Avevo dato l'addio ai miei cari paesani; ci eravamo impegnati reciprocamente a rimirarci ogni sera nella luna che oltre la realtà simboleggia la Mamma nostra comune: Maria! Ci separammo con le lacrime agli occhi: io piangevo per così tenero amore e per le innumerevoli delicatezze e preoccupazioni sul mio conto; essi invece erano commossi dalla mia generosità e dal mio entusiasmo tre volte giovanile!
Sì, sentivo d'aver proprio le ali ai piedi e il fuoco nel cuore.
Salpai da Napoli e, per lo stretto di Gibilterra, scivolai nell'Atlantico; attraversai poi l'America, dalla fantasmagorica New-York alla eterna primaverile California; mi tuffai infine nelle poco pacifiche braccia del Pacifico che mi doveva consegnare alla Cina.
Il lunghissimo viaggio non rubò neppure un attimo alla mia anima. La meta era là: magnete e faro nello stesso tempo...
A Pechino incominciai subito a studiare la lingua di quel popolo che doveva essere il mio popolo e la mia Ecclesia.
Le pastorali natalizie del '47 le cantai a Pechino.
Nella nostra «Domus Franciscana» l'anno scolastico s'era aperto ufficialmente già da vari mesi; ma noi, nuovi venuti, formavamo un buon numero per poter iniziare da soli una classe; e si incominciò dopo l'Epifania del 1948.
Mi gettai a capofitto nello studio della lingua di Confucio, non risparmiando sacrifici e veglie, perché convinto che la lingua è il veicolo naturale e più efficace dell'azione missionaria.
Il sapere, per esempio, che la mentalità europea non sarebbe mai riuscita appieno ad esprimersi con la mentalità orientale, soprattutto per la stragrande difficoltà linguistica, formava il mio più grande tormento; ma non mi scoraggiava. Anzi, era questa idea che moltiplicava la mia volontà e la mia resistenza. Se avessi studiato latino e matematica come il mio cinese sarei stato di certo un professorone ! Nelle vacanze estive di quell'anno andai a trascorrere qualche giorno in una villa francescana fuori delle mura della città, oltre Porta Fu Hsing Men: Montecorvino.
Qui ebbi modo di avvicinare e di conoscere un centinaio di poveracci, tutti cristiani, fuggiti di casa perché arrivavano gli «altri», i maoisti.
Vivevano tutti insieme nell'edificio scolastico di quella contrada. Edificio?... Un covo di sporcizia maleodorante e tetro come una baracca di concentramento. Dormivano su mucchi di stracci, unica cosa che avevano potuto portar via dai loro villaggi e si sfamavano con l'erbe dei campi, con le foglie degli alberi e, i più fortunati e intraprendenti, con polenta scondita.
Nell'avvicinarli, dapprima provai un senso di ribrezzo e di ripugnanza che scomparve però subito quando quei volti e quegli occhi mi regalarono un sorriso melanconico ma prezioso. Conoscerli e farci amici fu una cosa sola; per una settimana fui sempre con loro.
Mentre le mamme andavano a racimolare un po’ d'erba e i figliuoli più grandicelli stavano accudendo alle indispensabili faccende della nomade famiglia, io raggranellavo i piccoli e giocavo con essi anche per mettere in pratica quelle regole linguistiche che avevo ingoiato in 6 mesi di scuola ma non ancora digerite.
Poveri frugoli, quante volte erano costretti a ripetere la stessa frase fino alla noia, perché io dicevo che pronunciavano male la lingua mandarinica! E dire che ero proprio io lo scolaro, essi i miei maestri !
In seguito, anche dopo le vacanze, andavo a trovarli tutti i sabati e spesso anche alla domenica. Portavo loro nocelle americane, cocomeri, castagne, caramelle; così avevo occasione di spiegare loro il catechismo e di tenere qualche conferenzina.
Certo, essendo ai primi balbettii della nuova lingua, le mie conversazioni reggevano e duravano solo per il gran bene che i piccoli mi volevano. Tutti i miei risparmi erano per loro; anzi con il permesso del mio Superiore P. Bungarten, ebbi modo di portare ad essi anche un po’ di carbone.
Nell'avvicinarsi dei primi freddi li vedevo ancora quasi nudi, e mi trovavo tanto a disagio di fronte ad essi, io così ben protetto dai panni invernali! Un dilemma mi si impose atroce: o non andare più a trovarli, o procurargli qualche straccio. Ma erano tanti; come fare? Chiesi un'altra volta il permesso al Superiore per una colletta entro e fuori della casa.
Mi disse di sì, con questa osservazione: — Non vorrei che tu ci perdessi il tempo dello studio deludendo così le aspettative del tuo Vescovo.
Perderci il tempo? Tutt'altro!
Fu così che mobilitai tutto il laboratorio delle Suore di Carità nell'Ospedale di S. Vincenzo per confezionare una trentina di pantaloncini e giacche imbottite con il materiale procurato dai benefattori e utilizzando roba vecchia.
Il giorno della distribuzione fu una vera festa, vollero ammazzare il bel cane di guardia che avevano e ammannire così una squisita pietanza cinese per celebrare l'avvenimento con tutta solennità; sudai del bello e del buono per esimermi dall'invito, protestando di aver mangiato solo pochi momenti prima.
Pur non mangiando una molecola del bel cane di guardia, mi trattenni più a lungo del solito a conversare con i grandi e, sebbene il loro linguaggio mi riuscisse più difficile di quello dei piccoli, tuttavia li comprendevo bene. C'erano i loro occhi con tanto di mimica ad aiutare il mio comprendonio.
Mi raccontarono che si erano decisi ad abbandonare le loro case e gli averi perché avevano imparato a memoria la cantilena macabra di altri profughi sui rastrellamenti degli uomini atti alle armi, sui fattacci dei rossi e soprattutto sulla sorte di altre famiglie cristiane. Un vecchietto manifestava ancora i segni della sciagura che era capitata a lui e alla sua famiglia: lui solo era sopravvissuto alla moglie e ai suoi tre figli. Una pattuglia rossa aveva notte tempo assalito la sua casa, mentre si trovava fuori; al ritorno fu terrorizzato dallo spettacolo di quattro cadaveri in un lago di sangue!
Una donna sulla trentina, dai lineamenti quasi aristocratici, con un lattante sempre in braccio, partecipava di rado alle conversazioni, mantenendo ancora un atteggiamento cupo, triste, quasi disperato.
Quel giorno, alla mensa del cane, era presente anche lei. Le domandai come si chiamasse il suo bambino; mi rispose che il nome di battesimo non lo sapeva, perché quando lo portarono in Chiesa lei stava ancora a letto. Nel momento della cerimonia alcuni briganti, scesi dalle montagne portarono via il marito, il Parroco cinese ed altre persone, lasciando il neonato sopra una panca della Chiesa.
Suo marito era il Mandarino del villaggio che qualche mese dopo veniva occupato dai rossi. Gli abitanti erano tutti fuggiti...
Ogni famiglia aveva la sua da raccontarmi; e tutti mi decantavano la vita cristiana del proprio villaggio; e che i comunisti mandavano messi perché non scappassero. Potevano star certissimi della massima libertà per la loro fede... Ma allora — sono molto furbi i cinesi — come mai, avanzando l'esercito comunista ingrossa sempre più le file, nonostante le innumerevoli perdite?
Chiaro: nelle contrade occupate tutti gli uomini e molte donne dovevano arruolarsi «volontariamente» nell'esercito, e in battaglia i disgraziati si trovavano sempre in mezzo a due fuochi. Se tentavano evitare il fuoco del nemico, avevano di dietro quello dei «compagni».
Perciò questi profughi avevano preferito fuggire, sempre nella speranza della fine. Ma nel vedere i loro figliuoli nudi e affamati, senza un domani, sentivano tutta la loro tremenda odissea.
Avevano bisogno che qualcuno li illudesse. Sempre così, anche in Europa!
— Padre, che ne dice lei: quanto tempo ci sarà ancora per la liquidazione del comunismo? È mai possibile che il Signore faccia vincere gli operai di Satana? Perché il buon Dio non ha compassione di questi nostri figliuoli?
— Il Signore sa bene quello che fa, e tutto sarà a nostro vantaggio; anche il male, nelle mani di
Dio, si converte in bene!
Frequentai il covo della povera gente fino a Natale 1948; poi essi, per ordine delle Autorità civili di Pechino, dovettero ripiegare in città. Era imminente l'avanzata rossa.
Furono questi i miei primi contatti con il mondo delle pagode. Ormai non ero più lo straniero; cominciavo a sentirmi paesano.