Quello che verrà qui raccontato ha un carattere particolare in quanto conosco tutti i personaggi con i quali, in gran parte, mi sono trovato sui banchi delle elementari.
Villa Prati è una frazione del Comune di Bagnacavallo, Romagna autentica, fedele alle sue storiche tradizioni anticlericali ed estremiste. La gente è laboriosa e onesta, però ha una grande simpatia per il rosso. Se De Gasperi e Sceiba capitassero nelle loro mani non la passerebbero certamente tanto liscia. Togliatti invece sarebbe fatto imperatore! Del resto ognuno ha i suoi gusti e che se li tenga.
Ha un merito il mio paese: durante il fascismo non si è mai piegato. La bandiera rossa fu l'ultima ad essere ammainata sul tetto di Giuseppe Manzani, denominato «Pulsòn». I suoi funerali, avvenuti in periodo fascista, si svolsero senza prete con decine di corone di garofani rossi. E accanto a questo corifeo del socialismo ateo si formò tutta una scuola, i cui seguaci, quando passavano davanti alla Chiesa, sputavano per terra. Gente umile che potè sfuggire all'importanza. Il fascismo gliene uccise due. Pochi giorni dopo le macabre soppressioni, Radio Mosca narrava i particolari del fatto. Ciò, durante l'epopea mussoliniana.
Il nucleo di questa tradizione era costituito da un gruppo di case poste sulla sinistra del canale Naviglio, detto Borghetto. A noi ragazzi dire Borghetto significava settimana rossa, antireligione, comunismo.
Figurarsi dopo l'8 settembre 1943! La vanga divenne una clava, ogni donna un'Anita Garibaldi, e ogni giovane un ribelle!
Fra tutti questi giovani «ribelli» entrati a far parte della Brigata della medaglia d'oro Bulow (naturalmente comunista) e coi quali io sono stato sui banchi delle elementari, bisogna che vi presenti Alvaro Capelli chiamato in romagnolo «e marescial». Usciva dal celebre Borghetto e, per giunta, con una sicura tradizione famigliare che non ammetteva tra le «suppellettili» il Crocifisso.
Al padre suo, Meo d'Bonavéia, fu inviato un paracadutista durante la clandestinità. Disgraziatamente al passaggio del fronte rimase ucciso da una granata. Il figlio Alvaro, cioè «e marescial», sfogò il dolore nella ribellione e nell'impegno maggiore verso il comunismo. Ebbe incarichi nel partito, divenne insomma un orgoglio dell'estremismo del mio paese.
Diverso tempo dopo le elezioni del 1948 con la vittoria della Democrazia Cristiana, scomparve. Tutti sapevano ch'egli si era recato nella democrazia popolare oltre cortina, precisamente in Cecoslovacchia. Perché questa partenza?
A voler dar retta alle varie voci messe in giro per il paese si sosteneva da una parte ch'egli temesse la dittatura della Democrazia Cristiana; altri invece affermavano ch'egli fosse stato inviato laggiù affinchè al ritorno testimoniasse ai «compagni» le realizzazioni del socialismo.
Fatto si è che da allora ha fatto ritorno solamente il 26 gennaio 1953, magro come un pioppo.
L'assenza da Bagnacavallo è durata circa tre anni. Per riferire unicamente le testimonianze più attendibili il Capelli avrebbe fatto in un primo tempo il contadino poi l'operaio meccanico. Scriveva di rado, ma ciò non costituiva un grave fatto per la gente del mio paese che non ha troppa dimestichezza con le lettere. La sorella Norma, sposata con Angelo Antonellini, affermava e proclamava dinanzi a tutti che laggiù Alvaro stava benissimo. «Hanno realizzato il socialismo. Ci sono fiori profumati, palazzi grandiosi e Chiese!». La gente restava meravigliata e si struggeva nel cuore di non poterci andare. Restare qui sotto il capitalismo di De Gasperi e la reazione di Scelba è uno schifo. Fortunato lui, dicevano.
Un certo giorno anche le rare lettere smisero di giungere. La madre, una buona donna del popolo, trepidava. «Fatevi coraggio, Tugnina — le dicevano alla cellula — vostro figlio sta meglio di noi!».
Contemporaneamente la Polizia italiana, interessata dai nostri organi diplomatici in Cecoslovacchia a cui s'era rivolta il Capelli stesso, veniva ad avvertire la famiglia che Alvaro Capelli era in prigione a Praga!
«Macchè in prigione a Praga — soggiungevano i comunisti — l'hanno messo in prigione qui in Italia perché non vogliono che si sappia che la democrazia popolare è migliore del capitalismo!». La povera Tugnina aumentava la sua avversione verso il Governo De Gasperi.
La sera del 26 gennaio, scese alla stazione di Bagnacavallo. Camminava a stenti tirandosi dietro le gambe a fatica. «Sareste così magri anche voi — dichiarò poi dopo agli amici — se vi avessero dato da mangiare tutti i giorni brodo di patate!».
Senza recarsi alla sede del Partito o della Camera del Lavoro, si mise in cammino a piedi verso casa. La sua casa, dalla Stazione, è a circa cinque chilometri, perciò a un certo punto non gliela faceva più, quando vide due suoi vecchi compagni passare in bicicletta. Erano Abramo Masotti e Ettore Vecchi. «Datemi per favore la bicicletta». Abbracci, entusiasmi. Nel ritorno si unì al trio il comunista Antonio Piccini. In breve tempo, come se un microfono avesse funzionato, si diffuse la notizia in tutto il paese. Un'ora dopo la casa di Alvaro Capelli era piena di gente.
Ma le notizie, ahimè, non erano quelle promesse. Un velo di disillusione coprì la gioia del ritorno. L'indomani i capi comunisti locali si presentarono al completo. Metto i nomi, anche se per voi, lettori, essi non dicono niente. Per me rappresentano i miei vecchi compagni delle elementari: Mario Giacomoni, Primo Vecchi, Clodoveo Calderoni, Nicola Venturi. Il colloquio durò sei ore.
La conclusione fu questa, che Alvaro Capelli pronunciò una frase che fece presto il giro fra la gente:
«Di Cecoslovacchia non ne voglio più sentire parlare. Non la voglio vedere nemmeno sulla carta geografica! Sono un lavoratore e resto con la classe operaia, ma se non sono per De Gasperi non voglio nemmeno essere per quelli di Stalin. Da sotto questo bel cielo di Bagnacavallo non me ne vado più!».
Scandalo, rumore, disillusione. Un'iradiddio insomma nel mio paese per questo ritorno. Ad un suo compagno comunista della Camera del Lavoro, che nell'accoglierlo aveva dimostrato il disgusto per la reazione capitalistica italiana, il Capelli rispose: «Non ti lamentare. Io non ho più nulla, e mi trovo i calli nelle mani e quindici mesi di prigione addosso! Sotto questo regime reazionario invece tu ti sei comperato un motoscooter e la casa!». La madre, la povera «Tugnina» le cui presenze in chiesa, in tanti anni, credo, si possono contare sulle dita di una mano, corse a portare una candela davanti alla Madonna, perchè se non ci fosse stato «qualche Santo» a venire in aiuto (come lo stesso Alvaro ha dichiarato) suo figlio non sarebbe tornato. Se invece della prigione l'avessero condannato al campo di concentramento... buona sera!
Come si è detto, tutto l'apparato comunista del mio paese si mise in subbuglio. Da una parte cercarono di convincerlo, dall'altra di esautorarlo demolendone la personalità. A Villanova di Bagnacavallo ci fu perfino chi disse ch'egli era stato messo nelle prigioni italiane da Scelba per indebolirlo di mente. Ma il Capelli è un ragazzo fiero. Ribelle ieri e ribelle oggi. Le cose che ha visto le ha narrate.
E ciò mette paura ai comunisti. Qualcuno si dice perfino abbia esclamato in cellula: «Lo potevano tenere in prigione fin dopo le elezioni!». Al repubblicano Francesco Zannoni il Capelli dichiarò: «Ero partito con dei grilli in testa, ma me li sono cavati, perbacco!». Perbacco gliel'ho aggiunto io, perché egli terminò con un improperio che cade sotto il Codice penale!