Il 25 luglio 1951 resterà nella storia della Chiesa di Pechino come il «giorno della grande retata». Difatti i comunisti, la sera di quel giorno, ordirono ed eseguirono un'azione combinata per requisire la Cattedrale e gli annessi locali della Curia, la grande Chiesa e Parrocchia dell'Oriente (Tung T'ang), la Parrocchia di Niu P'ae Tse, tenuta dai Belgi Scheutisti, ed altre Case religiose di minore importanza.
La tattica era semplice e scoperta: apparivano drappelli di Polizia numerosi a seconda dell'importanza del locale da requisire e del numero di persone da arrestare o relegare.
I soggetti ritenuti più pericolosi o colpevoli venivano ammanettati e condotti in prigione; gli altri si chiudevano in una o più stanze separate, sempre sotto la vigile guardia di militi armati; poi incominciavano gli interminabili interrogatori e le minuziose perquisizioni dei locali.
Proprio la sera del 25 dovevo andare a confessare le Suore Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria.
Nei giorni già stabiliti non era più possibile, dacché gli attivisti comunisti avevano cominciato a visitare periodicamente gli Istituti e le Case per tenere riunioni di addottrinamento marxista.
Uscii dalla nostra Casa - Cappellania dell'ex Ambasciata italiana - dove mi trovavo temporaneamente in vacanza, costeggiando il campo cittadino di pallacanestro, girai a sinistra sulla strada principale di fronte all'Hotel de Pekin (sede della prima riunione del Clero indigeno con il primo Ministro), poi imbucai il vicolo Nan Chia Tao che conduceva alla Casa delle Suore; in tre minuti ero alla porta.
Suonai, distratto come sempre! La porta si aprì lentamente cigolando, tanto da farmi vedere appena il volto concitato e rosso di una educanda che, senza complimenti e sgarbatamente mi chiese: «Che vuole?».
A questa inaspettata accoglienza rimasi di stucco e pensai con dispiacere che la ragazza avesse certamente bisticciato con la Superiora e sfogava quindi la sua rabbia con me.
Mentre lavoravo di fantasia per rendermi conto dell'accaduto, la ragazza mormorò qualcosa tra i denti, sottovoce, ma che io non riuscii a capire; poi, parlando sgarbata come prima: «La Superiora non c'è; e noi non possiamo far entrare nessuno!»
Ero ancora lì con il piede sullo scalino quando la porta si spalanca tutta, mossa da una forza brutale e vedo un poliziotto dietro la ragazza! «Ecco, adesso capisco! La ragazza si è inquietata davvero con la Superiora, istigata da quel tale; fanno sempre e ovunque così i comunisti per mettere discordie nelle famiglie e negli Istituti, tra genitori e figli, tra superiori e sudditi, tra stranieri e indigeni !»
Non finisco questo mio pensiero perché il poliziotto: «Chi è lei? Entri pure!»
Trovai le Suore e le aspiranti riunite nel vestibolo; con esse c'era un ufficiale seduto su un banchetto. Le Suore cercavano di nascondere il loro spavento giocherellando con il cordiglio e la corona; mi accorsi che la loro era una finta disinvoltura; mi guardarono con una certa aria di sollievo e di timore insieme: speravano che io le avessi potute aiutare, ma temevano anche per me.
Soltanto allora capii l'intelligente comportamento della ragazza che voleva salvarmi dalla trappola: parlando sottovoce mi aveva detto di fuggire, perché c'erano i comunisti!
— Che cosa è venuto a fare? — mi domandò in tono cortese l'ufficiale.
Tentai di rispondere direttamente alla Superiora in italiano, ma l'ufficiale: — Risponda a me in lingua cinese! —
— Sono venuto a chiedere alla Superiora come vuole le calze che ha ordinato al laboratorio salesiano, se doppie o semplici! — E ciò era vero!
La Superiora balbettò: — Come sembra meglio a loro, come è più facile per le loro macchine! —
— Va bene ! Allora arrivederla ! — e mi voltai per uscire.
— Prego, rimanga qui, non possiamo rilasciarla — scandì l'ufficiale.
— Benissimo, così potremo stare un po’ insieme! —
Buon viso a cattivo gioco! E sangue freddo!
L'ufficiale seguitò, come se nulla fosse accaduto, il suo interrogatorio alle Suore, con una interminabile sequenza di domande:
«Cosa mangiate al giorno? A voi straniere piace la nostra cucina? E a voi cinesi piace quella europea? Il mangiare è uguale per tutte? Voi straniere state meglio in Cina o in Italia? Vi piace il nostro clima? Vi è rimasta difficile la lingua cinese?»
Mentre l'ufficiale parlava, una Suora mi accennò con gli occhi sbarrati il poliziotto armato di mitra e rivoltella che stava dietro la porta, quasi per chiedermi: che cosa sta a fare, che cosa significa?...
Con un movimento della testa e delle labbra le feci intendere che non ci sarebbe stato nulla di male.
Visto che l'ufficiale non se la finiva più, interruppi con l'intenzione di portare un po’ di ilarità in quell'atmosfera sempre più pesante. S'era in tema di culinaria!
— Compagno, a me piacciono molto i Chiao Tse. — (Una specie dei nostri tortelli, buon piatto che il cinese mangia nelle solennità).
— Quante volte li ha mangiati?
— A dire il vero, poche volte!
— Dove?
— Nell'Istituto dove io lavoro con tanti altri lavoratori!...
Avendo capito la maligna insinuazione dell'ufficiale che, come tutti i comunisti, riteneva reato contro il popolo il mangiare bene, per non dargli altre informazioni «preziose», cambiai argomento e, quasi approfittassi dell'occasione di essermi incontrato con uno che «sa», gli dissi:
— Leggo ogni giorno sui giornali la relazione sulla Legione di Maria, ma non riesco a capire perché la si debba chiamare una organizzazione reazionaria.
— Se il nostro giornale la chiama così, vuoi dire che è tale.
— Va bene, ma mi piacerebbe sapere la vera ragione per cui è considerata reazionaria.
— Avete qui un manuale di quella organizzazione? Datemelo e ve lo saprò dire.
La ragazza che mi era venuta ad aprire mi domandò con gli occhi se dovesse cercarlo; le feci capire di prenderlo e darlo all'ufficiale. Era il manuale piccolo. L'ufficiale cominciò a sfogliarlo lentamente per trovare una qualche frase reazionaria; ma non potendola trovare, così a prima vista, si mise a leggerlo attentamente e con molta pazienza fin dalla prima pagina.
Lesse e sfogliò per quasi un'ora; noi tutti in silenzio guardavamo la sua faccia: ogni pagina che voltava era una sconfitta per lui; una vittoria per me! Di tanto in tanto gli chiedevo:
— Non ha ancora trovato nessuna frase reazionaria?
— Ancora no — rispondeva mortificato. Intanto la Superiora mi faceva cenno di restare fino in fondo alla... fine.
Quando l'ufficiale ebbe esaurita la sua attenta ricerca, scattò meravigliato:
— Ma questo è il manuale piccolo! Volevo ben dire! Portatemi quello grande e vedrete!
— Quello grande non l'abbiamo — rispose una ragazza.
— Ce l'ho io in casa, — esclamai, — posso andarlo a prendere, torno subito!
— No, non occorre ! Tanto il Governo ha già studiato a fondo la questione, e se ha trovato delle frasi reazionarie nel manuale grande, come hanno detto anche i giornali, c'è poco da fare, perché il nostro Governo non sbaglia.
— Se la Legione di Maria fosse veramente sovversiva nella sua essenza, come voi dite, questo dovrebbe apparire anche nel manuale piccolo...
A questo punto si aprì la porta ed entrò un uomo in borghese, evidentemente ufficiale anche lui; scambiatesi alcune parole con l'altro ufficiale, uscì; ma ne entrò un altro in divisa che aveva tutta l'aria di essere un capoccione, difatti era il capo responsabile !
L'ufficiale di prima mi accusò presso di lui:
— Questo Padre straniero sostiene che la Legione di Maria non è reazionaria.
— Non siamo venuti per queste sciocchezze, — replicò il capo con tono sprezzante, da superuomo.
Poi scese nel cortile dirigendosi alla porta che comunica con l'abitazione dell'italiano Dottor Capuzzo. Cercò di aprire, ma impossibile! La serratura era arrugginita. Allora se ne andò, ma lo rivedemmo apparire dall'unica finestra di casa Capuzzo che dava sul cortile interno delle Suore. Allora capimmo che anche il Dottore era prigioniero.
Proprio da quella finestra, più tardi, scesero una dozzina di uomini e donne comuniste in divisa, venute a perquisire l'appartamento. Per essere più liberi ci spinsero in cortile dove finalmente potei scambiare alcune parole con le prigioniere, in lingua italiana, e capii che erano proprio spaventate. Per tranquillizzarle, interrogai la guardia sulle intenzioni di quelli che mettevano sottosopra la casa; mi rispose che le perquisite non erano propriamente le Suore.
Circa a mezzanotte finì la perquisizione e cominciarono gli interrogatori, spicciativi per le Suore straniere; ma il mio durò più di un'ora; e per la prima volta dovetti narrare per filo e per segno tutta la mia vita e tutti i miei miracoli...!
Verso le 20 si era ammucchiato con noi anche il P. Mascolo, un francescano, il quale aveva sostituito il P. Bufalini in qualità di superiore della Cappellania dell'ex Ambasciata italiana.
Che cosa gli era successo? Semplicissimo! Non vedendomi ritornare in residenza era venuto a cercarmi e cascò in trappola pure lui! Fu interrogato non meno minuziosamente di me ed io gli feci da interprete,
La Polizia aveva ordinato alle Suore di preparare le brande per noi due nel laboratorio vicino alla Cappella.
Ci coricammo. Ma il sonno non venne. Venne, come sempre, l'alba.
Chiacchierammo un po’ , poi dicemmo di celebrare la Messa e di consumare il Santissimo. Celebrai per primo. Mentre celebrava il P. Mascolo, capitò un ufficiale che invece di fare scenate o rabbuffi come c'era d'aspettarsi, attese pazientemente seduto su una panca, cappello in testa.
Finita la Messa mi disse:
— Che, non puoi dormire?
— Veramente non ho sonno !
— Bene! Allora facciamo due chiacchiere, siediti!
— Mi scusi, ma noi, per rispetto al luogo, non parliamo mai forte in Chiesa, se si vuole accomodare qui fuori...
Mi ascoltò ed uscì volentieri; ci sedemmo sui gradini della porta che metteva nel cortile. Penna e taccuino alla mano incominciò la seconda edizione dell'interrogatorio.
— Guardi che io sono già stato interrogato !
Finse di non capire e continuò a chiedere il mio parere sull'operato del Governo, sulle riunioni pubbliche, sull'epurazione, sull'imperialismo americano ed europeo, sul capitalismo, sulla condotta di alcuni missionari e della Chiesa cattolica in genere, infine sull'imprigionamento del Signor Riva e di Mons. Martina.
Alle domande riguardanti la politica mi mostrai ignorante e disinteressato.
— Rimango meravigliato dell'accaduto di Monsignor Martina e del Signor Riva; mi pare strano che siano dei reazionari.
— Allora vuol dire — spiegò confidenzialmente — che non sai quello che hanno commesso, cioè la loro congiura per assassinare il Presidente Mao. Stai sicuro che non se la passeranno liscia. Molto presto i giornali comunicheranno a tutto il mondo i loro «enormi delitti» contro il Governo del popolo, e così tutti avranno modo di vedere ed ammirare la grande giustizia del nostro Governo comunista!
Poi si passò a parlare dell'Internunzio Riberi: — È volontà del popolo che il Governo scacci via questo imperialista americano! Martina che è il suo rappresentante qui a Pechino e che conosce quindi come stanno le cose, ha già confessato tutto!
— Ma guardi che Mons. Martina non è il rappresentante di Riberi, ma soltanto un responsabile del palazzo dell'Internunziatura a Pechino.
— Su via, padre, tu sei un semplice sacerdote e non puoi conoscere gli intrighi dei tuoi superiori. — Tentai di insistere, ma l'ufficiale troncò l'argomento passando ad altro.
— Che, voi cattolici ritenete l'Internunzio una persona infallibile come dite sia il vostro Papa?
— Ma no, soltanto che ci dobbiamo attenere per norma disciplinare e per prudenza alle sue decisioni in materia di fede e costumi.
Replicò con una risata fredda e offensiva! La conversazione però ridivenne subito amichevole, e io approfittai per dirgli:
— Un cristiano cattolico che osservi fedelmente le leggi divine diventa per se stesso un ottimo cittadino; quindi noi, adoperandoci per formare dei buoni cristiani, lavoriamo nella causa comune per plasmare dei cittadini modello! E credo che non ci sia nulla di meglio e di più auspicabile che i comunisti si mettano a studiare profondamente e senza pregiudizi la religione cattolica per ricostruire su basi solide e sane la grandezza della nuova
Cina.
Il mio ragionamento gli dovette sembrare tanto ingenuo perché si fece una interminabile e gustosa risata poi: — Se il comunismo ammettesse anche la sola possibilità di un qualche principio religioso, in quel momento stesso cesserebbe di essere comunismo.
Così giungemmo al mattino!
Poco dopo venne il capo con l'ordine di rilasciarci perché «non si trattava di noi».
La superiora mi aveva pregato di restare fino in fondo alla... fine.
— Non so se sarà bene farti rimanere, non ho disposizioni in proposito; vedremo!
— Scusi, ma io penso che non ci debbano essere difficoltà, perché il nostro Governo ha proclamato e difende la libertà di religione e di culto.
— Allora rimani pure!
P. Mascolo ritornò subito a casa.
A me fu assegnata la sala adiacente alla Cappella dove mi rinchiusi per leggere e pregare; approfittai dell'occasione per fare il mio ritiro spirituale.
Uscivo soltanto per andare a mangiare, passando per il cortile. Ogni volta che mi sedevo a tavola ero seguito dalle giovani comuniste che sorvegliavano la casa; si fermavano sulla porta della stanza per curiosare come e che cosa mangiavo; notando la mia riservatezza e la vita metodica che conducevo con tutta naturalezza e liberamente, si meravigliavano di me e lo dicevano alle Suore, le quali, perfettamente libere di parlarmi, me lo riferivano.
Nella casa sempre il solito movimento di guardie e di attivisti; in casa Capuzzo seguitavano ancora minuziosamente le perquisizioni; dalla sala dove ero mi giungevano i colpi continui che menavano contro i muri e sentivo il telefono squillare notte e giorno.
La terza sera del mio confino volontario, mi chiamò un ufficiale che mi trasmise l'ordine del Governo di lasciare la casa; prima di licenziarmi mi fece firmare una dichiarazione esplicita di non dire nulla a nessuno dell'accaduto. — Io posso anche non parlare, ma capite che i nostri già sanno tutto, perché P. Mascolo avrà già parlato. E poi, che cosa racconterò al superiore quando mi domanderà dove sono stato tutto questo tempo?
— Stia sicuro che il P. Mascolo non ha parlato, perché anche lui ha firmato la sua dichiarazione di tacere; al superiore poi, gli inventi qualunque cosa, faccia lei, ma non parli di quel che ha visto, se non vuole noie.
Firmai e ritornai a casa, dove tutto era noto, per filo e per segno. Lì seppi della famosa «grande retata».
Rimesso in libertà, non cessavo di stare preoccupato per le Suore, le quali, nei grigi giorni del blocco, facevano spesa tramite una ragazza aspirante, accompagnata da un'attivista comunista; più tardi l'aspirante poteva andare da sola, e fu così che ella di tanto in tanto sgusciava inosservata nella nostra residenza a narrarci le novità. Noi le consegnavamo una teca con le Particole consacrate che ella rimetteva alla Superiora, e Suore e aspiranti si potevano, ogni tanto, comunicare!
Non contento delle frettolose informazioni che ricevevo, decisi di ritornare io stesso nell'Istituto delle Suore, con la scusa di ritirare i panni che le Suore ci lavavano settimanalmente.
Suonai alla porta, per la quale giorni prima entrai per rimanervi prigioniero; ma questa volta attento ad ogni rumore e non senza trepidazione.
All'ufficiale che si meravigliò della mia comparsa, spiegai:
— Ho mantenuto fede alla parola data e non ho detto nulla dell'accaduto; ma oggi il P. Bufalini voleva venire a ritirare i nostri panni che questa settimana non ci sono stati rimandati. È chiaro che avrebbe scoperto tutto, ed allora ho insistito per venire io stesso. Se quindi lei è così gentile da farmeli riprendere...
— Se li faccia dare, ma faccia presto!
Entrai nel nuovo laboratorio, seguito dal miliziano che mi aveva aperto e che mi richiamò all'ordine quando tentai di parlare in italiano.
Tuttavia, mentre sceglievo e accatastavo i panni, riuscii a scambiare qualche frase e ad informarmi della situazione: le Suore stavano bene, anche se ancora in preda a un po’ di paura; e seppi che mi avevano cacciato via perché in quella sala dove ero io, erano stati portati altri prigionieri.
Immaginatevi l'ilarità mia e dei miei confratelli, quando tornai a casa con un sacco di panni sulle spalle, dopo aver giuocato elegantemente l'onnipotente Polizia.
Ma l'affare delle Suore non doveva finir bene. Il P. Bufalini, già responsabile della casa delle Suore e di Capuzzo, avendo saputo che la Polizia la voleva sequestrare, in assenza del P. Mascolo, decise di portarsi sul luogo, fingendo di non saper nulla e col pretesto di vedere se i tetti erano al posto.
Come da prevedersi, i tetti non erano i panni! E non ritornò più! Da notare che il suddetto Padre, già da tempo aveva chiesto il rimpatrio, ma non gli era stato ancora concesso; segno evidente che la Polizia aveva ben altre iniezioni sulla sua sorte.