Così, il processo a carico degli assassini dei Conti Manzoni-Ansidei è stato rimandato a nuovo ruolo. Vuol dire che potrà essere ripreso tra sei mesi come fra sei anni. Sembrava dover essere il processo che liquidava un torbido e orribile dopoguerra, invece non è stato così. Se il Presidente della Corte d'Assise di Macerata lo ha rimandato è evidente però che lo ha fatto per meglio vedere i responsabili di tra le fitte maglie d’una astuta montatura politica.
Quelle due settimane di udienza a Macerata hanno però servito a delineare le due tesi: quella della difesa degli assassini e quella della parte civile delle vittime.
Gli avvocati degli imputati cercano di dimostrare che i Conti Manzoni-Ansidei furono ammazzati, perchè erano stati fascisti e responsabili di spionaggio contro i partigiani. Nel qual caso il brutale crimine coincide in quegli oscuri giorni senza legge ammantati dalla benevola amnistia.
Gli avvocati delle Vittime sostengono invece che 1'uccisione è dovuta alla semplice rapina. Omicidio per rapina. E lo dimostrano col suffragio di diversi testimoni i quali hanno dichiarato che le volpi argentate della Contessa, l'argenteria, alcune casse, diversi gioielli furono visti in possesso di gente del paese. Con questa tesi, 1'amnistia politica non c'entra più. Quei dodici giovani chiusi nella gabbia debbono scontare il loro delitto ai termini del codice penale comune.
S'era appena profilato ben chiaramente questa netta andatura del processo nell'aula della Corte d'Assise di Macerata, quando una mattina, 1'avvocato della difesa, estrasse dalla borsa una lettera e diversi documenti e presentò il tutto al Presidente.
Era la famosa lettera di sette partigiani i quali si dichiaravano responsabili della soppressione della famiglia Manzoni-Ansidei per «ragioni di carattere politico». Proclamavano innocenti gli altri dodici loro compagni che stavano nella gabbia ed essi si davano alla latitanza, «Non ci costituiamo per difendere la nostra. libertà cui riteniamo di aver diritto. Rinunciamo ai beni e alle nostre famiglie».
Scappati forse all'estero. Ma dove? Non si sa. Certo che questo colpo di scena, la lettera cosi ben concepita, il coraggio di dichiararsi colpevoli e di abbandonare beni e famiglia, denotano una spaventosa e ferrea disciplina politica. Il partito comunista, al quale tutti gli imputati appartengono, rivela in questa organizzazione la sua cupa ombra. Muove gli uomini come pedine tattiche.
Indipendentemente dalla parte che possa aver avuto questo o quell'imputato nel delitto, resta ormai chiara non solo la scena tragica, ma la motivazione di classe. I Conti Manzoni vennero uccisi tre mesi dopo la liberazione, quando cioè i fascisti erano «stati fatti fuori» tutti. Furono ammazzati per il motivo classista. In Romagna, a quell'epoca, si discuteva nelle cellule se si dovesse ammazzare prima i preti o prima i padroni. Ben tre sono stati i preti uccisi in questa plaga di territorio lughese: don Giuseppe Galassi, don Giovanni Ferruzzi e don Teobaldo Dapporto. Don Teobaldo, per esempio, fu assassinato dal suo contadino. Avvenne così. Don Teobaldo era andato a chiedere la sua parte del grano. Il contadino stava nell'aia con una roncola in mano. Gli va incontro e, in men che si sputa in terra, gli vibra un fendente sul cranio spaccandoglielo come una mela. Lo prende su e lo seppellisce nel letamaio poi corre alla Camera del Lavoro a dire: «Io, il mio padrone-prete, l'ho fatto fuori».
I Conti Manzoni furono eliminati proprio per questa lotta di classe. La contessa Beatrice, la mamma, in una lettera ad un suo figliolo abitante a Roma aveva sottolineato le beghe sindacali che incominciavano ad essere grosse. Venti giorni dopo questa lettera, ecco il delitto. Un gruppo di partigiani la sera del 7 luglio 1945 entrano nella Villa Frascata. La circondano. Una pattuglia di quattro uomini armati invita i tre figli (Minuccio, Luigi e Reginaldo), la madre Contessa Beatrice e la donna di servizio Francesca Anconelli a entrare nella Villa. In questa stanza della Villa che avvenne? Forse li insultarono e li malmenarono. A notte inoltrata li caricarono su di una macchina che li trasportò a pochi chilometri da Lugo, a Voltana, in una casa colonica dove avvenne il processo sommario dinanzi al tribunale improvvisato del popolo. Stabilita la morte! I tre figli furono uccisi col classico colpo alla nuca, la contessa e la donna di servizio furono invece «massacrate come cagne». Lo dimostrano le ossa ritrovate spezzate. Terminata la carneficina quei cinque cadaveri furono buttati dentro i fortini che erano serviti ad una batteria d'artiglieria nel fondo Miccoli. Era il fondo dove generalmente avvenivano i seppellimenti delle vittime «fatte fuori». Un'altra decina di cadaveri infatti sono venuti alla luce finora.
Lugo di Romagna, marzo 1951.