Tenete presente questa sigla: R.O.H. che è una specie, per intenderci, della Camera del Lavoro nel regime comunista cecoslovacco. Appena il Capelli si presentò col suo arrivo a Praga a quest'ufficio, gli fecero un discorsetto. Sarà stato un fac-simile del Di Vittorio locale a dirgli, in cattivo italiano, che qui trovava il socialismo e che sarebbe stato meglio che in Italia. Qui c'era lavoro, libertà e pane. Però stesse attento in quell'azienda agricola, dove lo mandavano a lavorare vicino a Znojmo: quella era una regione reazionaria, unica in tutta la Cecoslovacchia. Naturale quindi che avrebbe notato degli scontenti contro il regime popolare!
II figlio della «Tugnina» col suo entusiasmo comunista ancora in bollore, non fece caso a quest'avvertimento, e partì. Giunto al posto del lavoro, vicino a Znojmo, si preoccupò subito di scrivere a casa. Un amico italiano gli spiegò la prassi da seguire. Le lettere non si imbucano liberamente come in Italia. Si va alla Posta, si consegna lo scritto, e si da la propria carta d'identità. L'impiegato mette nel retro della busta l'indirizzo, e l'operazione è terminata. «Attento però a quello che scrivi — aggiunse l'amico — perché qui c'è la censura.... Potresti finir male!».
Capelli scrisse a mamma «Tugnina» una cartolina con semplici parole: sto bene, saluti. Passò qualche settimana nel lavoro dell'azienda agricola statalizzata, diretta dal commissario politico, come si è detto. Costui si preoccupò della corrispondenza del nuovo arrivato. Chiamò il Capelli e gli disse, quasi testualmente: «Quando scrivi a casa non devi dimenticare che sei un militante del partito, e che è quindi tuo dovere esaltare la Cecoslovacchia popolare. Devi scrivere sempre a scopo propagandistico e non mai a danno del regime socialista!».
Il figlio della «Tugnina» ubbidì, anche perché non si era ancora reso conto della realtà. Sono le prime lettere venute a Bagnacavallo, e che i «compagni» ostentavano a tutti come trofei.
Passano due mesi, e il Capelli che era andato laggiù per vedere più che per trovare semplicemente lavoro, incomincia ad osservare e a girare nei paesetti vicini. Ogni settimana, in quella mezza giornata libera, visitava Miroslav, Prosimerice, Vradov e Litomerice: sono piccoli centri della Moravia vicino a Znojmo.
Fu in questi sopraluoghi e dopo aver preso dimestichezza con la lingua e con gli usi della gente che si accorse di un certo scontento fra le popolazioni. Gli operai si lamentavano per le dieci ore di lavoro obbligatorio al giorno, per l'ingerenza della Russia e ricordavano con nostalgia la prima Repubblica. «Ci avevano fatto tante promesse ed invece ora comanda una cricca di gerarchi!».
Le stesse lamentele furono udite dal figlio della «Tugnina» a Miroslav dove fu mandato a scaricare carbone per l'azienda agricola. Qui gli dissero: «Tu in Italia hai ancora la libertà! Beato te! Perchè sei venuto qui?».
Il figlio della «Tugnina» cominciava a capire e a vedere. Non solo a Znojmo, dunque, si era scontenti, ma dappertutto. Parlando coi suoi tre amici italiani dell'azienda pronunciò quella famosa frase, riferita poi al commissario politico e donde cominciarono i suoi guai, in nome della... libertà.
A 40 chilometri circa da Znojmo ci sta Brno. Brno (difficile per noi a pronunciarla, ma nella lingua ceca 1'erre è vocale) è il capoluogo della regione; una specie di Bologna per l'Emilia. Il tristamente celebre Spielberg dove stettero in prigione i nostri italiani irredentisti, fra cui Silvio Pellico, si trova proprio qui. Capelli chiese al Commissario politico dell'azienda il permesso di recarvisi, ma gli fu negato. Ma un sabato pomeriggio, profittando della vacanza vi andò ugualmente. Quando giunse all'albergo «Passage» di Brno, lo fecero attendere. Vennero due uomini in borghese che gli chiesero i documenti, lo salutarono e lo pedinarono fino alla sua partenza che avvenne la domenica pomeriggio. Pagò l'albergo 150 corone, una giornata e mezzo di lavoro.
Al momento di ritornare a Znojmo perdette la corriera e corse alla stazione ferroviaria. La stazione di Brno ha la biglietteria esterna. Il Capelli non riusciva a trovarla. Dei due suoi pedinatori si fece avanti uno, e sorridendo gliela indicò, anzi lui stesso si prese premura di fargli il biglietto. Al momento di entrare nella stazione per prendere il treno vide che il suo accompagnatore invece di mostrare il biglietto al bigliettaio, fece vedere il rovescio del risvolto della giacca. Il figlio della «Tugnina» capì tutto: polizia segreta!
La realtà del regime popolare cominciava a farglisi presente. Spionaggio, polizia, controllo, censura.... Tornato a Znojmo, scriveva alla «Tugnina» semplici cartoline dove si leggeva: sto bene, saluti!
Da Znojmo, come si è detto, passa a Chomotov nella fabbrica di tubi e bombole per metano. Da Bagnacavallo, tramite la «Tugnina» i suoi compagni gli mandavano a dire di scrivere. Ma che cosa scrivere? Ci fu addirittura uno, un certo Alceste Burattoni di Villa Prati (altro mio compagno sui banchi delle scuole elementari) che lo tempestava di lettere perché si interessasse a chiamarlo in Cecoslovacchia. Come poteva scrivergli la verità? Gli mandò semplicemente a dire ch'egli non poteva far nulla.
In occasione delle elezioni amministrative italiane del 1951, il gruppo degli operai italiani che lavoravano a Chomotov fu chiamato a rapporto dal responsabile politico addetto. Costui distribuì a tutti una decina di cartoline, e un foglio di appunti e ingiunse di spedire le cartoline e di scrivere molte lettere ai loro compagni in Italia. Gli appunti dicevano che in Cecoslovacchia i lavoratori avevano raggiunto l'eguaglianza; che guadagnavano; che la polizia non era come quella di Scelba in Italia. Le cartoline riproducevano la scena di un poliziotto che ballava con una ragazza in costume, sull'aia.
Il figlio della «Tugnina» pensò tra se: «Qualche lettera bisognerà che la scriva, ma le cartoline non le spedirò mai. So che cos'è la polizia cecoslovacca!».
Il responsabile politico, una settimana dopo, gli chiese se aveva scritto e spedito le cartoline. «No — rispose il Capelli — mi sono dimenticato» e si buscò una ramanzina. «Tuo dovere è fare quello che ti comanda il partito, ricordatene per l'avvenire!».
Dopo il tentativo di ritornare in Italia col passaporto rilasciatogli dal Console, il figlio della Tugnina finisce in prigione: prima alla «Stirka», poi alla «Karlak» a Praga. Ne trovò migliaia, dietro le sbarre. La prima amicizia che contrasse fu con un certo Joseph, operaio cecoslovacco. Joseph aveva il viso bonario, e al Capelli mostrava le sue mani callose dicendogli: «Beato te che quando ritornerai in Italia sarai ancora un uomo libero!».
Fu così che il figlio della «Tugnina» conobbe quella triste storia. Joseph era un operaio specializzato nel fare i tetti. Laggiù i tetti delle case sono molto verticali per via della neve, press'a poco come nel nostro Alto Adige. Ma egli era sfuggito al controllo obbligatorio. Il controllo obbligatorio nel regime popolare consiste nel recarsi alla R.O.H. cioè Camera del Lavoro, e dare il proprio nome. Tutti ci si devono recare, laureati e operai, donne e vecchi. Il dirigente politico, come un Minosse, assegna ad ognuno un lavoro, senza tener conto né dei gusti, né delle lauree, né dell'età. C'è il piano quinquennale e bisogna realizzarlo a tutti i costi! Ecco perché troverete un medico a menar di pala, e un artigiano nelle miniere.
Joseph, che lavorava per proprio conto dalle 10 alle 12 ore al giorno, non si era iscritto. Egli voleva stare con la moglie e col figlioletto, e fare il lavoro di suo gradimento. Un giorno, in Piazza Venceslao di Praga, fu fermato dalla polizia, gli furono richieste le tessere del lavoro obbligatorio, e fini alla «Karlak» senza nemmeno dire bao.
Fu processato e condannato a due anni di lavori forzati, che i cecoslovacchi conoscono nella terribile sigla T. N. P. (Tabor Nunceny Prace), nella miniera di sasso a Brno.
Onore al lavoro, compagni! Viva la libertà.