On. Togliatti,
con tutto il rispetto per tutte le ideologie, con tutto il rispetto per Lei che ho sempre creduto un idealista e di elevata cultura, mi fa veramente pena apprendere dai giornali le discussioni sui prigionieri in Russia, sui nostri figli dei quali non ne sappiamo nulla (ho un unico figlio dato per morto dai suoi Colleghi rientrati); io credo che sarebbe buona cosa che Lei, quale massimo esponente di un esecutivo che dipende dalla Russia, si facesse promotore di una spedizione da Lei capeggiata e composta dai suoi On.li Colleghi Longo, Terracini, Di Vittorio, Pajetta, ecc. e prendere congedo di sei mesi dalla Camera e dal Senato recandovi in Russia ad esperire tutte quelle pratiche che nessuno meglio di Voi, che siete di casa, può fare. Al vostro ritorno, con risultati positivi e veritieri, tutti gli italiani di ogni idea e colore Vi accoglieranno a bandiere spiegate, anche rosse se Vi farà piacere e Vi porteranno in trionfo.
Questo è il V/ dovere, dopo la strada sarà aperta a tutte le discussioni politiche che vorrete.
Egregio Signore,
il tono della sua lettera mi fa supporre in Lei la buonafede. Mi rincresce però che questa non le abbia impedito di cadere vittima di una indegna speculazione, ordita sul sentimento di tanti italiani, sia dal governo che dal partito democristiano. Per quello che a me risulta (dallo spoglio della stampa sovietica) il governo sovietico ha pubblicato la lista numerica dei sopravvissuti alla fine della guerra e le date esatte di consegna di tutti i sopravvissuti (con la eccezione credo di una ventina) alle autorità di frontiera anglo-americane. Il Governo italiano aveva il dovere di far riprodurre in Italia questo documento, facendo inoltre conoscere ciò che tutti i competenti sanno, e cioè che è assurdo anche solo pensare alla più lontana possibilità di esistenza di «dispersi sopravvissuti» perché l'equipaggiamento di quei poveri ufficiali e soldati italiani non consentiva la sopravvivenza in quelle condizioni di battaglia e di clima. Questo è il delitto che oggi si sta commettendo; i responsabili diretti del massacro di quei giovani (Messe e gli altri, non esclusi i vescovi e i dirigenti di Azione Cattolica che benedissero la spedizione criminale contro la Russia) si servono del male da essi commesso per seminare odio e discordie tra i popoli e nel nostro popolo.
La mia opinione, del tutto oggettiva e spassionata, è che alle autorità sovietiche nulla è da rimproverarsi. Nelle condizioni in cui erano, hanno fatto quanto dovevano. Purtroppo noi italiani ci troveremmo molto imbarazzati se quelle autorità ci chiedessero conto dei prigionieri russi fatti dalle truppe italiane. Lo sa che non ne è tornato in Russia nemmeno uno? Messe e gli altri generali italiani li consegnavano ai tedeschi che li passavano ai forni crematori. E sono proprio questi generali che oggi strillano e fanno campagne in nome della civiltà. Mi scusi lo sfogo sincero. Cordialmente
La lettera veniva resa di pubblica ragione attraverso la pubblicazione fattane dalla rivista Oggi nel numero in data 2 giugno 1948, uscito il 21 s. m. con commento di Arnaldo Cappellini, giornalista, già corrispondente di guerra in Russia al seguito delle truppe italiane.
Della lettera di Togliatti colpiscono prima facie numerose contraddizioni. Le cifre parlano chiaro. I dati ufficiali danno 84.820 dispersi sui 221.000 soldati e 7.000 ufficiali partecipanti alla spedizione italiana in Russia.
L’ambasciata sovietica a Roma nell’agosto 1945 comunicò al nostro Ministero degli Affari Esteri che il suo governo deteneva soltanto 19.640 prigionieri italiani. Gli altri, secondo la ben nota tesi comunista, sarebbero morti nei combattimenti o nella tragica ritirata, non dunque per colpa dei maltrattamenti subiti nei campi di concentramento russi. Poco tempo dopo la stessa ambasciata dichiarava che la Russia avrebbe restituito 21.193 e poi ancora 21.065 prigionieri, in una notificazione diretta all'allora Ministro degli Esteri Pietro Nenni. In realtà i reduci sono soltanto 12.513. Anche a voler prendere per buone le comunicazioni ufficiali del governo bolscevico, si può legittimamente chiedere all'on. Togliatti: e gli altri dove sono? Altro che eccezione di «una ventina...». Lo stesso Togliatti, nel 1943, quando le vicende della guerra lo dispensavano da una immediata documentazione delle sue tirate propagandistiche, parlando da Radio Mosca, assicurava le famiglie italiane che oltre centomila prigionieri erano sani e salvi in mani russe e al termine del conflitto sarebbero tornati liberi alle loro case. Le stesse cose si leggevano pressappoco a pag. 250 del libro «Discorsi agli Italiani» dì Mario Correnti, alias Ercole Ercoli, alias Palmiro Togliatti, pubblicati nello stesso anno per le edizioni in lingue estere a Mosca. Si ricordi inoltre che in corso di causa e risultato che il settimanale comunista «L'Alba», diffuso nei campi di concentramento, aveva annuncialo che il numero dei soldati italiani catturati era di 83.000, secondo i bollettini di guerra sovietici.
Arnaldo Cappellini, nel suo libro «Inchiesta sui dispersi in Russia», edito dall'Istituto Tipografico Editoriale di Milano per la collana «Cronache», a proposito del nostro equipaggiamento e della sua influenza sull'alta percentuale delle perdite, secondo la opinione di parte comunista, scrive:
— L'«equipaggiamento di quei poveri ufficiai e soldati», cioè, che secondo quanto afferma Togliatti, avrebbe avuto parte decisiva, se effettivamente non era perfetto, non doveva però neanche essere pessimo, dato il numero considerevole di uomini che, con quello stesso equipaggiamento, marciando e combattendo, senza poter contare su una organizzazione logistica di retrovia che da parte nostra più non esisteva, sono pur usciti dalle sacche e sono tornati in Italia. Ci sono stati reparti che hanno marciato in queste condizioni per diecine di giorni e per mille e più chilometri, con una percentuale di perdite infinitamente inferiore — qualcuno quasi nulle — a quelle degli ottantamila prigionieri ridotti a circa diecimila. —
Riguardo alla sorte dei prigionieri russi in mani italiane, la quale, secondo Togliatti, legittimerebbe una ritorsione contro i nostri prigionieri, la sfacciata menzogna del capo comunista è smentita da innumerevoli e autentiche testimonianze contrarie.
Nell’impossibilità di organizzare campi di concentramento nelle immediate vicinanze del fronte, prigionieri russi furono inviati in zone controllate dai tedeschi, in quanto la stessa 8a armata italiana faceva parte del più vasto schieramento germanico. Ma essi non furono affatto gettati dai nazisti nei forni crematoti, sorte che toccò invece a tanti nostri internati e perseguitati politici, soprattutto dopo l'8 settembre 1943. Tutti gli italiani, durante l'invasione tedesca hanno avuto modo di constatare come prigionieri russi lavoravano al seguito delle truppe teutoniche. Altre volte invece varie centinaia di prigionieri russi, catturati dall’80° reggimento, non raggiunsero i campi di concentramento.
— Disarmati, venivano lasciati andare liberi verso ovest — come ebbe a dichiarare al Cappellini personalmente il col. Chiaramonti — senza scorta, sicché potevano disperdersi per città e villaggi ove si mettevano a lavorare, ben lieti che la guerra per loro fosse finita...
— Infiniti episodi potrei narrare che farebbero ricredere l'on. Togliatti se è in buona fede, circa il modo come il CSIR si comportò in quel periodo veramente epico della campagna, e come mai, nemmeno nelle situazioni più drammatiche, la popolazione commise verso noi italiani il minimo atto di ostilità, appunto in virtù del nostro modo di agire. È penoso oggi dover constatare come un uomo di tanta responsabilità, nel rispondere alla voce angosciata di un padre, non avendo argomenti solidi da far valere, tenti di gettare una manata di fango su questi soldati che altro torto non hanno che quello di non aver derogato alle leggi dell'onore militare. —
Di fronte a certe maligne insinuazioni della stampa di estrema sinistra la «Voce Adriatica» cosi precisava:
— Certo, che, con la fine della nostra Patria, non è stato provveduto dagli italiani alla restituzione dei prigionieri russi. Vi hanno pensato però gli alleati, come hanno fatto per i prigionieri delle altre nazioni. A convalida si può chiedere qualche cosa agli alleati e, per la vicinanza che ne ebbero, agli abitanti della frazione di Palombina Nuova di Ancona, dove è esistito per molto tempo il «Transit Camp» alleato. Per tale campo sono passate decine di migliaia di prigionieri e deportati politici di tutte le razze e colori. I prigionieri russi provenienti al campo citato dai vari concentramenti italiani venivano vestiti e rifocillati in numero di circa 600-700 al giorno. —
Riportiamo integralmente una lettera, pubblicata dal «Giornale dell’Emilia» in data 2 giugno 1949, inviata, per vie compiacenti, alla moglie, dal cap. Magnani, il cui nome, come i lettori ricorderanno, è ricorso ripetutamente nelle deposizioni dei testimoni a difesa, che lo hanno presentato quale valoroso ufficiale, particolarmente preso di mira da D’Onofrio per i suoi elevati sentimenti patriottici.
È stata pure più volte riportata la minacciosa frase del senatore comunista: «A Magnani ci penso io!».
Il cap. Magnani, tuttora ufficialmente detenuto in Russia, appartiene all’infelice esigua schiera di quei «ventotto» militari che il governo sovietico ha dichiarato di trattenere come delinquenti comuni, senza che a loro carico sia stato celebrato regolare procedimento penale o siano mai state elevate specifiche contestazioni. «Gli accertamenti» sono in corso dal 1943! (Ricordiamo che questo libro è del 1949 [Nota della Bibioteca persicetana])
La giustizia non sembra adunque una virtù dei tiranni bolscevichi.
— Silvia mia adorata, continuo nel tentativo di farti avere con ogni mezzo mie notizie. Da te non ho più la gioia di riceverne dal dicembre 1942 Fisicamente sono ancora sano. Questi lunghi anni hanno sparso molto bianco sui miei capelli e sulla barba, ma il mio cuore è rimasto come allora.... Non so che cosa è detto di noi in Italia. Io ti giuro che non ho mai fatto nulla di cui debba vergognarmi davanti a te, ai miei figli, alla nostra Patria. —