Non tutte le grida di dolore e di accusa dei reduci di Russia è stato possibile raccogliere nel presente processo, che non era né poteva essere il processo ai metodi criminali del governo di Mosca, i quali, come è ovvio, sfuggono alla competenza della magistratura italiana.
Citiamo pertanto alcuni severi giudizi contenuti in uno dei più recenti libri usciti sull'argomento a cura di un reduce, Gabriele Gherardini, autore di «La vita si ferma», ed. Baldini e Castoldi di Milano (Gherardini Gabriele - La vita si ferma. Prigionieri italiani nei 'lager' russi. Milano, Baldini & Castoldi, 1948, pag. 347 -o- 352 [Nota della Biblioteca persicetana]).
Scrive giustamente il Gherardini, con perfetta cognizione di causa, nella sua qualità di uno dei pochi superstiti dell’immane tragedia:
— La Russia ha scritto col sangue di oltre il novanta per cento dei prigionieri una pagina degna degli orrori di Attila.
— Una nazione che si vanta di essere all'avanguardia, ma che dico all’avanguardia? di essere di un’intera epoca storica avanti ai più civili popoli del mondo e che sbandiera con spudorata propaganda ed atteggiamenti ora da lupo ora da agnello la bugiarda e capziosa retorica di una democrazia modello imperniata sulle libertà popolari e sulla naturale e spontanea adesione, non può permettere che per sfamarsi i prigionieri giungano a divorarsi l'un l'altro come animali feroci; non può concepire di contenere morbi ed epidemie gravissime distribuendo ai moribondi pezzi di canfora che da noi è buona solo per le tarme; non lascia interi inverni migliaia di esseri, cui ha sottratto ogni indumento di lana, con pochi chili di legna da scaldarsi; non trattiene la posta e i pacchi preparati forse a prezzo di sacrifici...
— Una nazione che scrive a caratteri cubitali su libri e manifesti d’aver raggiunto i gradini più alti della scala sociale, non inverte e calpesta i valori morali del prigioniero, non lo estenua con ore ed ore di interrogatori, non lo avvelena con la perfida e strisciante serpe del fuoruscitismo...
— Qui sta la colpa della Russia, la sua grande macchia. La vittoria rende magnanimi i popoli dalle solide tradizioni e dal luminoso passato, inferocisce e rende simili alle bestie quelli che hanno rinnegato i più elementari sentimenti religiosi e umani, dandosi in braccio a un fanatismo e ad una schiavitù da deportati da cui, come diceva un umile operaio di Odessa, i russi conservano in fondo al cuore l’eco di un simbolo, attendono dal mondo di essere liberati.
Anche gli scampati dall’inferno bolscevico, quei pochi destinati non si sa per quale misterioso provvidenziale disegno a rivedere la loro Patria, non ebbero facile la via del ritorno. Mille soste, mille difficoltà militari, diplomatiche, burocratiche, ostacolarono in varie guise la definitiva liberazione dei reduci. Quale il motivo? Ce lo dice Gabriele Gherardini, dimostrando ancora una volta come il partito comunista italiano, pur di andare rapidamente al potere, non si peritava di calpestare i cadaveri dei morti e di martoriare ulteriormente le carni dei vivi:
— Per soffrire di russofobia non era necessario essere reazionari sino alla radice dei capelli o inquinati — come asserivano — dal fascismo; bastavano i centomila morti, Krinovaja col suo cannibalismo, le perquisizioni feroci, il carcere, gli interrogatori, la posta che è arrivata quando Dio ha voluto; bastavano le percosse, i treni di cadaveri, la subdola propaganda antinazionalista; bastava, infine, oltre il lavoro inumano dei nostri soldati nelle miniere e nelle fabbriche, la segregazione nei campi punitivi di ufficiali retti ed integri.
Il nostro atteggiamento antisovietico, al di là di ogni forma ideologica e sociale più o meno discutibile, era tutto lì, in questa gamma di colpe odiose, nell’esasperazione di una esistenza da schiavi, nel metodico e studiato negare sempre ogni necessità morale e materiale; e questo i russi lo sapevano, come sapevano che il momento di rimpatriare non era ancor giunto, che le elezioni (quelle del 2 giugno 1946 per l'Assemblea Costituente e il referendum istituzionale) si sarebbero fatte senza di noi, che le nostre voci di odio e di disprezzo, se volevamo farle intendere, si sarebbero udite quando il risultato fosse stato quello che si attendevano.