Nel pomeriggio del 6 novembre la salma di Fanin fu portata nella Chiesa che sorge accanto all’Ospedale: una piccola chiesa vegliata da un Crocefisso miracoloso dominante dall’altare, rivestito di marmo scolpito coi nomi dei Caduti per la Patria. La bara fu posta al centro della Chiesa in un'aureola di fiori. Allora cominciò a sfilare un corteo interminabile di uomini, donne, di piccoli e grandi...
Vennero gli amici della Fuci, che sostarono anche lungo la notte per rivivere un'ultima volta con lui le ore serene passate insieme, divenute ora amarissimo ricordo; vennero a continuare con lui il discorso interrotto due sere innanzi: c'era da parlare della Fuci, del Congresso di Molinella, che, sì, Pippo aveva avuto ragione, non sarebbe stato il solito congresso, perchè lo avrebbe riempito lui del suo martirio.
Vennero gli amici di Bologna, gli amici di lavoro; c'era ancora sul loro labbro il trepido avvertimento: «Pippo, un'arma per difenderti non ti fa male!» Pippo anche con un'arma in mano non avrebbe ucciso e gli assassini sarebbero fuggiti perchè sono dei vigliacchi pieni di paura... Pensieri inutili! meglio era piegare il capo adorando: una Superiore Volontà aveva così disposto perchè i lavoratori cristiani avessero il loro Martire in Cielo.
E tutti entravano con negli occhi dipinta l’ansia di chi va cercando la smentita a una atroce notizia che non vorrebbe fosse vera; ognuno si affrettava fino alla bara; un movimento breve di involontario disgusto... poi gli occhi tornavano a fissare attraverso il vetro cercando invano il volto pur tanto noto. Quello non era il volto di Fanin, ma la macabra testimonianza di una barbarie sena nome. La mano instintivamente si alzava alla fronte, un nodo prendeva alla gola, mentre il cuore batteva convulso... Come può esserci ancora nel mondo tanta empietà? Perchè tanta cattiveria ancora? Che male poteva aver fatto questo giovane di 24 anni? Martellavano le tempia queste domande e l’occhio smarrito cercava intorno. Dall’alto della Croce un altro volto, sfigurato e dissanguato, quello divino di Cristo, compendiava l’unica risposta.
In un grigiore umido e nebbioso spuntò l’alba del 7 novembre. Le vie di Persiceto come per incanto si popolarono; gruppi silenziosi giungevano dalle provincie più remote della Regione, unitamente ai rappresentanti dei lavoratori cristiani delle principali città del settentrione d'Italia. Sostavano un momento in piazza e s'affrettavano verso la Chiesa del Crocefisso. Impossibile entrare; la folla ormai si era fissata intorno alla bara ed ogni movimento impedito.
Stando sulla porta si vedeva in volto il Sig. Virgilio, immobile, fissi innanzi a sè gli occhi divenuti fondi nelle orbite, senza pianto; accanto a lui la mamma, ritta, tutta compresa del suo dolore, eppure senza un movimento che rivelasse ribellione: padre e madre meravigliosi in cui la più limpida fede cristiana si esprimeva in eroica fortezza. Chi fissava per un istante quei due volti non poteva frenare il pianto. Alle nove, la bara, portata a spalle dagli amici, uscì sulla strada. A chi la vide in distanza, apparve come una piccola barca su un mare vivo, palpitante di vele biancocrociate, di vele tricolori. Non le spalle degli amici ressero la salma di Fanin per il lungo percorso, ma l’ardore di mille preghiere scaturite dal cuore, con cui più che supplicare Iddio, a Lui si offriva il sacrificio del Martire. E quanti, quanti fiori per le vie! Li aveva tanto amati; erano stati la sua passione. Li ritrovò tutti nel funebre trionfo, intrecciati in corone che erano aureole di gloria, lanciati al suo passaggio dall’alto di di tutti i balconi, cadenti come pioggia di lacrime innanzi alla sua bara. In Chiesa attendeva una folla imponente e il corteo dovette sostare alla porta. Le preghiere della Liturgia dei morti, divinamente tradotte nelle melodie di Perosi, risuonarono per la vasta navata, da mille cuori raccolte e ripetute: «Requiem aeternam dona ei Domine... Il riposo eterno dona, o Signore, a chi è caduto lottando per una causa santa....» «In memoria aeterna erit iustus... Sì il suo sacrificio non sarà vano perchè ne vivrà eterna la memoria...». A metà Messa, babbo, mamma, fratelli, sorelle e fidanzata si accostarono all’altare per la Comunione, mentre una luce nuova ne trasfigurava il dolore segnato nei volti. Terminato il rito sacro, il Vescovo Ausiliare espresse con alte parole il cordoglio suo e del Cardinale di Bologna da lui rappresentato. Poi la salma fu portata dalla Chiesa al centro della piazza antistante. Quanti furono a stringersi intorno in compatta marea? Migliaia e migliaia! La piazza rossa di Persiceto stupì a quello spettacolo nuovo per lei: non erano quelli gli uomini che essa era tanto avvezza ad ospitare; non erano sue quelle cento e cento bandiere!
Parlarono alte personalità rappresentati il Parlamento, le Acli, i Sindacati e unico fu l’accento che li ispirò: «Giustizia sì per gli assassini, vendetta no, Giuseppe Fanin perdona dal Cielo; con lui perdoniamo anche noi. Ma la giustizia umana intervenga per impedire che il sangue dilaghi!». Poi si ricompose il corteo, dai balconi dischiusi fiori e fiori piovvero ancora. Al Cimitero la folla indugiò a lungo per un'ultima preghiera prima di disperdersi.
Sulle memorie distribuite durante il funerale erano state scritte queste parole: «Muore la carne infranta resta immortale lo spirito e l’idea».
E ognuno aveva sentito vibrare in quel giorno lo spirito di Fanin vivo immortale, come l’idea per la quale egli aveva saputo donare giovinezza e martirio.
Fra le più illustri adesioni pervenute in occasione del tristissimo lutto, ricordiamo quelle del Cardinale Arcivescovo di Bologna, che appena avuto notizia del delitto, così scriveva alla famiglia:
«Per mezzo del Vostro buon Parroco che mi porta la dolorosissima notizia della morte violenta del povero figliolo Giuseppe, Vi mando, cari genitori e fratelli di Lui, le più vive espressioni di profonda pena che mi ha colpito e mi unisco al vostro intenso ed irreparabile dolore. Prego e pregherò nella S. Messa per il caro Estinto e per Voi e perchè cessi questo orribile dilagare di sangue fraterno che getta nel lutto tante famiglie come Voi, di buoni laboriosi italiani, e fa disonore alla nostra terra».
Il Sen. Braschi inviava questa nobile lettera:
«La notizia che apprendo dai giornali mi riempie di dolore e di raccapriccio! Sono vicino alla famiglia e agli amici colpiti, cuore a cuore. Mi unisco a voi nel ricordo e nelle preghiere: il sicario non uccide lo spirito e la belva non rannuvola il cielo. Nella luce di Dio, Giuseppe Fanin splende come un Martire e infonde a noi la forza di camminare dietro il suo esempio luminoso, nella divina certezza della vita che non muore».
Ed ecco una fra le tante lettere di liberi lavoratori calda e appassionata. E' diretta alla fidanzata:
«Prima di ogni cosa Le porgo le mie condoglianze, ma Lei sappia che il Dottor Giuseppe Fanin non è morto, ma esso vive più di prima ed è uno sprone ed un esempio per tantissimi altri lavoratori di aprire gli occhi e passare dalla parte sana. I nemici non sanno che il sangue di un innocente semina e raccoglie frutti copiosi mentre i criminali lavorano così per la propria distruzione.
Porga le condoglianze anche alla famiglia, di un libero lavoratore padovano, padre di due figli. Viva i liberi ed eroici lavoratori della terra Emiliana!».
A Palazzo Madama il 17 novembre 1948 dopo che il Sen. Rubinacci ebbe ricordato: «Fanin è caduto per difendere la libertà dei lavoratori» ha parlato il Sen. Umberto Merlin: «Sapete donde noi ricaviamo la forza per resistere e camminare? Noi la ricaviamo dal sangue di Giuseppe Fanin! Il Fanin è caduto per la nostra causa e il sangue dei cristiani ha sempre dato all’Italia e al mondo nuovi milioni di anime che hanno preso il nome e il posto di coloro che sono caduti».
E a queste voci si è unito un coro possente di altre testimonianze pervenute da tutte le parti d'Italia. Dai Lavoratori Cristiani della Pirelli di Milano ai minatori cavatori di Enna, dai ferrotranvieri di Lecce ai 25.000 lavoratori tessili di Milano, dal Veneto, dalla Capitanata, da Torino, Venezia fino ad Ancona, La Spezia, Roma, il brivido di orrore che ha scosso tutti i lavoratori cristiani o i liberi lavoratori, si è tradotto nelle parole accorate, nelle grida di indignazione dei telegrammi, delle lettere pervenute senza numero alla famiglia Fanin, alle Acli e ai Liberi Sindacati di Persiceto.
Il nome di Fanin nel novembre 1948 risuonò in tutta Italia, e possiamo ben dire, nel mondo: l’International New Service diffuse il suo nome in Europa e attraverso le sue agenzie in America. Per i cittadini di Persiceto è tuttora il segno nero di riconoscimento: «Siete di Persiceto?... Ah, già: dove hanno ammazzato Fanin».
Ma per i lavoratori liberi, per i lavoratori cristiani il suo nome è rimasto la bandiera in nome della quale si combattono le sante, incruenti battaglie cristiane, per l’affrancamento del lavoro da ogni schiavitù.
Ai margini della strada dove avvenne il delitto, sul mucchio di ghiaia insanguinato è stato posto un cippo di marmo rosso di Verona, sormontato da una bianca croce. E quando l’orizzonte si oscura e i nembi incalzano spinti dal vento la croce sembra innalzarsi con le braccia protese a scongiurare la tempesta.
Dal margine della strada, al levarsi delle tempeste che si scatenano ancora nei cieli di questa Emilia martoriata, il sangue di Giuseppe Fanin diventa un grido implorante tregua e perdono, luce ed amore.