Betta Grassigli, tipografa
Mons. Guido Franzoni. - Il solo scrivere il suo nome riempie la mente di infiniti ricordi.
Ero molto giovane quando ebbi la fortuna di conoscerlo bene, non solo come parroco, ma anche come proprietario del locale dove mio padre aveva la tipografia.
Era sempre affiancato e aiutato dal suo amato cappellano don Giovanni Volpato.
Sembravano padre e figlio: tra i due c’era tanta stima ed affetto.
La perpetua di allora, la signora Amelia, spesso in contrasto con il signor Carlo (padre di don Guido), uomo semplice e molto diverso dal figlio per finezza e tolleranza, si lamentava per l’eccessiva generosità di don Guido nei confronti di tutti i poveri e bisognosi che bussavano alla sua porta. “Cammina con le scarpe rotte, gliene avevo appena comprato un paio nuove e lui le ha regalate al primo che gli ha chiesto aiuto” diceva Amelia contrariata e preoccupata per il suo parroco. Scene così avvenivano soprattutto al termine delle Benedizioni Pasquali, compito che il sacerdote voleva svolgere da solo per poter visitare, da buon Pastore, tutte le sue pecorelle.
Arrivava alla fine completamente stremato, ma felice e, appunto, …con le scarpe rotte.
Don Guido era così, sempre pronto a sacrificarsi e donare, rinunciando anche a mangiare e ai suoi abiti pur di aiutare il prossimo e la perpetua, disperata, veniva a confidarsi e sfogarsi con mio padre Giuseppe (detto Beppe) che, impotente, si limitava a cercar di calmare la donna alludendo al suo ‘principale’: “Non c’è nulla da fare, Amelia, l’è trop bòn e anch… un gran zucòn!”.
Don Guido mi ha visto nascere ed io l’ho sempre visto in tutte le fasi della mia crescita, da bambina a giovane donna, fino al momento in cui lasciò la nostra parrocchia, accompagnato da grande rimpianto e dolore da parte di tantissimi parrocchiani.
Furono molti e svariati i tentativi, ma nessuno riuscì a trattenerlo.
E anche dopo il suo trasferimento i rapporti non cessarono. Tanti i viaggi per andarlo a salutare, per avere un colloquio, per chiedergli un consiglio. Per tutti era rimasto attento e disponibile.
I miei primi ricordi di don Guido (oltre che vederlo officiare sull’altare e apprezzare la sua straordinaria oratoria nelle omelie, gradevoli e mai banali), risalgono alla sua presenza, si può dire giornaliera, presso la nostra tipografia. Fra lui e mio padre c’era un rapporto fraterno e di grande confidenza, grazie anche al comune attaccamento all’UNITALSI che entrambi amavano e la cui vocazione vivevano intensamente.
Passione ed impegno per l’assistenza ai malati che trasmisero anche a me, allora appena ventenne.
Un folto gruppo di ‘dame’ e ‘barellieri’ dell’associazione, rigorosamente in divisa, era sempre presente, dietro invito sincero di don Guido, a ogni processione, alle messe per i malati e alle funzioni mariane. Iniziarono i primi pellegrinaggi a Loreto, poi a Lourdes, e il numero dei partecipanti ai viaggi arrivò fino a cento, fra infermi, pellegrini e personale. Tutto merito della carica emotiva e spirituale che lui sapeva trasmettere.
La vicinanza e l’affetto per don Guido furono dovute anche al lavoro che mio padre svolgeva, all’ombra del campanile, per la parrocchia e che io poi ho continuato.
Le battute scherzose non mancavano mai e don Guido sorrideva e si soffermava volentieri a scambiare due sane risate con noi e chiunque fosse presente, al momento, in negozio. Pur scherzando, don Guido rimaneva comunque sempre per tutti il Sacerdote.
Quando divenni io la responsabile del lavoro, iniziò il periodo in cui dovevo avere più stretti rapporti con lui: la sua calligrafia, tipo ‘geroglifici cuneiformi’, all’inizio era per me totalmente incomprensibile e mi mandava in crisi soprattutto quando si trattava di epigrafi, scritte toccanti e con frasi e pensieri sempre meravigliosamente adatti alla persona deceduta. L’impaginazione diveniva allora molto difficile; la eseguivo con le lacrime agli occhi e il cuore gonfio di commozione.
In seguito divenni esperta a ‘tradurre’ quella scrittura e questo mi facilitò quando doveva uscire il bollettino parrocchiale “La Voce che chiama”. Il testo non era mai completo, i tempi sempre strettissimi e una volta finita (secondo me) l’impaginazione ecco arrivare don Guido che sorridendo mi chiedeva di modificare o aggiungere altri
L’Unitalsi a Loreto.
articoli. E allora stringi sopra, allarga sotto, cala gli spazi tra le righe … e con le lettere di piombo come si usava allora la faccenda non era poi tanto semplice!
Non vedevo l’ora che se ne andasse per dare sfogo alla mia tensione, parolacce, improperi, ‘non capisce niente’ … ma poi facevo di tutto per accontentarlo. Poco dopo tornava serafico e mi esortava a stare tranquilla, col suo tormentone di incitamento: “dai la mòlla!!”, (vai avanti, che va bene!). Quante notti, quasi in bianco, per finire il lavoro in tempo e don Guido era sempre avanti e indietro tra la canonica ed il negozio per controllare e sostenermi moralmente nel lavoro.
Ricordo in modo particolare il suo ultimo scritto sul bollettino in cui rivolse il saluto ai suoi ormai ex parrocchiani di Persiceto. La commozione era tanta e le righe tipografiche erano bagnate dalle mie lacrime, impossibili da trattenere.
Scrisse: “.. persicetano fui e resterò…”. Non ho mai dimenticato quelle sue parole, anche perché si sono avverate: i suoi resti mortali riposano infatti, per sua esplicita richiesta, nel cimitero della nostra città.