Proveniva dai campi e l’amore più vivo per la terra l’aveva spinto ad entrare nell’Istituto Agrario di Imola. Chi lo conobbe in quegli anni (sono tanti e tanti amici di scuola) ricorda ancora questo ragazzo franco e ardito, che sapeva nei crocchi innanzi all’Istituto, nelle ore libere, sostenere discussioni su questioni religiose, in cui egli manifestava sincero e spontaneo le sue convinzioni. E lo ascoltavano tutti con interesse, perché Giuseppe viveva, in mezzo alla leggerezza e (perché no?) alla corruzione di quell’ambiente, i suoi principi di fede e di morale.
Ma a lui non bastava un diploma: voleva essere un competente. Nessuno meglio di lui poteva compiere quella mirabile sintesi tra teoria e pratica, così difficile per chi studia i problemi della terra.
Si iscrisse all’Università di Bologna nel 1943, in piena guerra, e quasi ogni giorno, col tempo bello o brutto, doveva sobbarcarsi alla fatica di quelli della Provincia che studiano a Bologna. Gli orari dei treni e delle lezioni imposero anche a lui il peso di dover essere dei «fuori di casa», di fronte alle necessità dello studio e del vitto. Ma Fanin, appunto dalle difficoltà e dalle scomodità, trasse la forza per impegnarsi a fondo. A 24 anni, nonostante le peripezie della guerra, era già laureato: il primo laureato della FUCI di Persiceto, che egli aveva voluto e fondato.
Pippo ne era orgoglioso di questa sua FUCI di Provincia «così diversa e più bella di quelle di città» come egli diceva. E quanti ricordi ha lasciato in chi lo conobbe fucino, specie in chi condivise con lui le fatiche di riunire studenti e ragazze che ancora non avevano idea dell’Associazione!
Fra le calde, numerose testimonianze, ci pare di particolare interesse quella di un suo professore d'Università, che più di tutti ebbe modo di conoscerlo. Lo aveva visto per la prima volta in Chiesa, prima ancora che frequentasse l’Università ed era rimasto colpito dal suo contegno.
Non appena lo ebbe studente, si accorse che la prima impressione non lo aveva ingannato ed a lui si strinse con sincera amicizia.
Giuseppe era orgoglioso di ciò, ma non osò mai avvalersene, specie negli esami, i quali anzi finivano per costare a lui più che agli altri studenti, temendo di non figurare così come il Professore si aspettava. Nella delicata posizione di studenteamico del suo insegnante, seppe mantenere quel giusto equilibrio, per cui la confidenza e la famigliarità mai era disgiunta da rispetto e deferenza. Così il Prof. Bruno Rossi, che, come tutti gli amici di Giuseppe, non può parlare di Lui senza tradire la più profonda emozione.
Ed ecco ora una fucina di Persiceto che così si esprime:
«Trovo nei verbali la relazione di una spedizione a Castelfranco fatta il 31 gennaio '46 in visita a un «fucino infermo». Rivedo Pippo appoggiato a un bastone con un piedone fasciato; è al braccio di Lidia e ricomincia a fatica a camminare. Un incidente di tram per poco non l’ha privato di un piede, ma non lo preoccupa il piede, bensì il timore di non potere presentarsi agli esami di febbraio».
«Il 3 marzo '46 lo prelevammo perché fosse con noi nel pranzo dell’ultima domenica di carnevale. La sala era accogliente e Pippo era capotavola colla fidanzata. Non poteva spostarsi dalla sua sedia per fare arrabbiare chi era troppo serio; ma non si dava per vinto. Cantava, rideva, scherzava, raccontando quelle sue storielle che creavano l’ambiente; era lui insomma, quel Pippo che ognuno di noi vede ancora così, senza poter ricordare il momento in cui apparve per la prima volta fra noi, perché pare di averlo conosciuto sempre e di essere sempre vissuti accanto a lui.
Il 19 marzo '46 era il suo onomastico, e dovevamo fargli festa. Egli ci prevenne e ci invitò a casa sua. Eravamo in trentaquattro!
Era pronta una gran torta di riso con trentaquattro bicchieri e alla fine, quanti tappi per terra! Lui era seduto in fondo alla tavola di fronte alla finestra e guardava nel cortile fingendo di non vedere, con l’aria più felice del mondo: contento di sé, della sua vita, di tutto e di tutti.
Con lui non c'era malinconia ed ogni cosa complicata diventava semplice. Bastava una parola alla buona e un largo sorriso per fare scomparire ogni ombra.
Tornata dalla S. Messa il giorno della sua morte, ancora intontita dalla notizia appresa, trovai sul mio tavolo la foto del 19 marzo: in mezzo ai 34 fucini c'era con Lidia, più presente che mai, il Pippo di sempre.
Come poteva essere scomparso? Pareva un brutto sogno, un'allucinazione spaventosa, un incubo da cui dovevo uscire al più presto. Eppure Pippo era veramente morto».
Ancora una fucina:
«Lo rivedo nella sala della F.U.C.I. assieme all’Assistente. Non mancava mai. Piovesse o nevicasse, anche quando alcuni di noi per motivi vari mancavano, Pippo arrivava sempre. Bagnato e intirizzito per i cinque chilometri dalla casa a Persiceto, entrava sorridendo, si toglieva il cappello e si sedeva dopo aver fatto inquietare qualcuno. Come sempre: immancabilmente. In quelle nostre discussioni così vivaci talvolta, egli aveva sempre una veduta sua da esporre, che rivelava in lui maturità e sicurezza di fronte ai più svariati problemi. Mi pare di sentirlo ancora gridare sulla porta di casa mia, chiamandomi col nome che mi aveva appiccicato il giorno della matricola:
«Checca, vieni giù un momento!»
Aveva qualcosa da comunicare, qualcosa da organizzare: un'adunanza, una manifestazione a Bologna o in Persiceto.
Per la festa delle matricole del '47 era già anziano e si dava un sacco d'importanza. Ordinava scopate in testa e faceva bere acqua e aceto, ma nello scompiglio generale non dimenticava certo di intascare le paste e nascondere le bottiglie di liquore».
L’8 maggio 1948 ci fu in Parrocchia di S. Giovanni il possesso del nuovo Parroco. Dopo vivaci lotte i Fucini ottennero di farne l’immatricolazione.
Frugarono tutti gli angoli più riposti della canonica per scovare tappeti, cordoni, frange dorate per quella cosa così seria per loro! Pippo fu il gran maestro della cerimonia: bardato a tutto punto sembrava un ciambellano di corte e con quale autorità regolava il difficile cerimoniale! Spiegato un enorme papiro di carta gialla, stringendo l’asta di un altoparlante che funzionava solo quando non ce n'era bisogno, Pippo lesse regole e leggi, impose la strana penitenza al novello Parroco e dopo le lunghe, complicate formule di rito, con un molto discusso berretto rosso simbolo «della facoltà di medicina e pastonzia delle anime», incoronò la novella matricola.
La folla dei parrocchiani reverenti e posati era stupita in principio per non dire scandalizzata. Eppure Don Guido sorrideva e anche la folla finì per divertirsi. Perché Pippo aveva saputo arrivare alla fine, senza offendere nessuno e senza trasgredire le leggi della sana goliardia.
Il 1° giugno '48 i Fucini di Persiceto si trovavano ospiti dell’Assistente per la giornata di Ritiro. C'era aria di serietà e raccoglimento, anche se alla lettura durante il pranzo, non fu assolutamente rigoroso il silenzio mentre si leggeva la vita di Pier Giorgio Frassati.
Alle 18, alla fine del Ritiro, apparve improvvisamente un foglio sul quale erano segnati i presenti e accanto al nome di ognuno, c'era in matita un soprannome. Primo fra tutti si trovò scritto: «Pippo: il Bullo».
Era il, suo senso di proprietà e di eleganza che veniva rimarcato, quel suo saper vestire con noncuranza e disinvoltura che però era eleganza.
Ma «elegante» come non mai apparve il giorno della sua laurea con sul capo una corona di foglie e cipolle a germogli spioventi! Era diventato Dottore e bisognava pure far festa. E sempre a casa sua, gli amici piovvero in comitiva. Accanto a Lidia, colla solita allegria fucina, colla solita caccia alle paste e ai bicchieri... Ore serene che la morte ha offuscato!
Col rimpianto, resta agli amici la luminosa memoria di un carissimo amico.