Vecchi, malandati bimotori atterrano con una paurosa serie di sobbalzi sollevando tempeste di fango. Treni incredibilmente vecchi entrano cigolando in rappezzatissime stazioni, incrostati di ghiaccio dopo interminabili viaggi attraverso steppe gelide e desolate. Autocarri traballanti ansimano su strade strette gelate e sporche, sbattendo l'un contro l'altro e sbalzandoli dai sedili i passeggeri intabarrati in pesanti pellicce. Nei capoluoghi dell'Asia Centrale e del Caucaso questi aerei, questi treni e questi autocarri scaricano riluttanti pionieri: sono i costruttori del nuovo impero della Grande Russia.
A migliaia affluiscono nei centri grandi e piccoli dell'est: sono fiduciari del partito, agronomi, veterinari, tecnici e meccanici d'ogni ramo. Dagli abiti che indossano si capisce che è gente di buona posizione, ma tutti hanno l'aria di chi va verso situazioni sgradevoli. Spesso hanno con loro mogli sconsolatissime.
Per molto tempo questi privilegiati del comunismo hanno avuto un'esistenza allietata da vantaggi: ora è tempo che paghino la prima rata del debito che hanno contratto con lo Stato sovietico per aver questo provveduto alla loro istruzione. Cominciano i sacrifici.
Questi «volontari» hanno avuto commiati da gran spettacolo al momento di lasciare i luoghi di residenza: ci sono stati discorsi, celebrazioni, canti, abbracci e congratulazioni per i «volontari» che si trasferivano nelle zone più remote del vasto impero sovietico. Hanno avuto inizio di recente queste trasmigrazioni. È la mobilitazione alla quale ha fatto ricorso il governo Malenkov nel disperato tentativo di portare un po’d'ordine nel caos dell'economia a vantaggio del consumatore.
Generazioni di russi avevano in passato portato la cultura russa e la dominazione russa ai Kazakhi dagli occhi a mandorla, ai bruni irrequieti Tadgiki, ai nomadi Turckmeni e a tutta la gamma di nazionalità cementate nell'Unione Sovietica. A questa nuova generazione di pionieri è stato assegnato il compito di sfruttare le ricchezze naturali di queste terre perchè il fronte interno dell'URSS possa conseguire l'elasticità che gli occorre per fronteggiare l'eventuale minaccioso urto di un nuovo conflitto mondiale. La propaganda di partito grida che si tratta di un compito glorioso, ma c'è scarsissima gioia e più spesso sgomento sui volti dei «volontari».
In genere, arrivando con le ossa rotte a destinazione e mettendo piede a terra in aeroporti che sono un vero mare di fango, i «volontari» danno un'occhiata sfiduciata all'immenso vuoto che si allarga attorno alla capitale della remota repubblica da colonizzare e decidono di starsene in città, nella speranza di sistemarsi in qualche ufficio.
«È impossibile — scrive «Il Comunista del Tadgikistan», organo ufficiale di quella repubblica — tollerare che molti tecnici, invece di andare a lavorare nelle stazioni dei trattori e nelle fattorie collettive, continuano a vivere in città e fanno brevissime visite alle località che avrebbero dovuto raggiungere per un sistematico lavoro».
La prosa del giornale riflette l'irritazione di Mosca per la lentezza con la quale procede il nuovo programma di tonificazione economica: si continua a promettere una formidabile ripresa della produzione agricola nel giro di due o tre anni, ma tutto dipende dai contadini e i contadini hanno bisogno di assistenza tecnica.
Persino località remotissime come Alma Ata, nel Kazakhstan, ai margini della Siberia e assiderata da cinque mesi di ghiaccio all'anno, sono sedi confortevolissime se paragonate alla vita che debbono affrontare i tecnici se e quando dovessero raggiungere le fattorie, i villaggi e le stazioni di trattori. E perciò questa gente va spinta a viva forza.
Il partito si affanna, non soltanto per racimolare questa gente ma anche per indurla a raggiungere senza evidente opposizione: perchè molto spesso i giovani tecnici, sui diplomi dei quali l'inchiostro è freschissimo, debbono raggiungere regioni remote e gelide prima ancora che siano state approntate baracche per il loro alloggio.
Ai «volontari» non si può dare certo torto per il fatto che facciano di tutto per starsene in città, dove per chi è di nazionalità russa c'è da stare magnificamente. Basterebbe fermarsi poche ore in quelle località periferiche per rendersi conto che i russi fanno casta a parte. C è anche gente del posto che male non sta, avendo raggiunto posizioni di rilievo nei ranghi del partito e del governo, ma le posizioni-chiave sono sempre in mano di russi.
La russificazione delle nazionalità periferiche continua implacabile. Cominciata prima ancora che i comunisti prendessero le redini del potere e attenuata nella prima fase della rivoluzione, è stata ripresa con un furore che sa di vendetta.
I russi, da padroni apparentemente indulgenti, permettono a queste nazionalità periferiche di tenere le tradizioni e la cultura locale fin dove le une e l'altra non entrano in conflitto con il verbo comunista. In sostanza, tutta la cura dei russificatori sta nel fare in maniera da dare alla loro opera un sapore di «adesione progressista». Per il resto vige il sistema della mano pesante: feroci accuse di «nazionalismo borghese» sono rivolte a chi ardisce suggerire che la cultura locale non è da meno di quella russa e non è stata fortemente arricchita dall'apporto dei residenti russi.
Lo studio della lingua russa è obbligatorio nelle scuole. Tutti gli affari sono nelle mani dei russi. I nomi delle strade e i giornali sono qualche volta in due o anche in tre lingue, ma nell'Asia centrale si è arrivati ora ad imporre obbligatoriamente prima l'alfabeto e poi la lingua russa. Nei capoluoghi la maggior parte della popolazione è russa. In queste capitali periferiche si danno rappresentazioni drammatiche, balletti ed altre esibizioni di ispirazione locale, ma in ogni caso si tratta di roba che ha passato una rigorosa censura per cancellare qualsiasi traccia di nazionalismo. Imponente, peraltro, il numero delle rappresentazioni teatrali e dei balletti russi. Le strade hanno cambiato nome e sono ora intitolate ad eroi russi. I libri di storia sono stati riscritti per mettere in risalto i benefici apportati in ogni tempo dalla Russia, compresa quella zarista.
I comunisti hanno costruito numerose città nell'Asia centrale, ma per il fatto di aver voluto fare di queste città delle copie precise di Mosca, i russi vi hanno introdotto molta parte della monotonia e della desolante impersonalità della capitale centrale dell'URSS. Con i nuovi edifici hanno portato la tristezza della vita sotto un regime comunista, con l'istruzione è venuta al seguito la pressione del partito per ottenere dalla popolazione l'adesione incondizionata. E la deprimente visione delle donne, giovani e vecchie, che, in tuta come a Mosca, scavano fossi, trasportano mattoni, scrostano ghiaccio dalle strade e siedono in serpa a carretti di immondizie.
Con i musei della rivoluzione sono giunti caseggiati con alloggi minimi e malmessi, e con le nuove industrie è arrivata quella tremenda burocrazia sovietica che fa sorgere ostacoli sempre nuovi sulla strada di una esistenza già tanto difficile a sopportare.