Sala rettangolare: nel centro, ardeva una stufa. Una gran porta divideva la sala da un altro stanzone. Qui mi tolsero la benda poi mi portarono in sala. Fui accolto dallo sbalordimento di due prigionieri buttati nei propri letti, nei due spigoli di sinistra. Li avevo incontrati nella prigione oscura:, un giovane e una ragazza giapponesi. Dovevo essere orribilmente stralunato e selvaggio per suscitare tanta meraviglia e spavento: si guardarono come per dire: «È lui?...» Poi tornarono a fissarmi con occhi d'immensa pietà.
Un soldato mi offrì una sedia accanto alla stufa. Oh, mio buon frate focu, quanto sei buono tu e come siamo cattivi noi!
Dopo qualche minuto entrò anche il P. Bufalini, scapigliato e barbuto come un ceffo... da galera! La sua faccia ovale si era allungata enormemente; gli occhi cerchiati da cupi calamari erano affossati e il suo nasone sembrava raddoppiato in lunghezza, in larghezza e in profondità. Un brivido tremò nelle mie ossa e a stento frenai le lacrime.
Dietro quel ceffo barbuto, ecco i soldati con le nostre imbottite in groppa e alcuni gerarchi. Tra questi pure il «mio» vecchio compagno Ma.
Mi alzai per salutarlo con un inchino.
— Qual è la tua imbottita? — mi domandò!
Gliela indicai avvicinandomi al soldato che la aveva già posata a terra. Voltai le spalle al Padre Bufalini per fargli cenno con le mani legate al dorso, di darmi l'assoluzione. Tornando vicino alla stufa il Padre chinava ripetutamente il capo e strisciava il mento sul vestito come per grattarselo. Voleva dirmi: «Ho capito!»...
Il compagno Ma era il capo responsabile anche di quella prigione. Avvicinandomisi, disse:
— Puoi stare seduto con le mani legate al dorso?
— Sì!
— Vuoi metterle davanti?
— Non so!
Allora diede ordine al soldato di sciogliere le manette e legarmi le mani davanti.
Arrivarono altri due prigionieri, un giapponese sulla quarantina, ed un cinese giovanotto. Ad ognuno il suo rettangolo di pavimento... buona notte!
Io ero a destra dell'entrata centrale; di fronte a me il cinese, alla sua sinistra il P. Bufalini e il giapponese alla mia destra. Un quartetto silenzioso, ombre nell'ombra, anime in attesa.
Quando lasciai la prigione oscura non avevo ancora mangiato i due tozzi di pane. Nel nuovo «paradiso» molto probabilmente la cena era finita; e così, anche quella sera, a bocca asciutta. Ma la gran gioia di poter finalmente dormire, perché le mani erano ammanettate davanti, mise pace nel mio stomaco. Fu una notte senza sogni né spettri. Volò come un lampo. Quando ci svegliarono erano le 8.
Verso le 9 la guardia ordinò ai due giovani giapponesi di andare a preparare il pranzo ( !?). Dopo mezz'ora ritornarono con una marmitta di erbe cotte e un canestro di pan bianco, fumante. Questo sì che era, dopo tanto, il Panem nostrum!
A sera, il capo responsabile della prigione oscura riportò gli oggetti requisiti, consegnandoli, corani nobis, al nuovo padrone!
Nel riassettare l'imbottita e nell'alzarci per la razione di pane ed erbe, di sfuggita scambiavo qualche parola con P. Bufalini.
Quando fummo smanettati ci sbizzarrivamo, alla chetichella, a gesticolare e tracciare lettere sul petto, tutto in barba alle guardie. P. Bufalini più buono e più bravo di me, ma di me meno furbacchiotto, fu sorpreso due o tre volte a disegnare i suoi geroglifici. Se la cavò sempre con una ramanzina.
A forza di geroglifici (che bellezza!) ci confessammo reciprocamente.
Il petto era come una lavagna, come una grata... Mi assicurò di aver saputo con certezza la fucilazione di alcuni colleghi Sacerdoti e che per tutti noi francescani febbraio sarebbe stato il mese del sangue. E tirammo innanzi, così, finché non sbocciò la nuova incognita.
...21 dicembre, notte. Dopo un mese, ecco il mio giudice, con uno scriba, per formulare il questionario del processo finale.
Le prime battute, su piano generico, andarono, molto bene; la matassa si ingarbugliò al mio gran rifiuto sui due capi essenziali: essere io una spia e la Legione di Maria una organizzazione reazionaria.
Stracciando convulsamente il foglio che era sopra il tavolo, il mio giudice si alzò minaccioso: — Il Governo fin da principio aveva intenzione di trattare la tua questione in modo amichevole, ed anche oggi ti offre la possibilità di usufruire della sua generosità; ma se tu non vuoi, peggio per te! Per il Governo una pallottola di più una di meno non ha importanza. Pensi di tener sempre quei ferri alle mani? È troppo comodo! Ti metteremo le catene ai piedi e ti spediremo ai lavori forzati, caro signorino! —
Non ero novizio di certi spauracchi. Ormai su di me c'erano più minacce che capelli. E continuai lo sciopero della lingua, limitandomi a qualche dondolio verticale o perpendicolare della testa. Altri rabbuffi e nuove minacce, poi mi rimandò a dormire; un soldato mi sciolse le manette.
Vigilia di Natale. Venne un gerarca della Polizia. Ordinò al giapponese, al P. Bufalini ed ai due giovani che avevano il letto, di piegare le loro imbottite e partire. Lasciarono la sala muti. Dove si va?... E chi lo sa?!... Restammo io ed il cinese.
Qui — direbbe Goethe — comincia la novella storia. Si presenta il compagno Ma e dichiara che per noi due rimasti c'è ormai piena libertà di parole. Siamo entrati ufficialmente nel periodo dell'indottrinamento (Hsueh Hsi).
Sulle prime, esso consisteva nell'assidua lettura del giornale e di alcuni periodici comunisti, nella conversazione con le guardie onnipresenti e qualche volta con l'ufficiale.
Naturalmente, le nostre parole erano di piombo. Erano come gocce cavate da una cisterna di prudenza. Nessuna curiosità, nessunissima confidenza. Chi ero io? Non lo dissi! Chi era lui, quel cinese? Non lo seppi per molto tempo. Solo più tardi mi dissero che il cinese di sventura, Wang si era autoaccusato alla Polizia per la sua amicizia avuta con il Dottor Capuzzo. Povero Capuzzo!
Wang era originario di Shanghai; studiò fino alle Medie superiori presso i Lazzaristi francesi di T'ien-Tsin; frequentò poi l'Università a Shanghai e finalmente conseguì la seconda laurea a Londra.
Nei colloqui con le guardie e con gli ufficiali per l'indottrinamento, ci teneva ad accentare di essere stato educato nella vecchia società e di sentirsi ancora impastato della mentalità straniera; di cui era parto naturale e vittima fatale. Rammaricandosi di aver capito troppo tardi la bellezza della dottrina comunista si dichiarava dispostissimo a fare «il lavaggio completo del suo cervello» per distruggere radicalmente le vergogne del vecchio uomo e plasmare il nuovo sullo stampo della redenzione democratica.
Ogni sua parola la pesava, la ripesava, e poi la... tripesava. Per cui, quando apriva bocca, era tutto un'alta tensione nella ricerca del vocabolo più caro ai suoi pedagoghi.
Nel disprezzo per gli stranieri e per le loro porcherie e diavolerie in Cina, spolverava gli stessi comunisti, come Bartali spolvera, in corsa, i vari Malabrocca della bici. Era più Mao di Mao. E che lingua, che verve, che enfasi tributaria!
Le guardie crepavano d'entusiasmo. Stavano a bocca aperta e non sapevano più se Wang fosse un peccatore o un apostolo. Avevano la rivoltella ed erano tentati di battergli le mani. In molti casi chiedevano anche il mio parere; io mi limitavo a rispondere monosillabicamente. Quando poi sgomitolava le simpatie e le antipatie dei Sacerdoti cattolici suoi professori, verso gli allievi, le loro prepotenze in classe, le corruzioni agli esami, la loro condotta da superuomini, il loro disprezzo verso i cinesi, le loro particolarità verso il gentil sesso, il loro clandestinismo politico, ecc, per me non c'era che un ritornello: «Se è vero quello che dice il compagno Wang, quei Sacerdoti si sono comportati male!».
Protestava di essere pronto a mettere la testa anche sul fuoco e i piedi in una caldaia d'acqua bollente per provare che i ministri del culto erano stati mandati in Cina per fare i ministri dello spionaggio segreto. Per me c'era una clausola: questo poverino è un illuso!
«Fin da pupetti imparano ad adorare il loro Dio, a credere al Prete, a credere nelle superstizioni, a credere all'anima, a credere all'aldilà... Come liberarsi poi da queste idee? Questo fraticello, per esempio, fin dai cinque anni ha bazzicato la Chiesa, poi lo tapparono in Collegio con tutto quel po’ po’ di educazione così soggettiva e unilaterale che gli imbottì il cranio di sciocchezze metafisiche; e poi, chili di messe, quintali di borghesissima morale, tonnellate di bobba teologica. Povera creatura, non è che un paria dell'acida società imperialistica, e se si è opposto con fanatismo e con incoscienza al nuovo verbo sociale del Governo del popolo, la colpa è tutta dell'oligarchia imperialisticovaticana!».
Mi schizzava così al vivo e con tale «intelletto d'amore» e di pietà, che io sentivo di volergli bene. Dicevo a me stesso: che costui abbia ragione?!...
Verso i primi di gennaio il capo responsabile mi impose di fare la confessione scritta (T'an Pae): verbalizzare tutto ciò che avevo confessato durante gli interrogatori, perché il Governo vedesse lo sviluppo della mia conversione. Da questo protocollo dipendeva la mia sorte; ed anche per me domani poteva essere un altro giorno. Wang mi distanziava di qualche settimana. Egli l'aveva già scritta alcuni giorni prima di lasciare la prigione oscura. Mi consigliò di essere molto sincero e di non cadere nella tentazione della paura, assicurandomi, secondo il suo oroscopo, della nostra certa e prossima liberazione.
Dattilografai, in italiano, trentatré fogli; narrai per l'ennesima volta tutta la mia vita dall'uso di ragione fino al giorno dell'imprigionamento; particolareggiai il mio attivismo di Pechino contro il Governo Popolare Cinese.
Nel proemio, non so se più diplomatico o più fanciullesco, bruciavo incenso al turibolo dell'adulazione sperticandomi nella lode della metodologia comunista che anche al più delinquente apre la possibilità di tornare nel rango degli uomini liberi, purché confessi o ritratti. Questo sì che e Vangelo; altro che i Governi cristiani dove un povero diavolo, se non ha soldi e avvocati, fa sempre la fine di Abele!...
L'esposizione era senza commenti. Raccontavo come mi ero opposto accanitamente al movimento della triplice indipendenza; come avevo fatto firmare la lettera per il Vicario Generale; come mi ero recato nelle prigioni comuniste per interessarmi dei miei connazionali maltrattando guardie e custodi; come avevo avuto relazioni epistolari con Mons. Riberi e con il P. Benvegnù; come avevo eretto tre Presidi della Legione di Maria, e, in genere, numero e caso, come avevo lottato per convincere i cristiani a non macchiarsi l'anima di scomunica con la firma pro espulsione del Rappresentante del Papa.
Infine, applaudivo al Governo che aveva fatto benissimo a segregarmi dalla società. Ero suo nemico e, quindi, nemico del popolo e, quindi, nemico della Cina. Nella chiusa chiedevo la giustizia della pena e imploravo la grazia della misericordia.
Il compagno Ma aveva detto al professore Wang di aiutarmi, «perché ero impastato di superstizioni».
Io, prima di consegnare il carteggio all'ufficiale, lo passai al Wang. Il mio revisore mise il nulla osta; notò soltanto che non facevo mai alcun cenno alla mia opera di spionaggio segreto. Poteva passare come un'esposizione storica e non come una confessione spontanea.
Consegnai i miei scartafacci, una specie di tesi di laurea; e continuai il mio studio per indottrinarmi sempre più e sempre meglio.