Il clakson della Jeep annunziò l'arrivo di un nuovo prigioniero: i cancelli cigolarono rumorosamente e la Jeep entrò nel cortile.
Qualcuno sibilava degli ordini precisi, mentre due soldati, dopo avermi tirato fuori dalla Jeep, mi facevano girare a mosca cieca, forse per disorientarmi. 0 per divertirmi? Non lo so. Poi mi accompagnarono dentro.
Il pavimento del pianterreno, dove sostai per qualche istante, era di legno; qui mi sbendarono e con il mitra un soldato m'indicò le scale, anche queste di legno, dalla larghezza di poco più di un metro. Giravano a chiocciola verso sinistra. Scendemmo nei sotterranei.
Incontrai due soldati con il mitra a tracollo, elmetto in testa e rivoltella in mano, che passeggiavano in un corridoietto sul quale davano quattro porticine. Mi fecero entrare in una di queste. Affacciandomi, una vampata d'aria putrefatta per poco non mi stramazzò: intravidi nella penombra una cosa ammucchiata in un cantuccio: era un prigioniero che dormiva avvoltolato nella sua imbottita. Entrarono con me tre soldati armati ed un ufficiale.
In faccia a due rivoltelle spianate, l'ufficiale mi passò una minutissima perquisizione; mi portò via tutto: orologio, Rosario, la catenina che avevo al collo, la cinta dei pantaloni, e i lacci delle scarpe! Poi, sottovoce, mi disse che in quel luogo era severissimamente proibito di parlare; e che quando avessi avuto bisogno di dire qualche cosa alla guardia, dovevo farlo sempre sussurrando. Dopo di che l'ufficiale con il soldato disarmato spulciarono l'imbottita e gli altri panni. Appena finito mi dissero di coricarmi; ed uscirono.
Quando la porta si chiuse ed il catenaccio cigolò in quella tana fu buio pesto, ma venne subito rotto dal fioco lume di una lampadina elettrica che il soldato di fuori appese in un buco praticato apposta sulla porta. Mi avevano fatto coricare con i piedi verso la porta e la testa verso il muro, così il soldato da fuori poteva vedere la mia faccia e i miei occhi.
Dopo pochi minuti mi mossi e feci un cenno con la mano, ma non potendo vedere il soldato dietro il piatto della luce, mi alzai e bussai pian pianino alla porta. L'improvviso e rumoroso scatto del catenaccio mi fece sobbalzare! Si aprì; e la guardia a tutto fiato:
— Perché non hai chiesto il permesso di alzarti? Credi di essere a casa tua, qui? Sai che io posso anche spararti?! — e mi piantò la rivoltella sul petto. Io risposi pianissimo e timidissimo: — Ho fatto prima il cenno con la mano, ma lei non mi ha visto.
— Come puoi dire che non ti ho visto? — Qui mi fissò con cipiglio per qualche attimo, poi seguitò:
— Se incominci così, chi sa come andrai a finire!... perché ti sei alzato?
— Per chiedere il permesso di coricarmi con i piedi verso il muro; la luce mi dà troppo fastidio agli occhi!
Con uno spintone sul petto mi ributtò sopra l'imbottita gridando:
— Se dormi, come ti può dar fastidio la luce negli occhi? Non credere di essere a casa tua, — e chiuse maledettamente la porta. L'altro prigioniero tossì e si girò. La guardia non aveva fatto ancora in tempo di riattaccare la lampadina che riaprì la porta immediatamente per scagliarsi contro quel poveretto: — Che cosa hai da tossire? Ti è venuto il mal di gola tutto una volta? Alzali su!... Perché hai tossito?
Quel poveretto sgusciò dall'imbottita e mormorò in un accento straniero: — Scusa, ho sbagliato; non lo farò più!
Aveva imparato bene l'eterna cantilena che i comunisti insegnano a tutti coloro che si trovano in reali o supposti errori!...
Io lo fissai per vedere chi fosse, ma la guardia inferocita: — Se ti fanno male gli occhi per la luce, io te li cavo con una revolverata! Che cosa hai da guardare?! Voltati di là, brutto reazionario (Fan Tung P'ae!).
Non aveva ancora richiuso quando diede un altro urlo all'altro prigioniero: — Eh! Chi ti ha dato ordine di ricoricarti? Alzati in piedi, delinquente !
Dopo circa mezz'ora la guardia gli diede l'ordine di ricoricarsi. Fortuna che si doveva parlare sottovoce, pensai... e quella prima notte anche se avessi avuto mille occhi, non ne avrei chiuso uno solo. Mi pareva di essere piombato in una bolgia.
Al mattino, due calci alla porta ci squillarono il segnale dell'alzata; altri calci in altre due porte; dunque, altri commilitoni! Piegai l'imbottita, come facevo nell'altra prigione, e ne feci la mia poltroncina. Furbo, no? Ma la guardia me la fece dispiegare e mi ordinò di mettermi a sedere per terra, contro la lampadina senza appoggiare le spalle al muro, e guai a me se cambiavo posa o torcevo mezz'occhio. Rimasi così immobile come un macigno.
Calarono altri soldati: gli addetti ad accompagnarci alla ritirata. Uscendo, potei vedere in una nicchietta del muro, a sinistra delle scale, una sveglia che evidentemente serviva alle guardie: erano le cinque e dieci. Passarono altre cinque ore, ma lì dentro era sempre mezzanotte. Nella stanzetta c'era appena un finestrino di mezzo metro, coperto con la carta nera. Qualche mattina l'aprivano per cambiare un po’ d'aria, ma in quei cinque minuti ci bendavano gli occhi. Poco prima che ci portassero da mangiare, venne il capo ufficiale e mi domandò: — Perché sei stato portato qui?
— Non lo so, — risposi.
Allora egli: — Il Governo attuale è giustissimo e non può imprigionare un uomo senza un motivo, specialmente uno straniero. Quando vorrai fare la tua confessione, basta che avvisi la guardia, e un giudice sarà subito a tua disposizione. Intanto scrivi un bigliettino al responsabile della casa religiosa dove risiedevi ultimamente, affinché consegni al latore del biglietto stesso il danaro per pagare il pane che hai mangiato nei ventidue giorni passati; quello della sera dell'arresto ti è stato condonato.
La spesa giornaliera del vitto era stata fino allora di circa 90 lire italiane; adesso diminuiva da un terzo; dovevo pagare circa 35 lire; meno soldi e... meno bocconi. Tanti... da non farci morir di fame: ci gettavano due volte al giorno due o tre pezzi di pane di granturco della grossezza di poco più di un uovo ed un pizzico di una diecina di grammi di erba salata, più una tazza di acqua calda. Qualche volta, di mattina, ce li davano verso le 11 ed a sera verso le 15; altre volte di mattina, verso le 8 ed a sera verso le 22; qualche sera si dimenticavano addirittura!
Non era permesso di lavarsi se non una volta alla settimana, e nello stesso catino e con la stessa acqua usata dagli altri prigionieri. Dover restare poi sempre a sedere, senza potersi muovere di un centimetro, essere, senza esserlo, dei cadaveri viventi! Che roba! Passarono così dieci giorni e mi parvero più lunghi di dieci anni. Finalmente decido di mettere in chiaro le posizioni, se non altro per variare.
Il giorno di tutti i Santi faccio chiamare il giudice al quale voglio parlare. A notte avanzata egli viene. È lui, lo riconosco, quello che nei miei due primi interrogatori fungeva semplicemente da scrivano. D'ora in poi sarà lui a confezionare il mio processo usque ad finem.
Giovane, slanciato, aspetto burbero e sguardo truce, intelligente e sagace, specializzato nel combattere la Legione di Maria, molto addentro alle questioni religiose da apparire cristiano apostata; non avrà mai un istante di misericordia per me, neppure quando mi vedrà stramazzare a terra, sfinito; solo negli ultimi quattro giorni prima dell'espulsione, offrendomi cavallerescamente la mano, sorriderà soddisfatto di aver convertito un «ostinato alla causa della pace universale tra i popoli!».
La guardia mi accompagna al secondo piano del palazzo, facendomi salire altri due tratti di scale simili a quelle che conducevano al sotterraneo; apre una porta e mi spinge dentro. Seduto al tavolo, sta il mio giudice:
— Mi riconosci? — Rispondo affermativamente con un cenno del capo.
— Ah! già lo sapevamo da tempo che anche tu avresti scelto l'unica via di salvezza che il Governo del Popolo offre a tutti i malfattori. Allora incomincia, che ancora sei in tempo, a confessare tutti i misfatti che hai commesso contro il Governo! — Ciò dicendo, fa scivolare tra il pollice e l'indice della sinistra i fogli del plico.
— Mi sono ben esaminato ed ho potuto rendermi conto di non aver commesso alcuna opera reazionaria che costituisca reato presso il Governo; confesso invece di aver fatto delle azioni che han potuto causare sospetti su di me, ma che in realtà non sono state di carattere sovversivo.
Qui decido di narrare tutta l'opera svolta a favore della Signora Riva e di Mons. Martina.
Il giudice vuole sapere tutti i particolari della conoscenza e delle mie relazioni, saper tutto così particolareggiatamente da cadere nel ridicolo! Alla fine aggiunge: — Come puoi supporre che il nostro Governo imprigioni un individuo, basandosi semplicemente su dei sospetti? In tutte queste chiacchiere che mi hai raccontato non c'è nulla contro la legge. Vedo che non ti potrò salvare e che tu non sfuggirai la fucilazione. Mi hai fatto scomodare solo per prendermi in giro!
E così diede ordine di ricondurrai nella tana, dicendo alla guardia di non farmi dormire «perché dovevo pensare ai miei delitti!».
Ritornato in basso dovetti ingoiare altri rimproveri e maledizioni della guardia. Dopo qualche ora, di nuovo dal giudice. Mi fece ripetere tutto quello che avevo detto nell'interrogatorio precedente, e, quando vide che incominciava ad albeggiare, mi. appiccicò parolacce e minacce e mi rimandò in gattabuia.
La sera dopo ancora da me (e da questa volta sempre insieme ad uno scrivano). Mi chiese:
— Conosci tu la Legione di Maria?
— Si!
— Dove l'hai conosciuta, qui dentro?
— No, quando ero libero!
— Allora, quando, quindici giorni fa, ti rivolse la stessa domanda il rappresentante della Corte Suprema di Giustizia, perché negasti di conoscerla?
— Io non l'ho mai negato. Egli mi domandò quanti Ordini o Congregazioni conoscessi qui a Pechino; non pensai affatto alla Legione di Maria, perché non è né un Ordine né una Congregazione, ma semplicemente una associazione di cattolici.
— Non mi fare il sofista! Come l'hai conosciuta?
— L'ho conosciuta perché ne ho istituiti tre Presidi anche nella mia Parrocchia!
Volle sapere da quando datava la mia cura della Parrocchia Salesiana e tutta la mia opera di quel tempo; poi i nomi, il domicilio e le condizioni dì ciascun membro dei miei tre Presidi.
Dalla registrazione di sei mesi prima egli sapeva certamente già tutto e meglio di me; io ricordavo appena i cognomi degli iscritti e non di tutti; ma credendo che io volessi mentire, mi assoggettò a tali vessazioni che mi condussero quasi in fin di vita.
Dal giorno dei Morti fino al 24 novembre fui interrogato tutte le notti, e spesso tre o quattro volte; gli interrogatori, in genere, non duravano mai meno di due ore, spessissimo quattro o cinque e qualche volta anche di più.
Durante i «salassi» dovetti star sempre in piedi fino agli ultimi quattro giorni prima di partire. Il chiodo da battere: la Legione di Maria.
Non sono un pulcino, ma neppure un leone e già raccapezzavo più poco a furia di occhi aperti e di terremoti parolacei. Se chi dorme non piglia pesce, io che non dormivo (quante notti?) non pigliavo più ne domande né risposte...
La sera del 7 novembre la guardia mi chiama come il solito. Salgo al pianterreno. Due soldati mi aspettavano per bendarmi gli occhi; mi accompagnano a braccio e mi fanno salire in Jeep. Questa volta sono certo della fucilazione. Il giudice me l'aveva minacciata più che spesso; e questa volta non mi avevano fatto portar via l'imbottita, mentre l'altro prigioniero era partito con l'imbottita, e al suo posto già languiva una giovane giapponese che, a giudicarla da tutto l'insieme doveva essere nobile e ricca.
Dopo una diecina di minuti di tragitto la Jeep si ferma e i soldati mi fanno scendere; poi mi conducono dentro una vasta residenza; traverso due o tre cortili.
Quando mi lasciano, sempre bendato, mi gridano: — Non ti muovere finché non te lo diciamo noi. — Non c'è più dubbio: stanno per fucilarmi!
Da un momento all'altro mi aspetto le pallottole alla nuca; invece, d'improvviso mi tolgono la benda. Sto di fronte al Giudice. Una bella sala rettangolare con ricchi tappeti per terra, drappi alle pareti e comodissime poltrone: io, in mezzo. Incomincia la commedia; questa volta il giudice è solo, lo spettacolo è tutto per lui.
— Il Governo ha già emesso la tua condanna a morte, perché è trascorso il tempo stabilito e tu non hai voluto approfittare dell'occasione che ti ha prestato; questi sono gli ultimi momenti, hai i tuoi trent'anni e abbastanza intelletto per capire!
Qualche minuto di attesa e poi:
— Non mi rispondi nulla?
— Io non ho inteso nessuna domanda !
— Il Governo ti chiede se vuoi approfittare degli ultimi momenti di quest'ultima occasione!
— Sì, voglio approfittarne!
— Ebbene i tuoi delitti sono qui che aspettano la tua conferma e il tuo riconoscimento!
In verità stavolta il plico non c'è sul tavolo; ed io non faccio motto. Negli interrogatori precedenti mi aveva domandato molte volte il nome del Delegato Generale dei Frati Minori in Cina e il suo indirizzo di Hong-Kong; il nome del nuovo Generale dei Frati Minori e la distinzione nominale dei membri della Legione di Maria.
La commedia continua: — Bene, non rispondi? Allora avvicinati e scrivi il nome, l'indirizzo preciso del Delegato Generale dei Frati Minori in Cina.
— Ho detto tante volte che non lo ricordo.
Allora scatta in piedi, dando ordine alla guardia di andare a prendere le manette.
— Anche la pazienza del nostro Governo ha un limite: se non vuoi confessare con le buone, d'amico, confesserai con le cattive, da nemico!
Al ritorno della guardia, lui la stessa domanda ed io la stessa risposta; allora mi fa ammanettare con le mani al dorso! E mi stringe tanto forte da carpirmi qualche urlo...
L'interrogatorio seguitò per ben tredici ore consecutive; io sempre in piedi e sempre immobile; egli più volte uscì a prendere un po’ d'aria e di fresco, e nel frattempo mi faceva andare allo spigolo con la faccia al muro e mi ordinava di raccontare, a voce alta, tutta la mia vita dall'uso di ragione fino al giorno del mio imprigionamento. Nella narrazione impiegavo circa mezz'ora; se finivo prima del suo rientro non c'era che da ricominciare.
In sala con me c'era sempre la guardia; molto probabilmente dormiva tutto o tre quarti, perché alle volte, per riposarmi un pochino la mente, parlavo a casaccio e senza senso, e lui non avvertiva nulla. All'albeggiare la guardia mi bendò gli occhi e ancora la interminabile farsa tremenda. Qualche ora dopo, forse due, o forse quattro... i soldati mi riaccompagnarono fuori e mi gettarono di peso come un salame ben legato, dentro la Jeep. Dopo mezz'ora di nuovo nella stanza oscura!
Non vidi più la giovane giapponese; e nella camera attigua sentii un rumore di catene pesantissime.
Ero appena arrivato in basso che la guardia mi ordinò di risalire le scale; al primo pianerottolo, due soldati mi condussero in sala e ancora... davanti al giudice.
Si riaprì l'interrogatorio, ma le mie risposte furono quelle di sempre. Mi sostituirono le manette con due ordigni speciali, fatti a ferro di cavallo, che si incastravano l'un l'altro per i loro rebbi forati. Per questi passava un chiavistello che si chiudeva all'estremità con un lucchetto.
Questi ferri avevano la curvatura giusta dei polsi, cosicché le mani stavano nella posizione di chi è manigiunte, ma con i polsi strettamente aderenti l'un l'altro. Se le mani sono legate davanti, la cosa è in qualche modo sopportabile; ma se di dietro, come nel mio caso, non è addirittura possibile resistere.
Per far aderire i polsi in modo che i buchi dei ferri combaciassero onde ficcarvi il chiavistello, fu necessaria l'opera di tre soldati; provai tanto dolore come se mi avessero spezzate le spalle. Con le mani in quella posizione il giudice mi costrinse ad accoccolarmi: il petto e la testa eretti, i piedi uniti con le calcagna e le piante adiacenti al pavimento; le due guardie per veder meglio, mi tolsero le scarpe. In quella posizione si può resistere solo pochi secondi; e io cascavo subito all'indietro con tutto il peso del corpo sulle braccia tese e legate. Non potendomi subito rialzare, come esigeva il giudice, le guardie mi colpivano con calci e con la cassa del moschetto; io rotolandomi per terra ed aiutandomi con le spalle e con la testa, a stento e con grandissimo dolore finalmente riuscivo all'altissima impresa.
Quella mattina, sdraiato comodamente su di un divano, il giudice mi fece ripetere questa funzione per una diecina di volte, finché non avendo più né fiato ne forza di tirarmi su, restai disteso a terra, semivivo, pregando il giudice di volermi fucilare. Me l'aveva promesso. Ed io non desideravo più che la fine, qualunque! Una sonora risata:
— Sarebbe troppo a buon mercato per te scontare con una pena di pochi minuti le colpe di una vita intera; prima le dovrai confessare tutte, e poi vedremo...
Restai in quella posizione per un poco, finché con l'ultimo filo di forze mi rialzai; ma ora non saprei dire se ritornai in basso da me o se mi ci condussero di peso le guardie. Ricordo bene che un rumore indiavolato di calci sulla porta e sul mio retro mi ricondussero alla realtà: mi trovai raggomitolato sopra l'imbottita.
— Chi ti ha dato il permesso di dormire? L'ordine è di farti stare in piedi.
Due di essi mi alzarono e mi dissero che non avrei dovuto muovere il corpo neppure di un centimetro senza chiederne licenza. Gli insetti aiutavano gli sgherri a tormentare questo povero disgraziato. Febbre... Sudore... Freddo... Mi sentivo morire!...
Quando arrivò l'ora dei due tozzi di pane, la guardia tentò di aprirmi i ferri, ma gli fu impossibile, tanto le mani si erano gonfiate per lo stringere dei ferri e per la naturale spinta delle braccia in avanti. Allora mi fece mangiare, sdraiato per terra, direttamente con la bocca, come i cani. Pregai la guardia di riprovare a sferrarmi. Mi segavano le mani, quei ferracci! E volevo rimettermi le scarpe, sentivo tanto freddo ai piedi. Mi rispose: Mettiti le scarpe con la bocca, come hai fatto per mangiare!...
A sera venne l'ufficiale responsabile, e tra urla e grida, fingendo di rimproverare le guardie, riuscì a togliermi i ferri. Le mani già completamente nere, restarono immobili e le braccia insensibili. Cosicché parecchie altre volte dovetti mangiare per terra direttamente con la bocca!
Appena mangiato, quella stessa sera, mi rimisero le manette, sempre con le mani legate di dietro.
Quella notte il giudice non venne... Erano già otto giorni e otto notti che non chiudevo un occhio, sempre con la ninna-nanna del moschetto e delle pistole puntate ai fianchi. Come potevo dormire con quella razza di ninna-nanna?