reggiani fu ucciso non meno barbaramente nel dicembre dello stesso anno.
Ma, «i buoni, qui, sono buoni sul serio», ci dice Don Antonio, parroco di Lorenzatico. E il suo viso per un istante si rasserena: egli pensa per primi ai Fanin. «Nell’atrio di casa Fanin c'è scritto: «Qui non si bestemmia !; ma io potrei scrivere: in questa casa regna la Grazia di Dio!».
Il signor Virgilio è fiero delle tradizioni cristiane dei suoi avi: ricorda con commozione «nonna Angela» la sua mamma, di cui ama ripetere ai figli le parole che più le erano abituali: «Dio vi vede ! Quando siete per far il male, ricordatevi che Dio vi vede!». Nonna Angela! Vicina a morire, alla figlia Lidia che l’assisteva e di cui cercava particolarmente il conforto e la cura, disse un giorno: «Lidia, so che ti aspettano per l’Adunanza delle Giovani di A.C.; va pure: farai così il bene che ormai non posso più fare io . . . !».
A questa scuola si è formata una famiglia eroicamente cristiana, che ha saputo benedire Iddio anche nella più tragica sventura. «il Signore me l’aveva dato, il Signore me l’ha tolto; sia fatta la Sua volontà» così la mamma, innanzi al corpo insanguinato del figlio.
L’8 gennaio 1924 casa Fanin era in festa per la nascita del terzogenito: Giuseppe, il quale crebbe sano e robusto nei campi coi fratelli e le sorelle: erano già dieci nel 1940. Un giorno — Pippo aveva 12 anni — dopo aver ascoltato attento la meditazione che la Zia Lidia aveva letto alla nonna, disse sicuro: «Mi voglio far sacerdote». Ed entrò in Seminario.
Contenti di lui superiori e compagni; ma un anno e mezzo dopo, Giuseppe si presentò al Rettore e disse così: «Mi sono sbagliato; questa non è la mia via; io diverrò un buon padre di famiglia». Il Rettore sorrise, ma siccome Giuseppe si mostrò deciso, chiamò il babbo: «Prendetelo a casa, ma tenetemi informato: penso che vostro figlio ritornerà in Seminario».
Ed invece, dopo le scuole d'Avviamento a Persiceto, passò all’Istituto Agrario di Imola, e proprio quest'anno 1948 si era laureato Dottore nell’Università di Bologna.
A Pippo piacevano i campi e lui, 1'«universitario», il «Dottore», nelle giornate libere era accanto a suo padre e ai suoi fratelli, a zappare, a mietere, a innestare, pieno di iniziativa e di fervore. Aveva il suo giardino: un piccolo quadrato innanzi a casa, di cui era gelosissimo; lì coltivava i fiori — la sua passione — e ce n'era per tutti: per l’altare, per la fidanzata e per gli amici. (Le salvie splendide, fiorite rosse come sangue nel novembre della sua morte, gli sono state portate al Cimitero).
Pippo amava la casa: la sua modesta casa in mezzo alla pianura; la voleva sempre pulita e talvolta la spazzava lui, facendo impazientire mamma e sorelle che prendevano il suo gesto come un rimprovero. Aveva poi un culto per il focolare: come se le godeva le belle fiammate, d'inverno, dopo aver disposto sugli alari una grossa catasta di legna! Zia Lidia ebbe un giorno la sua casa in Persiceto invasa dal fumo perché Pippo le volle a tutti i costi riattivare il caminetto che invece non intese funzionare.
Pippo amava soprattutto la sua famiglia, il babbo che tanto spesso consultava anche per pareri su questioni sindacali, il babbo che era orgoglioso del suo «studente» e che lo additava come esempio ai fratelli. Era fiero della sua mamma e ci teneva a farsi vedere assieme a lei in Persiceto. Se la prendeva a braccetto e rideva felice come una pasqua. Così faceva anche coi sacerdoti ai quali volentieri s'accompagnava per le strade e le piazze senza la minima ombra di rispetto umano. Amava i fratelli, anche se talvolta appariva loro duro nell’esigere e nell’imporsi; e diceva che, sposandosi, non intendeva «metter su casa» per conto suo; voleva restare con loro.
Pippo era soprattutto un tipo, un carattere. Un tipo fatto di schiettezza, per cui diceva senza esitazione quanto sentiva, anche a costo di scottare talvolta e di mortificare; schiettezza congiunta a un senso di sicurezza e quasi di baldanza che non era però altezzosa e superba, ma gli veniva spontanea, specie di fronte agli avversari, per la certezza di essere nel giusto. E la maturità che gli aveva dettato a 13 anni quel suo «sarò un buon padre di famiglia» l’accompagnò sempre, per cui mentre sembrava a volte affrontare problemi superiori alla sua età, stupiva poi per l’abilità con cui sapeva risolverli.
Singolare era in Pippo la precisione, tanto connaturale in lui che la portava in tutto: nell’abito che, per non seccare la mamma, si stirava talvolta da solo; all’altare, dove lo si vedeva servire la Messa con l’esattezza di un seminarista; agli Esercizi Spirituali, di cui ci restano i diligenti, ampi riassunti delle prediche. Ma queste belle qualità che preparavano in lui il «buon padre di famiglia» nel senso più pieno, erano coronate da una sentita pietà cristiana. Il suo professore di diritto agrario, al quale era legato da intima amicizia, dice d'averlo notato la prima volta, all’altare, mentre faceva la S. Comunione.
Dice di lui il suo Parroco: «II contegno sobrio, semplice, sereno, ordinato con cui si accostava all’altare, talvolta anche per servirmi Messa, non aveva nulla di diverso dal contegno che assumeva in tutti i suoi atti, in modo che la sua vita esterna aveva una continuità perfetta ed era manifestazione della sua interiore formazione».
Al momento della morte aveva nel portafogli i ricordi degli ultimi Esercizi Spirituali fatti nel 1947 a Villa San Giuseppe; dopo averli valorizzati con la pratica della vita, li ha sigillati col suo sangue.