Quella mattina il giornale che riportava questa corrispondenza andò a ruba a Bagnacavallo e dintorni. Una copia, per averla fu pagata perfino L.170. Il figlio della Tugnina cominciò a diventare un personaggio nazionale dato che la stampa si impossessò subito della sua vicenda.
Per diverso tempo se ne parlò sopratutto in Romagna dove il Capelli era conosciuto erede di tradizioni familiari estremiste e ribelli che lo avevano visto partigiano comunista nella lotta clandestina, poi segretario della Sezione di Villa Prati. E, come succede sempre quando entra in mezzo la faziosità, se ne parlava in modo contraddittorio: i suoi ex compagni di Partito lo dissero un venduto alla reazione e gli altri un ragazzo coraggioso.
Alvaro Capelli intanto andava avanti per la sua strada. Malgrado le naturali pressioni rimase fisso nella lealtà di testimoniare ciò che aveva visto nel regime popolare cecoslovacco e rimane ribelle alle dittature di qualsiasi colore.
Fu così che il figlio della Tugnina, in nome dell'antica amicizia contratta sui banchi delle elementari, volle parlarmi e narrarmi ogni particolare del suo viaggio e della sua esperienza, aggiungendo località, giorno, ora e nomi.
Nell'agosto del 1948 aveva chiesto ai suoi gerarchi comunisti di Ravenna di andare al Festival della gioventù a Budapest. A lui interessava vedere da vicino il socialismo realizzato in queste Repubbliche popolari, toccarlo con mano, esperimentarlo. Non importava andare in questa o in quella repubblica, purché fosse di nuova democrazia. Ecco perchè, non essendo potuto andare a Budapest, tentò di partire con una Cooperativa di muratori ravennati per la Polonia. Buco nell'acqua anche questa volta, giacché la Cooperativa non potè partire.
Era un po' amareggiato e deluso il giovane comunista Alvaro Capelli. Un giorno a Ravenna espresse con un vecchio compagno partigiano questa sua tristezza. «Quando hanno bisogno ti cercano — gli disse — ma quando ti devono aiutare nessuno ti viene incontro!».
«Vuoi partire per la Cecoslovacchia?». Detto fatto. Alla fine di maggio 1950 dentro la sala del caffè vicino alla federazione comunista di Ravenna, il comunista Alvaro Capelli col suo passaporto italiano in tasca, riceveva una lettera da consegnare a un signore che lo avrebbe aspettato dalle 10 alle 12 nella hall del Grand Hotel di Vienna vicino alla Stazione-sud.
E cosi fu.
Partì dalla Stazione di Bagnacavallo il primo lunedì di giugno con 30 mila lire in tasca e una sconfinata fede nella democrazia popolare verso cui si dirigeva. Ma, ahimè, non sarebbero passati tre anni che il figlio della Tugnina sarebbe tornato al paesello ch'è tanto bello senza il becco di un quattrino e i suoi sogni comunisti infranti!
A Bologna perdette la coincidenza. Si fermò a Venezia e la sera dormì a Udine. L'indomani raggiunse Vienna. Il signore che lo aspettava nella hall del Grand Hotel nella capitale austriaca dalle 10 alle 12 vestiva in borghese e parlava decentemente l'italiano. Da Ravenna gli avevano mandato la foto del Capelli perché potesse subito identificarlo. E così fu. Gli prese il passaporto e qualche giorno dopo una Hopel tedesca con a bordo due signori in borghese condusse il figlio della Tugnina verso la frontiera di Znojmo. Nella vicinanza della frontiera la macchina abbandonò la strada principale e si inoltrò in una stradetta secondaria. Giunta a venti metri dalla demarcazione, si fermò. Il Capelli smontò, ricevette dai suoi ospiti due buste chiuse, il passaporto e una lettera aperta. Un cenno alla Polizia Cecoslovacca ed ecco finalmente che il comunista di Bagnacavallo calpestava suolo democratico popolare! La macchina ritornò indietro e il Capelli, dopo varie pratiche espletate nella casermetta della Polizia montava sul treno diretto a Praga accompagnatovi da un altro signore che non parlava italiano. Durò tutta la notte il viaggio. Al mattino fu presentato dall'accompagnatore ignoto all'Ufficio del Lavoro di Praga. Qui incominciarono le interrogazioni e qui il Capelli espresse il proposito di ingaggiarsi nel lavoro in una fabbrica per la durata di sei mesi, quale apprendista montatore. L'indomani lo mandarono a chiamare dall'Albergo dove aveva pernottato. In fabbrica non c'era posto. Lo avevano destinato all'agricoltura dentro un'Azienda statale. Invece del passaporto gli consegnarono una carta ch'essi chiamano «legitimatio» e sulla quale invece di Capelli avevano scritto Foschini. Incominciano gli imbrogli, dovette pensare tra sé il figlio della Tugnina! Espresse le sue preoccupazioni per il cognome cambiato, ma i dirigenti cecoslovacchi lo tranquillizzarono. E partì verso Znojmo in Moravia cioè vicino a quella frontiera che pochi giorni prima aveva oltrepassato.
La «Statnj Statek» è una Azienda socializzata dove chi fa il buio e il sereno è un Commissario politico. Costui, a guisa di sergente di giornata, suona la sveglia e invece del «buon giorno» dice: «onore al lavoro compagni!».
I compagni che lavoravano in quest'Azienda vicino a Znojmo erano 16. Gli italiani venivano ad essere 4: uno di Parma, due di Padova e l'ultimo arrivo di Bagnacavallo. I tre precedenti erano tra quei pochi dei 4 mila che con un contratto di lavoro vi erano andati nel 1948. Di 4 mila, dopo due mesi, ne erano rimasti appena 200.
Fu qui che il Capelli incontrò Matteo Massenzio, ex dirigente comunista di Viterbo, ritornato pure lui in Italia senza più la voglia di continuare ad essere comunista.
Il Commissario politico aveva la sua stanzetta col suo lettino. I compagni invece dormivano sopra un paglione, si lavavano da soli la biancheria e dovevano lavorare dieci ore al giorno per ricevere alla sera 100 corone di paga. Un pacchetto di sigarette costava 35 corone.
La bazza della democrazia popolare cominciava a farsi vedere.
L'azienda aveva una cucina come nella vita militare. E tutti i giorni gnocchi di patate con verza inframezzati con qualche cicciolo di carne di maiale. Chi faceva da cuoca era una donna. «Onore al lavoro compagni!».
Frattanto il suo passaporto ritiratogli all'Ufficio del Lavoro di Praga non gli era stato ancora restituito. Con gli altri tre italiani egli manifestò la sua preoccupazione ed un giorno gli sfuggì questa frase: «Mi sembra che le cose non vadano. Si sta creando una gerarchia peggiore dei padroni». Ma nella democrazia popolare la delazione è un obbligo e le cose hanno orecchie.
Frattanto i sei mesi erano scaduti. Al Commissario politico dell'Azienda chiese il permesso di recarsi a Praga. Appena il figlio della Tugnina entrò nell'Ufficio del Lavoro per chiedere il passaporto gli fu detto che occorrevano diversi e svariati giorni per prepararlo. Come fare? Soldi ne aveva pochissimi e a starsene all'Albergo non gli erano sufficienti. Fu cosi che dietro il loro consiglio e nell'attesa del passaporto egli entrò a lavorare a Chomotov nella ex fabbrica tedesca «Mannesmann», ora «Zavod Gustava Climenta», per fare tubi e bombole per metano.
In questa fabbrica gli operai impiegati sono 4500. Il Capelli trovò qui, più in grande, la stessa maniera di vigilanza politica che nella Azienda agricola. La «Zavodni Eada» è l'organizzazione politica che ha diritto d'estrema vigilanza sull'operaio. Una specie della nostra «commissione interna» per intenderci, con poteri illimitati. Le ore obbligatorie di lavoro erano otto al giorno. Si prendeva 160 corone. Però quotidianamente bisognava aggiungere qualche altra ora di lavoro in più compresa la domenica, a favore, delle organizzazioni popolari. Gli gnocchi di patate non cambiavano.
Passa un mese e il passaporto non arriva. Ne passano due, tre, quattro... niente. Fece le sue rimostranze al Commissario politico e gli fu risposto che il responsabile del passaporto non era in sede. Siccome era un italiano, era stato bloccato dagli scioperi in Italia. Insomma il figlio della Tugnina attese 10 mesi, poi si stancò e il 6 novembre 1951, approfittando di un giorno di ferie si recò a Praga. Gli fu difficile disimpegnarsi nel viaggio, perché la Polizia lo pedinava. Fatto si è che andò alla Legazione italiana e pregò il Console di farlo rientrare. Il Console gli lasciò un duplicato del passaporto; ma il «visto» per uscire? L'8 novembre, con questo passaporto rilasciatogli dal Console, si accompagnò con un certo Colauzzi di Milano, trovato alla Legazione italiana, e si mise in treno verso la frontiera. Alt. Alla frontiera di Ceske Velenice fu fatto scendere dalla Polizia. Ebbe appena il tempo di dire a Colauzzi che giunto in Italia scrivesse a Bagnacavallo e comunicasse alla Tugnina... Si trovò ammanettato e tre giorni dopo nella famosa prigione della «Stirka» in via Bartolomeska, numero 4.
Come mai? Perchè non gli davano il permesso di ritornare nella sua patria reazionaria? Non era scaduto da più di un anno il contratto? Come parlare al muro. Con lui stavano migliaia di altri nelle stesse condizioni e di tutte le nazionalità. Gli fecero diversi interrogatori, stilarono un atto di accusa che egli non volle firmare giacché era innocente e voleva il processo per dimostrare la propria lealtà. Fu durante questi interrogatori ch'egli capì quale spionaggio esiste nella democrazia popolare. Sapevano tutto: che cosa aveva detto e fatto, se era andato a ballare o a comperarsi un pacchetto di sigarette!
Dopo sei mesi di detenzione alla «Stirka» gli cambiarono prigione. Fu portato alla «Karlak» in piazza Karlak. Altro luogo famosissimo a Praga dove sono alloggiati circa 20 mila cittadini! Viva la democrazia popolare!
Qui stette fino al 5 gennaio 1953: 14 mesi e 10 giorni! Interrogatori, ramanzine, minacce. La mattina del 20 la porta del carcere si apre. Gli consegnano la sua valigia e insieme con un jugoslavo, Basta Daniel, ammanettati, vanno alla stazione ferroviaria vigilati da due sentinelle. Eccoci alla frontiera, a Ceske Velenice. Li fanno scendere, li portano in una casermetta, gli tolgono le manette e li accompagnano in un bosco. «Ci siamo» mormora trepidante il figlio della Tugnina. «Qui ci lascio la pelle». Giunti in un luogo deserto, aprono un varco nei reticolati di confine e li buttano di là. Senza il «visto» sul passaporto però. E quella era la zona austriaca controllata dai Russi.
Ha avuto ragione la Tugnina a portare una candela davanti alla Madonna! Se per caso li avesse incontrati la Polizia Russa, addio Bagnacavallo. Andò bene, invece. Raggiunsero Kmind a piedi e di li, in treno, arrivarono a Vienna. Erano debolissimi. Per 15 mesi di prigione aveva mangiato 250 grammi di pane nero al giorno, bevuto orzo abbrustolito e un brodino di patate con un salamino grande quanto il dito mignolo, al sabato!
L'odissea del figlio della Tugnina terminò alla frontiera italiana di Tarvisio dove la nostra Polizia lo raccolse che appena stava in piedi. Una gran mangiata di pasta asciutta e di braciole di maiale alla faccia della democrazia popolare e l'indomani giungeva a Bagnacavallo a raccontare ai compagni comunisti le meraviglie del socialismo delle repubbliche popolari.