Testimonianza di un amico
Non si può ricordare Fanin senza tener presente la generazione alla quale Egli apparteneva. Non una generazione felice, non ingenua, non entusiasta; anche sui più giovani la guerra ha portato i suoi amari frutti e nessuno ne è uscito indenne.
Molti ancora oggi ricordano come l’altra guerra avesse modificato i giovani, anzi avesse prodotto un fenomeno dei giovani distinti dagli altri come categoria, come mondo morale, prima ancora che come classe politica. Fu la generazione degli scontenti, quella, degli insoddisfatti, degli ingenui patrioti dell’ultima ora che rovesciarono in una disillusione irrazionale il bagaglio delle illusioni gratuite che portavano nell’anima colma di vecchie parole e di ideali da piccola bottega. Da quella generazione nacque il fascismo.
Questo dopo-guerra non sembra aver generato una «generazione» come razza, come categoria, come un'esigenza di distinzione e di aristocrazia.
I giovani hanno portato nella carne e nell’animo i segni della sofferenza e della aridità spirituale, ma non hanno incolpato nessuno, non hanno cercato delle responsabilità. La lotta tra fascisti e anti-fascisti è rimasta confinata quasi totalmente a una lotta di vecchi fascisti e vecchi anti-fascisti.
I giovani stavano in disparte, quelli che la guerra aveva lasciati vivi.
Tornavano dalla Germania, scendevano dai monti senza sistemi politici, più con la gioia di una liberazione avvenuta che col sentimento di un'opera da costruire. Qualcuno pensava alla «posizione», altri si disperdevano nel nulla dell’uomo della strada o dei grandi movimenti anonimi come per una tacita rinuncia alla personalità, generata dall’essere stati spettatori di avvenimenti tali da non lasciar pensare possibile e valido l’istinto di un «posto nel mondo», soprattutto a un posto nel mondo delle conquiste politiche e sociali.
Pochi in quel tempo seppero prendere posizione, non come nell’altro dopo-guerra, anzi a rovescio di come allora, avvenne la proiezione nella politica.
Questi pochi interpretarono il loro dovere come necessità di fare un fagotto di tutti gli schemi retorici e di ficcare gli occhi a fondo nel mondo delle cose reali per una incapacità loro sostanziale di vivere nel sentimento e la acutizzazione di un istinto critico che sembra il prodotto di una sfiducia nella parola degli altri e nella apparenza gioconda delle cose.
In questa ristretta pattuglia Fanin si distingue per la tranquillità, la serenità che accompagnò il suo gesto.
Molti di questi giovani sentirono in sè una fatica, avvertirono il dolore di una rinuncia, misero a combattimento il desiderio di farsi costruttori di un mondo nuovo e la disperazione di riuscirvi furono e forse sono ingenui e cinici, entusiasti e dogmatici, controllatissimi e generosi delle loro forze.
Il fenomeno del loro inserimento nella vita politica, che è forse il dato più incoraggiante di questo dopo-guerra, lascia qualche volta perplessi; non sappiamo quanto a lungo possa durare il loro sforzo, se in essi prevalga una forza nervosa o un istinto vitale.
In Fanin non si avvertiva questo senso della rinuncia, questa sofferenza; eppure vi era rinuncia. Egli entrando a lavorare nel mondo dei sindacalisti e dei politici di tradizione cristiana, uscì in un certo modo da una economia strettamente familiare e lavorò in perdita, se si considera perdita l’accantonare il benessere individuale per immettere la propria vita nel complesso dei problemi ambientali, per risolverli in una pace futura.
La sua vocazione era chiara, limpida, era veramente una chiamata.
Chi considera la sua posizione nella famiglia vede in lui quasi una più approfondita autocoscienza, un superamento di posizioni già profondamente cristiane verso posizioni di generosità e di dedizione.
Questa tradizione familiare, che lentamente viene affermando le sue conquiste, migliorandosi nel tempo, spiega la unità semplice, omogenea e completa della persona di Fanin. Come egli veniva costruendo la sua esistenza era facile vedere, come è facile vedere la nascita delle cose che la natura getta a disposizione dell’uomo.
Ma quanto era in lui di promessa e di grandezza, nessuno solitamente lo vede, se non dopo la morte.
La domanda che un uomo politico si pone di fronte a una «vita Fanin» e a un «delitto Fanin» è questa: se nonostante la sua purezza, la sua angelicità, la vita di Fanin non fosse una forma di quell’egoismo nobile, collettivo, che molte volte le classi operaie rimproverano al mondo che le circonda; non l’egoismo di chi ha più del necessario, nè la cecità di chi si appaga della pace del focolare e non sente la terra che trema, ma quella forma quotidiana di spensieratezza, quel non allargare e condizionare la propria esistenza al punto da risolvere nell’ambiente, non dico al punto di risolvere i problemi dell’ambiente.
Nessuno oggi ha giustificato l’uccisione di Fanin.
Le aspre accuse a suo carico apparse in certi volantini che resteranno lugubremente famosi nella pianura emiliana, sono state cancellate dal suo sangue, nessuno osa ricercare la traccia; piuttosto oggi si tenta di rilanciare il cappio della responsabilità. Ma è prevedibile che un giorno, se alcuno tenterà con impostazione classista di fare la storia di questi primi anni di agitazioni sindacali della regione emiliana inquadrandoli nel complesso della situazione politica, delle responsabilità dei Partiti, troverà facile dire, forse, senza rancore, come avviene in chi si volge a guardare le cose a distanza, che Fanin è stata una involontaria vittima della lotta di due classi, di una delle quali egli inconsapevolmente assumeva una tutela generica.
Si dirà: Fanin stendendo un patto di compartecipazione non si avvedeva di come questi tentativi di modificare dall’interno attraverso pacifiche riforme le secolari condizioni di schiavitù del bracciantato emiliano, andavano contro la soluzione del problema e venivano favorendo quegli stessi interessi che credeva di combattere.
E' questo il giudizio più pericoloso che perciò dobbiamo serenamente affrontare; perchè non tocca i sentimenti del Caduto ma la sostanza stessa del suo lavoro.
Sapere se egli veramente operò nel suo ambiente, sapere se la sua posizione sindacale fu veramente tale, se egli ebbe una vera capacità di vedere i confini ultimi del terreno che veniva arando, è definire se la sua opera è stata veramente utile, prima della morte; è dire se la uccisione fu dettata da un fanatismo di classe che voleva rimuovere un ostacolo per progredire più rapidamente nel cammino o fu piuttosto ferocia, odio di partito, senza giustificazioni più profonde; irrazionale prodotto di una passione, di una impotenza, più che di una convinzione di utilità.
Ho tra le mani i primi lavori sindacali di Fanin. In essi nessun accenno politico, nessuna restrizione mentale interrompe la scientifica trattazione del problema agricolo. Le innovazioni sono cercate da lui e dagli altri che partecipano al suo lavoro sul piano di una totale riforma agraria, che non sembra incontrare l’entusiasmo della commissione degli agricoltori. Si parla di «scogli duri»: era faticoso dover tentare una soluzione che fosse in armonia con una serie più vasta e più larga di questioni tutte gravi e urgenti, non solo, ma che si presentasse applicabile in una terra dove le intese sindacali e politiche assumono frequentemente il colore del sangue.
Questo tentò Fanin; nella sua vita non ricordiamo un discorso politico, non una frase venata di retoriche modulazioni.
Era un lavoratore che sapeva il valore delle cose concrete, serio e moderno, in questo suo modo originale di essere «giovane», ma giovane tale che si ebbe bisogno di uccidere lui per scoraggiare in tutta una Provincia il tentativo di dare una risposta cristiana ai quesiti della giustizia e della pace.
Egli si rese conto di una profonda verità: che per chi è cristiano, è spontaneo il rendersi conto che non è lui che ha creato la propria vita; è nato in un certo tempo, in una certa condizione non perchè viva per lui solo; che vivendo per se stessi la vita e la ricchezza non hanno valore. Interpretò il suo ruolo in questo senso: andare alla radice del problema, scuoterne le fondamenta, smussarne gli angoli.
I due angoli più duri erano: la resistenza agraria e la sordità della classe bracciantile ad una speranza di una restaurazione cristiana.
Duri furono i suoi incontri con gli uni; lo scontro con gli altri gli portò il martino.
In questo senso la sua posizione era profondamente umana, era illuminatamente politica; in tutti i sensi era profondamente altruistica.
Collocato nel Suo ambiente, in quel tempo, non ristretto in nessun circolo, ma aperto a tutti coloro che cercavano la verità con le armi della verità !
Sotto questo delitto, la provincia emiliana che di agitazione in agitazione, non ha il tempo di considerare se stessa, nelle sue miserie, nei suoi dolori, per trarne un desiderio di pace che pur non significhi conservazione di ciò che non è giusto, si è contratta, ha avuto una specie di convulsione.
Solo da pochi buoni è uscito l’appello alla distensione delle coscienze; una ondata di orrore l’ha pervasa che pare esaurirsi in un gioco di rimbalzo anzichè favorire una serena meditazione.
Forse più tardi giungeremo a questo risultato, ma la realtà grave che non ha saputo vagliare chi ha ordito la criminosa impresa è che se l’attività di Fanin nei generosi tentativi e nella totale dedizione era un'opera altamente sociale, capace nell’esempio e nel senso del suo lavoro di portare ad impensabili conquiste, il delitto comunque giustificato, alla luce di qualunque principio è un atto essenzialmente antisociale, dal quale non può nascere nessuna speranza per nessuna conquista.
Non si può uccidere per nessuna idea; non si può uccidere in nome di nessuna collettività; è un delitto, una frattura; un uomo manca alla società sulla quale la Provvidenza aveva ricamato un piano di opere costruttive. Il delitto non ha toccato soltanto una famiglia, una parte degli uomini, ma ha gettato la sua ombra su tutti gli uomini, da qualunque principio mossi, operanti in nome di qualunque Idea.
Dove il sangue sta diventando un'infezione, soltanto la speranza che la forza dell’esempio e la luce del sacrificio porti uno spiraglio di serenità sulla pianura emiliana ci conforta della tristezza del male che è stato inferto alla società.
Per questo il popolo italiano e sopratutto il popolo emiliano, anche quella parte di esso che nella lotta di classe vede una liberazione, senza saper bene da che cosa, senza saper bene per cosa, è rimasto allibito davanti al delitto; davanti alla salma dai lineamenti alterati ha capito che l’uccisione di Fanin è prima di tutto e soltanto un male che in tutti rompe qualche cosa, forse la speranza che questo rimanga un breve periodo di agitazione e non sia presagio di un totale accecamento delle menti. Ma a molti è stata un'improvvisa illuminazione, un monito di coraggio a chi ancora non vedeva chiaramente il suo posto di responsabilità.