Don Elia Comini e Padre Martino Capelli

I martiri di Salvaro

foto Don ELIA COMINI SALESIANO

  Ed egli che aveva sentito insopportabile nel suo cuore di pastore la ripugnanza ad ogni oppressione ingiusta verso gli innocenti, verso i deboli e gli indifesi, tuonando spesso dal suo altare contro i delitti perpetrati dall'odio che soffocano i precetti evangelici della carità e della giustizia, ha suggellato col suo sangue la sua parola d'amore, che ancora risuona ammonitrice all'orecchio delle sue pecorelle.
foto Padre MARTINO CAPELLI SACERDOTE DEL SACRO CUORE

  Nato a Nembro (Bergamo) da Martino e Teresa Bonomi il 20 settembre 1912. Nel 1924 entrò nella Scuola Apostolica di Albino, nel 1930 emise la prima Professione religiosa nel Noviziato di Albisola Superiore; fu ordinato sacerdote a Bologna il 26 giugno 1938 dal Card. Arcivescovo Nasalli Rocca; dall'ottobre 1943 era pro fessore allo Studentato delle Missioni sfollato a Castiglione; il 1 ottobre 1944 muore a Pioppe di Salvaro.

  20 luglio 1944. - Un giovane sacerdote, che ha i fianchi recinti da un cordone nero, bussa alla porta della casa parrocchiale di Salvaro. Gli viene ad aprire un altro giovane sacerdote, alto, di aspetto sereno come è serena la sua anima. Sbircia dal la porta socchiusa e con un «oh» di sorpresa si slancia a stringere ripetutamente la mano al nuovo venuto:
  — Oh! padre Martino! Finalmente ti sei deciso! Entra, entra! —
  E don Elia lo accompagna fino alla poltrona del vecchio arciprete, Mons. Fidenzio Mellini.
  È una festa per il buon vecchio sacerdote il vedere un altro giovane prete accanto a sè per aiutarlo in quei momenti tanto difficili. Sentiva infatti l'inesorabile avanzare dell'uragano della guerra, sebbene fosse viva in tutti la speranza che quelle località fuori mano fossero tagliate fuori dal grosso della battaglia.
  Fin dalla fine di giugno il buon Monsignore aveva avuto la fortuna dell'assistenza amorosa dell'ottimo salesiano, don Elia Comini, che aveva lasciato il suo collegio di Treviglio, ove era professore di lettere, per stare un po’ accanto alla sua mamma e recarle conforto nel passaggio del fronte di guerra. Don Elia, giunto zoppicante ancora alla gamba destra per una ferita riportata durante il viaggio nel soccorrere persone in pericolo, fin dal principio si era fermato presso mons. Mellini e gli era stato di grande conforto e di inestimabile aiuto nel suo difficile ministero. Lo sanno i Salvaresi e gli sfollati di quelle località che si videro sempre il sacerdote accanto pronto per le confessioni, zelante nella predicazione, abile a sfruttare le sue doti di buon musicista per rendere più liete e attraenti le funzioni sacre; contento sempre di far più contento il suo caro Monsignore. E quando si era trattato di festeggiare il suo 57° anniversario di ministero parrocchiale a Salvaro, era stato d. Elia che fin dai primi di luglio, attraverso i dirupi del monte Salvaro, era passato di casa in casa invitando i bambini al catechismo e preparandoli, con l'aiuto delle suore, alla Santa Comunione.
  Ed ecco un altro sacerdote, pur esso giovane, che gli si affiancava: Padre Martino Capelli, dei Sacerdoti del S. Cuore, che dopo aver predicato a Veggio presso Grizzana, manteneva oggi la promessa fattagli giorni prima: di passare le vacanze presso di lui e aiutarlo nel suo ministero. Giungeva proprio ora da Burzanella con la sua valigetta e col suo buon sorriso.
  I due giovani sacerdoti s'intendono subito tra di loro e si prodigano insieme per il bene di quelle anime. Assieme preparano la festa di Monsignore il 30 luglio. Assieme lottano contro la prepotenza tedesca e per la difesa dei deboli e degli innocenti. Ma Padre Martino Capelli preferisce portare l'opera della sua predicazione anche alle parrocchie vicine, per cui d. Elia, fino al 25 settembre, spesso si troverà solo nella canonica di Salvaro.
  La domenica 23 luglio si ha la prima crudele rappresaglia tedesca. Il cadavere di un soldato viene trovato sulla strada porrettana, proprio nella zona fra Pioppe e Salvaro. Subito i tedeschi fermano i primi dieci civili che incontrano e li uccidono, saccheggiano le case coloniche sull'altro versante di Malfolle, a Salvaro e le incendiano.
  Decine e decine di persone, specie uomini, si rifugiano nella chiesa e in Canonica per sfuggire alle ricerche nemiche. Don Elia è lì, pronto ad accoglierli, con una parola di conforto per tutti, inesauribile nella sua carità.
  Quando il primo agosto una compagnia di tedeschi si ostina a voler occupare diversi ambienti della canonica, incuranti del grave disagio in cui avrebbero posto i familiari dell'arciprete, e i numerosi sfollati ivi rifugiati, è d. Elia che riesce a calmarli e li convince a sistemarsi nell'archivio parrocchiale.
  E quando quelli invadono il piazzale della chiesa coi loro rombanti carri armati, è ancora d. Elia che con modi ancor più gentili e parole persuasive riesce a farli allontanare, con grande soddisfazione di Monsignore, bisognoso di riposo.
  Spinge la sua generosità fino a percorrere in bicicletta sette chilometri, sotto la pioggia, per portare al vecchio Monsignore ammalato una medicina necessaria. Ed è tanto il tatto con cui sa sempre accogliere i tedeschi che si presentano alla porta della canonica, che questi sono costretti a mostrarsi più benevoli, e si trattengono volentieri in conversazione con l'arciprete, chiamandolo: «il vecchio pastore buono».
  Interessante 1'atteggiamento dei partigiani verso questi sacerdoti. Essi sono numerosi e ben armati. Spesso calano anche in paese dai dirupi boscosi di Monte Salvaro e di Monte Termine, facendosi vedere a tutti spavaldi e fieri, entrando perfino nelle abitazioni del paese. Una notte bussano anche alla porta della canonica: d. Elia, col consenso di Monsignore, li fa entrare e li trattiene in casa esortandoli alla carità e all'indulgenza. La domenica seguente un gruppo di loro, forse colpiti dalle parole di d. Elia, fanno ritorno alla chiesa ed entrano per ascoltare la Santa Messa. D. Elia è in trepidazione per loro e per tutti. Li esorta alla prudenza, poi va in sagrestia ad appartarsi e si porta all'altare. Ma ad un certo punto si rompe il quieto raccoglimento della preghiera: dall'ingresso si diffonde un rapido movimento di persone, passi pesanti affrettati, chiacchierio e sussurro insoliti: è il terrore della rappresaglia tedesca. I partigiani fiutano il pericolo; svelti fuggono dalla chiesa e si eclissano sui monti. Che era successo? Era stato scorto giù alle «Piane», vicino alla strada Porrettana, un cannoncino tedesco puntato sul paese, pronto ad entrare in azione, se si fossero scorti movimenti sospetti.
  Finita la Messa, d. Elia calma il popolo spaventato, si mette in mezzo a loro uscendo con essi dalla chiesa, assicurandoli che tutto sarebbe passato senza pericoli. E così è: alcune ore dopo il cannoncino è partito.
  Invece più difficili sono le relazioni di P. Martino Capelli con i partigiani.
  Da quando era giunto in quella zona, lo avevano visto sempre in movimento da una parrocchia all'altra, perchè P. Martino preferiva la predicazione come opera efficace di apostolato e accettava volentieri gli inviti che frequenti gli venivano rivolti dai parroci vicini.
  Chi è quel prete col cordone nero ai fianchi?
  I partigiani l'avevano qualche volta accostato, ma P. Martino, nel timore di compromettersi, aveva sempre tenuto con loro un contegno prudente e riservato. E quando giunge al suo orecchio la notizia di alcuni soprusi e anche delitti compiuti dai partigiani verso persone inermi ed innocenti, non sa tacere e pubblicamente biasima simili azioni. Queste ultime proteste, fatte a voce alta, li convincono ancor più che P. Martino sia un cappellano militare repubblichino che spia i loro movimenti. Una volta giungono a minacciarlo di fargli scavare la fossa, dove l'avrebbero ucciso e sepolto, se non dimostra di essere davvero un sacerdote dello Studentato delle Missioni del S. Cuore, che si presta volentieri ad aiutare Monsignore e gli altri parroci nel loro ministero.

* * *

  29 settembre: festa di San Michele Arcangelo, Titolare della parrocchia di Salvaro.
  È giorno festivo per gli abitanti della zona.
  Il cielo si imporpora ai primi sprazzi di luce che calano dalle alture di Monte Salvaro e sembra anch'esso voler partecipare alla festa del grande Arcangelo, mentre le campane chiamano festose alla prima Messa. Ma i parrocchiani e gli sfollati non dormono più da tempo.
  Una sinfonia cupa di spari che si incrociano da ogni parte li aveva fatti balzare presto dal letto ed, ancora fra il primo baluginare dell'alba, si erano affrettati verso la chiesa. Ed ora il piazzale e l'atrio rigurgitano già di persone che discutono animatamente, sospirano sommessi, singhiozzano col terrore della morte vicina.
  Da ogni parte del Monte Salvaro si moltiplicano i crepitii delle mitragliatrici e ogni tanto una fiammata si alza al cielo col suo pennacchio di fumo e si va ad unire alle altre che già numerose si levano da ogni parte.
  Mons. Mellini dà ordine che siano aperte le porte della chiesa, e il popolo vi si riversa impaziente, fiducioso di trovare un rifugio sicuro nel luogo sacro.
  P. Martino celebra subito la prima Messa alla quale seguiranno immediatamente quella dell'Arciprete e di d. Elia. Non è possibile seguire l'orario festivo, come si era fissato per quel giorno.
  Il popolo non si stanca di pregare ginocchioni.
  L'azione tedesca si era profilata fin dal 25 settembre, quando un reparto di S.S. aveva occupato la zona di Pioppe di Salvaro. Il comandante aveva fatto conoscenza col P. Basilio Memmolo, il quale volentieri aveva promesso di insegnargli l'italiano, e si strinsero subito fra di loro rapporti cordiali. Sembrava che tutto andasse per il meglio, quando il giorno dopo alcuni tedeschi, a caccia di rifornimenti dai contadini, si impegnano in un alterco con uno di questi che non vuole cedere loro il suo maiale. Fattisi avanti alcuni partigiani prendono le difese del contadino e vengono alle armi: un tedesco è freddato. I partigiani si dileguano, ma poco dopo rinforzi di S.S. giungono sul posto, uccidono i tre soli uomini che possono rintracciare, poichè gli altri si sono dati alla macchia; incendiano tre pagliai e una casa, mentre le donne e i bambini spaventati si precipitano nei rifugi.
  Subito, giunta la notizia in canonica, don Elia e P. Martino accorrono sul posto, confortano amorevolmente i bambini e le donne, li accompagnano alla chiesa di Salvaro: due famiglie le alloggiano presso le suore. Poi pensano a ricuperare le salme, che estraggono dal fango, le ricompongono in rozze bare fabbricate da loro stessi a stento con mezzi di fortuna, e, il giorno dopo, fanno il trasporto alla chiesa, e, dopo le esequie, la sepoltura nel cimitero parrocchiale alla presenza di numerose persone.
  D. Elia ha già pronto il progetto di portarsi presso il Comando delle S.S. per chiedere che quella zona non sia molestata, essendo abitata solo da lavoratori tranquilli. Progetta anche di offrire una grossa somma come riscatto, somma che si impegnano di versare tutti gli uomini della zona. Invece, la mattina del 29 settembre, scoppia questa più feroce e cieca rappresaglia.
  Durante la Messa di P. Martino, d. Elia cerca in canonica e nelle adiacenze della chiesa un rifugio per gli uomini, che sono i più esposti al pericolo; e lo trova.
  Finita la Messa, P. Martino, come se tutto fosse normale, va a portare i Sacramenti ad un'ammalata, e d. Elia, mentre celebra l'arciprete, sgombera una piccola sagrestia, adiacente alla grande, che era servita fin allora ad una famiglia sfollata, vi fa entrare una settantina di uomini e poggia contro l'ingresso un armadio, dopo aver raccomandato il silenzio. Poi va a celebrare. L'ultima sua Messa!
  Giunto alla fine, prostrato ai piedi dell'altare, invoca l'aiuto del S. Cuore, l'intercessione di Maria Ausiliatrice, di S. Giovanni Bosco, di S. Michele Arcangelo. Fa recitare tre volte l'atto di dolore, conforta i presenti ad essere preparati ad ogni evento e dice alla Madre superiora delle suore di pregare ad alta voce perchè tutti possano seguirla. Poi si reca in sagrestia; scosta l'armadio, che cela l'ingresso al rifugio degli uomini, e parla ai più avviliti, li solleva e conforta con la sua parola serena e paterna.
  Giunge intanto una grave notizia.
  Alla casa «Creda» le S.S. germaniche, assieme a repubblichini italiani, hanno arrestato come ribelli 69 persone: un uomo è riuscito a fuggire e chiede aiuto.
  Non c'è da esitare: il cuore dell'apostolo non trema anche davanti ai pericoli più gravi quando si tratta del bene del prossimo.
  Pochi istanti dopo i due apostoli moderni, d. Elia e P. Martino, incuranti del pericolo, sordi alle esortazioni dei fedeli che li scongiurano di non andare, P. Capelli munito ancora degli Olii Santi, salgono dalla «Serra», attraverso le mulattiere, verso casa «Caposena» e la più lontana «Creda», sotto il fuoco nemico, fra il sibilo delle pallottole.
  Ma alla «Creda» i tedeschi li fanno prigionieri. A nulla valgono le proteste, la veste che indossano.
  — Siete spie! — insistono quegli energumeni.
  Li trattano brutalmente, li costringono a trasportare munizioni caricandoli come giumenti, compiacendosi di vederli affannali sotto il peso, su e giù per le dure rampe, sotto la loro rigorosa sorveglianza, e facendoli assistere impotenti alle più raccapriccianti violenze verso poveri innocenti.
  La notizia della loro cattura porta la costernazione nella canonica di Salvaro, dove il vecchio Monsignore, soffocato da tutto quel movimento di rifugiati e di ospiti atterriti, assordato dagli spari sempre più insistenti, non può aver la forza di reagire e trovare li per lì un mezzo per aiutarli.
  Alle 14 intanto il gruppetto di tedeschi, che li tiene prigionieri, si ferma alla «Serra di sotto», vicino alla chiesa di Salvaro. Entrano da padroni, ordinano alla famiglia che quivi abita un buon pranzo; ma lasciano i due sacerdoti fuori dalla porta sotto la scorta di uno di loro. Quei buoni contadini chiedono e ottengono il permesso di dare anche ad essi un po’ di cibo, e apprestano loro con gioia quanto hanno di meglio. P. Martino accetta e rompe il digiuno, d. Elia non riesce ad inghiottire un boccone.
  La stessa sera sono condotti a Pioppe e rinchiusi, con altri quattro sacerdoti e circa 130 uomini rastrellati, nelle stanze sopra la scuderia della Canapiera, dirimpetto alla chiesa di Pioppe. Quivi, strettamente addossati gli uni agli altri, trascorrono la notte. Padre Capelli, conscio della sua innocenza, è certo di venire liberato subito e fa i suoi progetti per ritornare a Bologna e poi a Bergamo, onde uscire dall'attuale stato di emergenza, pieno di imprevisti.
  La mattina del 30 settembre, i tedeschi li passano in rivista, li esaminano ad uno ad uno, scelgono gli uomini più robusti, una ottantina, e li spediscono in appositi campi di concentramento per i lavori in Germania. Gli altri, meno abili al lavoro, sono di nuovo rinchiusi nella scuderia della Canapiera.
  Sono ore di trepida attesa e di penoso sconforto.
  Si forma un tribunale per interrogarli sommariamente e giudicarli. Presiede un ufficiale tedesco, assiste al suo fianco un giovanotto diciassettenne di Calvenzano, un vigliacco traditore che tutto il giorno prima avea guidate le S.S. alla caccia dei partigiani e dei civili che egli indicava come favoreggiatori, assicurando di poterlo fare, perchè da tempo si era finto partigiano e viveva in mezzo a loro per spiarli.
  Passano ad uno ad uno.
  P. Basilio è interrogato sul modo come è stato rastrellato, se conosce il parroco di San Martino di Caprara, il centro dei partigiani, e alla sua risposta negativa viene messo in un angolo ove già attendono gli altri sacerdoti: P. Allusi, d. Venturi e d. Fornasini. Assieme verranno poi inviati a Bologna per avere da Sua Em.za il Card. Arcivescovo un documento che comprovi la loro qualità di sacerdoti.
  Si avanza P. Martino: è tranquillo, della tranquillità che è frutto della innocenza. Ma ecco che il giovane traditore di Calvenzano gli punta il dito contro:
  — Ti ho visto coi ribelli a S. Martino di Caprara! — accusa inesorabile.
  Il Padre rimane un po’ sorpreso, poi si difende: sì, era stato infatti a Caprara il 15 agosto e dal 7 all'11 settembre vi aveva tenuto un corso di predicazioni per le feste della Madonna del Rosario; allora si era anche incontrato con dei partigiani, che, ricordate?, l'avevano persino minacciato!
  Ma le sue parole sincere non possono cancellare la perfida accusa del bandito, e viene rimandato nella scuderia.
  Poco dopo anche d. Elia, sotto la stessa accusa, lo raggiunge nello stanzone e gli getta le braccia al collo. Comprendono che la loro sorte è segnata.
  Fuori intanto continuano sinistri gli spari lungo la vallata del Reno e per le alture si alzano vorticose le fiamme dalle case, dai pagliai e dai roghi ferali ove i cadaveri, cosparsi di benzina, bruciano con odore nauseabondo.

* * *

  È il pomeriggio dello stesso giorno. Due suore, un po’ spaurite, raccolte nel lungo velo nero, con una sporta rigonfia al braccio, strette l'una all'altra e lanciando al cielo sguardi carichi di ardente implorazione, partono dalla chiesa di Salvaro e si calano giù, tenendosi riparate contro le macchie delle siepi, verso la chiesa di Pioppe.
  Hanno tanto discusso lassù nella canonica di Salvaro, e si è deciso di fare anche questo tentativo per portare cibo e abiti ai due poveri prigionieri e cercare di liberarli. La superiora e una sorella si sono offerte: i tedeschi, si spera, rispetteranno l'abito sacro che indossano.
  Sono già a pochi metri dalla scuderia, quando il loro cuore sussulta al comando secco di una sentinella tedesca. Bisogna fermarsi!
  — Chi cercate?
  — Vorremmo parlare col Comandante — risponde la superiora. Ambedue cercano di sorridere, mentre il cuore sembra voglia scoppiare.
  — Comandante? — riflette la guardia. —
  Più avanti! — si decide poi accennando oltre la canapiera.
  Le sorelle ringraziano umili e avanzano. Ecco! sono proprio sotto le finestre della scuderia... sentono le voci dei prigionieri...
  — Madre superiora! —
  Le suore alzano di scatto il capo. È d. Elia che. affacciato ad una finestra, le chiama forte.
  — Don Elia! Come mai si trova lì? —
  — Per fare la carità se ne paga la pena! —
  Ha il sorriso sul volto, ma gli occhi imperlati di lacrime:
  — Fra breve andrò a ricevere il premio: — e indica il cielo col dito.
  — No! tornerà a casa! Vede: veniamo da lei per consigliarci sul da farsi! — replicano le suore.
  Don Elia scuote il capo tristemente: è conscio della sua prossima fine.
  Un giovane di Pioppe, che intanto si è affacciato alla finestra con d. Elia, lo abbraccia stretto:
  — No! no! don Elia, stia qui con noi! — esclama singhiozzando. — Lei è il nostro conforto e noi la difenderemo!
  La scena è commovente. Parecchi uomini, che sono sulla piazzetta in attesa di essere giudicati, si asciugano le lacrime.
  Il tedesco di guardia si irrigidisce e ordina alle suore di allontanarsi subito, ed esse ubbidiscono con rimpianto.
  Ad una svolta un altro picchetto di tedeschi le ferma coi mitra puntati. Altre interrogazioni burbanzose.
  — Vogliamo parlare al Comandante! —
  Uno di quei mostacci, dal riso deformato e lo sguardo atroce, punta fortemente il fucile nella schiena della suora che ha parlato e, con urla gutturali, la ricaccia indietro:
  — Io essere comandante! —
  Gli altri tedeschi alzano le armi in gesti minacciosi e accennano a loro di tornare indietro. Ed esse ritornano.
  Ripassano avvilite sotto le finestre della scuderia, vedono ancora d. Elia che si sporge:
  — Portateci qualche cosa da mangiare, se potete —
  Annuiscono, accennano alla borsa che avevano preparato per loro, e salutano con la mano.
  — Arrivederci in cielo! — risponde don Elia.
  Sono le ultime parole che sentono dalle sue labbra.

* * *

  Una ragazza, la sera stessa può recare un po’ di cibo ai due sacerdoti e anche, pare, la maestra di Salvaro può avere un colloquio con loro.
  Ancora raggi di speranza.
  Ma quella è notte di preghiera e di rassegnato abbandono nelle mani di Dio, per tutti quegli infelici che sentono la morte incalzare con ritmo inesorabile.

* * *

  Domenica: primo ottobre.
  A Salvaro si celebra la festa della Beata Vergine del Rosario e fin dal primo mattino i fedeli si riversano in chiesa, si buttano supplici ai piedi di Maria per strapparle la più grande grazia: la liberazione dei loro cari.
  Nel pomeriggio vengono tolti ai 45 prigionieri i documenti, i portafogli, gli orologi e quanto tengono nelle tasche.
  È il colpo fatale ad ogni loro illusione: capiscono che ormai è vana ogni speranza e che bisogna morire.
  P. Martino, fino allora taciturno e spesso immerso nella preghiera, si accosta a d. Elia, si abbracciano fraternamente, si appartano in un angolo della stanza, parlano fra loro sommessamente e poco dopo i circostanti vedono i segni di croce che si tracciano a vicenda. È l'ultima confessione: la preparazione prossima a presentarsi al tribunale di Dio.

* * *

  Ore 19,30. Già il sole è calato dietro le creste di Monte Pero e il roseo sfrangiato delle nubi si va incupendo nella foschia del crepuscolo.
  Un triste corteo si incolonna sulla strada dalla scuderia della Canapiera e si dirige, scortato dai mitraglieri, alla «botte» (*) della Canapiera. La «botte» è senz'acqua, il fondo è un alto strato di melma.
  A pochi metri vengono piazzate le mitragliatrici. A tutti si tolgono le scarpe, a qualcuno anche la giacca, ai sacerdoti il soprabito; poi li dispongono in fila sui margini della «botte».
  D. Elia Gomini si riscuote, guarda attorno, alza la mano e a voce alta dice le parole dell'assoluzione. Molte mani si levano nel segno della croce. Poi rivolge gli occhi fiammeggianti al cielo e grida più volte:
  — Pietà!... Pietà, Signore! —
  (*)La «botte» è un serbatoio d'acqua alla fine del canale, a fianco del Reno, e serve per regolare l'acqua che da l'energia elettrica alla canapiera.

  È l'accorata supplica del pastore che invoca per le sue pecorelle; è l'incontenibile invocazione dell'animo innocente che non sa capire perchè la morte debba raggiungere vilmente ingiusta tanti innocenti.
  Ma la sua voce angosciata viene troncata da una spietata raffica di mitraglia.
  Sono le 19,35; cadono le vittime riverse. e a poco a poco anche gli ultimi soffocati gemiti vanno spegnendosi.
  Ad uno ad uno sono passati in rassegna e sui meno colpiti si accaniscono ancora i carnefici a colpi di fucile.
  Poi tutti sono rovesciati nella melma della «botte».
  Ancora gettano, in quel carnaio, delle bombe a mano e gli aguzzini se ne vanno soddisfatti.
  Alcuni giorni dopo due di essi si millanteranno in paese:
  — Due Pastoren kaput! —
  Nella canonica di Salvaro, ove ancora si sperava, giungono le scariche di mitraglia, i gridi di lamento, gli scoppi delle bombe a mano e si comprende che ormai si è compita un'altra ingiustizia sulla terra.

* * *

  Il Sig. Ansaloni, una delle vittime, già mutilato della guerra europea, sentendosi ancora in vita, benchè avesse riportate tre ferite, cerca di uscire dalla «botte». Nel rialzarsi si appoggia a P. Capelli (quello del cordone), il quale, sentendosi toccare, si alza in piedi, gli rivolge alcune parole e gli la un segno di croce. Ma l'Ansaloni è talmente stordito che non riesce a capire ciò che il Padre gli dice. Alcuni minuti dopo lo vede ancora in piedi che traccia segni di croce, e poi non ne sa più nulla; mentre lui si nasconde nelle vicinanze fino al 18 ottobre.
  Altri due riescono a salvarsi, fra i quali Borgia Pio, un operaio dello stabilimento. Due muoiono dissanguati mentre tentano di fuggire.
  Non si risparmia nulla per ricuperare le salme: specie dei sacerdoti. Ma ogni tentativo è vano: intensa è la vigilanza dei tedeschi, scarsi i mezzi per estrarli dal fondo.
  Alcuni giorni dopo i tedeschi aprono le griglie del canale, vi immettono l'acqua che entra vorticosa e trascina con sè nel Reno le salme delle vittime gloriose.