Don GIUSEPPE LODI SUDDIACONO Nato a Reggio Calabria il 22 ottobre 1922 da Pietro e Abbondanza Borruto. Socio di Azione Cattolica, entrò in Seminario a Bologna per iniziarvi lo studio della filosofia; fu ordinato Suddiacono nell'aprile del 1944. Il 29 settembre 1944 fu ucciso a Ronchidosso, ove era sfollato con la famiglia. |
La primavera si è insediata lussureggiante nella vallata del Silla e la vegetazione in pieno rigoglio macchia di un verde cupo le pendici che si inerpicano ondose verso il Monte Belvedere o verso il Monte Grande che nasconde Pianaccio da una parte e la Madonna dell'Acero dall'altra.
Un giovane «pretino», la valigia alla mano, sale stancamente dalle alture di Gaggio Montano, dove è giunto con mezzi di fortuna, su verso i mille metri della borgata di Ronchidosso, e ogni tanto si ferma a prender fiato, respira a pieni polmoni quella fresca aria montana e si delizia delle splendide gradazioni del verde che lo circonda e che dietro a lui si fa più violetto verso le alture a gobba del Cimone ancora incapucciato di neve, fino a perdersi nell'azzurro di cobalto del cielo; e sente sotto quel fruscio di foglie e di erbe il prepotente scorrere della vita.
È don Giuseppe Lodi, il giovane levita, che proprio il giorno prima è stato ordinato suddiacono dal Card. Arcivescovo di Bologna, nelle mani del quale ha fatto voto di castità a Dio, ed ora con lo spirito leggero, in questa giornata festosa d'aprile, si porta lassù a Ronchidosso, dove l'attendono i suoi genitori e il fratello, ivi sfollati dalla città.
Anch'egli spera di poter, in quel soggiorno montano, fra i boschi e sui prati, saturarsi di salute e irrobustire il suo corpo un po’ troppo gracile, per affrontare le dure fatiche dell'apostolato.
Oh, la sua fanciullezza piena di salute, quando era sempre fra i primi nelle passeggiate montane o nelle escursioni dei Campeggi alpini, ai quali partecipava come socio dell'Azione Cattolica! Allora poteva anche permettersi di viaggiare digiuno, di passare digiuno lunghe ore in treno, per giungere digiuno, alla chiesa ed ivi innanzi tutto nutrire la sua anima del Pane degli Angeli. Perchè fin d'allora la Comunione quotidiana era una necessità per la sua vita interiore.
Ed anche quando, frequentando il ginnasio, sentì prepotente l'invito del Signore a seguirlo nella schiera dei suoi sacerdoti e, ottenuto, dopo un lungo periodo di incertezza, l'approvazione del padre, potè indossare la veste nera del sacerdote nella chiesa del S. Cuore per mano di don Gavinelli, era ancora fiorente di salute, trasudava dai pori voglia di vivere.
Ma il suo corpo ebbe allora uno sviluppo impensato ed eccessivo e gradatamente la salute andò declinando. Il terzo anno di Seminario fu estenuante, angoscioso nelle lunghe giornate quasi tutte trascorse a letto. Oh, le ricorda ancora le ripetute visite mediche, i raggi inquietanti, le disgustose analisi, le opprimenti cure che lo incatenavano al letto, le corroboranti punture di ogni genere che si susseguono con ritmo snervante, e nonostante tutto, sempre, per mesi e mesi, quella febbriciattola insulsa che non gli dà quiete.
O lunghe giornate di spasimante attesa, rese tollerabili solo dal conforto della preghiera frequente che irrorava benefica la sua fiducia in Dio!
E sempre poi. anche in seguito, gli sono rimasti i residui di quell'anno triste. E allora rifiorì il suo sogno: la montagna. La montagna per lui è la salute!
Su a Camugnano, presso il Parroco, passa le prime vacanze di Teologo; a Camugnano ritorna e compie il secondo e il terzo anno di Teologia, e Camugnano sembra gli abbia ridato un po’ di sangue sano.
Ora, in questo aprile del 1944, può raggiungere i suoi lassù, sui mille metri, ove attenderà con loro il giorno, ormai vicino, della sua ordinazione sacerdotale.
La pace di quella solitudine montana è ben presto turbata. Già dal giugno del 1944 si moltiplicano nei dintorni i vandalici soprusi a conclusione delle solite scaramucce fra partigiani e tedeschi.
Il 27 giugno, al bivio Lizzano-Pianaccio, i tedeschi impiccano un morto. Sì, non ridete!, proprio un morto! per intimidire i vivi.
Poco dopo legano un civile, mani e piedi, alle inferriate del Palazzo Comunale di Lizzano e ve lo lasciano, fra indicibili tormenti, per cinque ore. Poi lo impiccano a fianco dell’altro, impiccato già morto.
Con questi macabri episodi ha inizio una serie ininterrotta di crudeltà e di misfatti in quella zona che culmineranno con l'eccidio di «Ca’ Berna», ove decine e decine di persone sono trucidate.
E anche Ronchidosso è messa a ferro e fuoco.
È il 29 settembre 1944: alcuni tedeschi si sono arrampicati fin lassù, sono entrati in una stalla di un contadino nella borgata e ne hanno prelevato il bestiame che poi si trascinano dietro, indifferenti alle sorde imprecazioni del montanaro derubato. Altri contadini fanno gruppo attorno a lui e gli fanno coro.
Ad un tratto una fucilata è partita da una casa e ha raggiunto il gruppo dei razziatori. Chi ha sparato? Sembra sia stato un contadino, che non poteva prevedere le conseguenze del suo atto inconsulto. Non pare ci sia stato alcuna vittima, ma i tedeschi diventano belve. Ritornano con il mitra imbracciato, entrano nelle case, fanno tutti prigionieri, buttano tutto all'aria, appiccano il fuoco. Nulla viene risparmiato. Per loro tutti sono colpevoli.
Anche don Pino è imbrancato con gli altri, circa una dozzina, e con lui il babbo, la mamma e il fratello.
Proprio contro di lui, il più innocente, si scaglia il furore e l'odio dei nemici.
È quella veste nera che li acceca d'odio e gliela strappano a brandelli, gli sputano in faccia, lo colpiscono ai fianchi con calci e piattonate, lo insultano volgarmente nelle forme più plateali.
Egli, fisso lo sguardo in alto, ha qualche tremito di ribellione, ma riesce a contenersi e a conservare tutta la sua serenità.
Più ancora: i suoi genitori fremono e piangono per lui, gli altri sventurati si disperano perchè li tortura il pensiero dei figli, della sposa, o della madre che possono essere preda di quei forsennati. Egli dimentica se stesso, le sue sofferenze, le sue inaudite umiliazioni per dire ad essi la parola della fiducia e del conforto. In questo raggiunge il sublime dell'eroismo cristiano.
Infine i tedeschi si decidono a disfarsi di lui.
Dopo un lungo cammino fra i dirupi la colonna si ferma e, sotto gli occhi esterefatti dei genitori e degli altri prigionieri, gli scaricano addosso i mitra e lo fanno rotolare esamine a terra.
E non sono sazi: lo cospargono di erbe secche e di sterpi e gli appiccano il fuoco. Poi ne spargono le ossa attorno, sadicamente.
Saziato il loro odio, si trascinano dietro gli altri infelici e i genitori che si sentono paralizzati dall'orrore, per poi finirli altrove.
Così cade don Pino Lodi, il generoso figlio dell'onesto macchinista Pietro e della santa donna Abbondanza Borrato, il socio esemplare di Azione Cattolica che si era proposto la Comunione Quotidiana, il zelante seminarista che affrontava generosamente le difficoltà e gli attacchi della malattia che gli minava il fisico, per studiare intensamente e prepararsi ad essere un degno sacerdote.
Egli ha raggiunto la meta a 22 anni: una meta che non si era prefissa, ma che il Signore, nei suoi imperscrutabili disegni, gli aveva predestinata: l'olocausto della sua giovinezza a riscatto dell'odio, che tramuta gli uomini in belve inferocite.
Don Pino, che cadde in ginocchio sotto il piombo nemico, don Pino che giace oggi sotto l'ombreggiato sacrario di Ronchidosso, rivive col suo spirito fra noi a condanna di ogni violenza, di ogni odio, di ogni vendetta.
Ci dice che non vi è mai ragione di strategia militare che possa rendere lecite queste barbare persecuzioni a cui abbiamo assistito in questi tristi anni; che renda lecito la razzia, la rappresaglia, il rastrellamento e la deportazione: macchie della civiltà teutonica che tutti abbiamo subito e che sì tristi strascichi di odio ha lasciato dietro di sè.
Don Pino ponga il suggello col suo giovane sangue a un'epoca di odio che mai più abbia a riaffacciarsi sulla terra.