Wang mi iniettava qualche fialetta di coraggio e mi sussurrava dolcemente che ormai anche il mio «caso» era agli sgoccioli, che dopo tutto l'odissea finiva bene; e non mi restava più che l'ultima rata della lunga passione. Tra poco, la libertà!
0 bella, o cara, o santa libertà!
Allora pensavo che forse quelle domande del mio giudice erano obbligatorie, d'ufficio; e che la sua burbera pignoleria dipendeva da uno smaccato zelo professionale...
A sera del 7 maggio venne il compagno Ma. Nuova stazione. Forse la quattordicesima? Preparammo la nostra imbottita. Salimmo in una bella macchina di lusso, senza che ci bendassero gli occhi.
Il poliziotto ci proibì di guardar fuori, sulla strada; Wang tolse volontariamente i forti occhiali; ma io fui più curioso e più disubbidiente e grazie a qualche furtiva occhiata capii l'ubicazione della nuova tappa: nord-est del T'ung Tan P'ae Lou!
Una bella casa a stile cinese, abitata da una famiglia tedesca, il cui capo era già in prigione per motivi politici. Entrammo nell'ampia sala rettangolare a nord del primo cortiletto. Dalla finestra centrale ci fu possibile scorgere una donna che passeggiava laggiù nel cortile sud.
Wang stese la sua imbottita sopra due ricche casse lavorate a stile cinese, addosso al muro; io sul pavimento di legno, sotto la vetrata, a destra della porta!
Il responsabile della casa ordinò alle guardie di sgombrare la stanza. Meno male! Ci vedevano; ma non sentivano le nostre chiacchiere. Così cominciò subito la nuova avventura della vecchia storia.
E qui, subito, un simpaticissimo pezzo...
Già da un mese, nell'altra prigione, e con tanto di patente governativa, cucinavo da me. Per la spesa c'erano le guardie. Mandavo a comprare riso, pane, patate, carne e frutta. Altro che fra Ginepro e i suoi zampetti! Wang non si stancava di elogiare la mia superculinaria.
Nella nuova prigione mi fu rinnovata la patente; e la stessa sera dell'arrivo la guardia mi diede visione del mio laboratorio... gastronomico. La vetrata si affacciava proprio al cortile sud. Ma la cucina non era mia proprietà privata. La usavano pure il responsabile della casa, le guardie, una donna tedesca; e per qualche tempo anche il fratello di un ufficiale, un povero scemo che bolliva la sua scodella di risotto o di polenta sullo stesso fornello.
Fu immediata la mia conoscenza con la tedesca. Era sulla quarantacinquina: bionda, snella ed apparentemente allegra. Non c'è bisogno di dire che i nostri furono tutti colloqui di contrabbando. Per fortuna lei era più abile di me e le guardie molto meno di me. E ci bastava poco; a volte soltanto un cenno, altre volte un sorriso. Quando si sta male, ci si contenta di così piccole cose!
In camera e nel cortile lei era liberissima; ma non poteva sconfinare nel nostro cortile né uscire dal portone!
Un bel giorno decisi di cambiare indirizzo e stile tra le mie pentoline.
Ripensai ai maccheroni di mamma e cominciai a cuocere pasta asciutta a mezzodì e friggere le patate a cena. Sulle prime la pasta mi si incollava tutta ed era più consigliabile per i manifesti che per lo stomaco; poi, a furia di colla, diventai un maccheronaio da brevetto. Anche il sugo, dopo qualche sproposito, non c'era malino.
Entrando in cucina, trovavo sempre la tedesca seduta in un gradino del cortile, a due metri dalla mia finestra. Racconciava i panni, o giuocava il solitario, o leggeva il Capitale del «suo» Marx. Mi pareva mezza fata e mezza Cenerentola. Scandiva forte gli esercizi di una grammatica francese, mutandoli come credeva meglio per farmi sapere qualche notizia su di lei, sul suo padrone, sulla casa, eccetera.
Una sera, mi trovavo solo a lavare i piatti, lei fece una scappatella in cucina con la scusa di posare qualcosa e mi domandò in cinese di che nazionalità fossi.
Altra volta — io lottavo con la mia pastasciutta — fingendo di parlare a un gatto al quale faceva delle moine, mi disse in un italiano abbastanza corretto il tempo del suo isolamento, come si trovava, che cosa sperava, eccetera.
In tempi d'allegrezza, cantarellando l'aria di «Santa Lucia» ci inseriva notizie in versi così appropriati ch'era una meraviglia. Narravo tutto a Wang; ma egli fingeva di non interessarsi, perché vedeva la cosa pericolosissima; tuttavia era tanto desideroso di sapere se in quella casa, prima di noi, c'erano stati altri prigionieri. Scrissi un bigliettino e lo gettai alla donna dalla finestra. Lei lo raccolse e sparì nella sua stanza; io allora provai subito una stretta al cuore senza sapere il perché. Che l'occhio della guardia... Dio mio!
La sera stessa trovai che il buchettino nella carta della finestra, per cui passò il mio biglietto, era stracciato fino al telaio.
E in seguito la nostra corrispondenza la sbrigammo così, a furia di bigliettini da quello strappo che fu per lei e per me una specie di Ministero «Poste e Telegrafi».
Si puntava d'azzardo, ma andò sempre liscia. Se potessi averli con me, tutti quei pezzetti di carta, ne farei un bellissimo album. Bigliettini di poche parole in italiano o in inglese, ma ricchi di consigli reciproci.
In quanto al desiderio di Wang mi diceva che in quella casa c'erano stati prima di noi altri prigionieri, ma con minor libertà. Mi consigliava, a non parlare mai di «giustizia» nelle conversazioni con i comunisti, ma sempre e poi sempre di «pace», «lavoro», «popolo». Questo consiglio mi fu ottima falsariga internazionale per il diario del pensiero.
Il 13 Maggio venne l'ufficiale capo, con due ordini: abbonamento al giornale e stesura del «diario». Per il giornale, transeat; ma come fare a scrivere quello che pensavamo da mezzanotte a mezzanotte?... L'impossibile poi diventava per me impossibilissimo. Almeno scrivere i miei pensieri «italiani» con il vocabolario italiano ! No, Cina locuta est e la volontà sovrana non si discute.
— Come faccio? In cinese m'arrangio appena al mercato, figuriamoci se posso scriverci l'imponderabile metafisica e i rapporti tra cuore e cranio!
— C'è qui Wang. Ti aiuterà lui.
Registrare il mio pensiero! 0 miei vecchi professori del mio ginnasio e del mio liceo! Quando, ai bei dì, mi stampavate sul quaderno quei cinque o tutt'al più quel melanconico sei meno, voi certo non pensavate che il vostro studentino svogliatello e brodolone e poco onorevole nell'idioma gentile, sarebbe stato chiamato a così alta impresa! Ma la gloria è come la fortuna: a chi tocca, tocca!
Solo che, penna in mano e dito sul bernoccolo, i miei pensieri m'erano invisibili e inacchiappabili come i pensieri della luna. E sbuffavo più del direttissimo Milano-Lecce. Wang, più filosofo e quindi più pacioccone, se la rideva:
— Forza! Ponza e afferra le pinze! Siamo vicini al traguardo. Questo diario sarà l'esame scritto per la nostra riabilitazione.
Ponza... è una parola! E tra ponza e pinze, il mio cervello!
Non si trattava più di scrivere la confessione dei fatti, o di protocollare i miei errori anti-Governo. Né m'era lecito usare parole di senso soprannaturale o mistico, ma solo parole nude come nudo è il pensiero e nuda la verità.
Qualche saggio!
Riguardo al motivo della mia venuta in Cina. sarebbe stata una sciocchezza controproducente parlare di Regno di Dio, di propaganda religiosa, di conversione di anime, di ideali, ecc. Sai che risate, i miei giudici!? Ed avrebbero concluso: queste cosette servono a mimetizzare la spia!
Che se poi limitavo il perché del mio incinesizzarmi a motivi d'ordine umano, finivo per essere bollato da «povero illuso». Dire, ad esempio, che venni per tentare il commercio o in cerca di avventure, sarebbe stato plausibile alla ragione degli inquisitori, ma contro coscienza e contro la ragione di Dio.
Intanto le discussioni con Wang, che aveva tanta buona volontà di aiutarmi, si moltiplicavano.
— Ma pensaci profondamente e con sincerità — mi diceva — perché non sei rimasto in Italia? E perché sei venuto proprio in Cina e non in America o in Africa dov'è la fu Etiopia di Mussolini? Non porterai mica dei perché teologici!
— Se non mi fai portare ragioni di fede, è quanto dirmi: non rispondere!
— Insomma, perché venisti in Cina?
Gli spiegai come nacque la mia vocazione per la Cina e non per l'America o per l'Africa dov'è la fu Etiopia di Mussolini. Mi nacque quando ancora portavo i pantaloncini corti e, si capisce, non usavo il rasoio. Gran festa e gran gente in Chiesa, quel giorno. Già, anche i frati, qualche volta, ammazzano! E pure le Suore; tant'è vero che nei processi a catena svoltisi nelle piazze rosse della Cina, è risultato niente po’ po’ di meno che delle Suore Missionarie hanno cotto, lessato e mangiato con molto appetito più di duecento bambini. Che stomaco, queste Suore! E lì, in faccia al popolo c'erano tanto d'ossa di quegli innocenti! Senonchè una Suora, medichessa, si fa avanti con immenso coraggio e con immenso terrore, piglia quegli ossetti, li osserva e grida: «Ma queste sono ossa di maiale!». Un motivo di più contro la reazionaria.
Dunque, quel giorno gran festa. C'era l'addio ad un Missionario francescano delle mie Marche. Era pallido il giovane avventuriero del Vangelo e cercatore di anime; ma così bello, così eroico e gigante ai miei occhi, che mi sentii un'invidia infinita e dissi: «Anch'io ! Domani anche per me quella croce sul petto; sarò anch'io missionario».
— Vedi? Tutte ragioni umane! Quella gran gente e quella gran festa, quelle campane e quei polli stimolarono la tua fantasia e ti accesero nel cuore fanciullo la fiamma dello stesso destino. Altro che vocazione e piano del tuo Dio! Tu fosti stuzzicato, più di altri, dal desiderio innato nell'uomo di essere lodato, ammirato, considerato.
Poi, con gli anni ti venne la voglia di girare il mondo, l'ansia turistica, l'orgoglio di trapiantarti tra un popolo che — ti dicevano — si trova ancora nel sottoscala della civiltà e della cultura; così tu — facilmente — saresti stato un galletto, superbo dei tuoi studi e del tuo europeismo. Ti ho parlato così perché ti voglio bene, tanto bene. Ponza così e vedrai che con le pinze della buona volontà carpirai le ragioni intrinseche di tutto. E ti salverai dall'accusa capitale dello spionaggio. —
Stando allo schema del mio Wang, non c'era altro da fare che togliere dalla mia vita l'antipaticissima fiaba del soprannaturale, pulirla della benché minima vernice di spiritualità e ridurre la così detta «vocazione» ad un'avventura o giù di lì. Quindi tutta la mia cronistoria passava di colpo su un altro specchio.
Altro spuntino.
Perché le mie relazioni con Mons. Riberi? Anche qui lo stesso procedimento mentale: nessun motivo soprannaturale e nessunissimo carattere religioso.
Io avrei provato piacere a fargli sapere che a Pechino c'era un certo Tiberi che si dava da fare tanto per la Chiesa, appariva tanto zelante, ecc.; contentissimo che egli ammirasse la mia opera e ciò, evidentemente, per ambizione, orgoglio e vanagloria !
Queste ragioni avrebbero dissuaso i comunisti dal credere che io fossi realmente una spia del Vaticano in combutta con l'Internunzio; e così non sarei stato che una vittima delle passioni umane da estirparsi con la nuova mentalità.
Su questo schema scrissi il diario del mio pensiero.
Wang era entusiasta delle mie affermazioni, benché anch'egli convinto del rovescio della verità. Ma non c'era altro da fare che contribuire al mio progresso nella nuova fede comunista. Mi lodava anche alla presenza dei maestri di indottrinamento.
Alcune volte mi limitavo soltanto a commentare avvenimenti speciali riportati dal giornale; ma dovendo ora scrivere cose «più concrete», l'ufficiale mi suggerì di esprimere il mio parere sulla condotta dei Missionari cattolici in Cina, sulla guerra batteriologica in Corea, sull'oppressione dei capitalisti sfruttatori del proletariato, ecc. Accusandomi vittima della vecchia mentalità, riconoscevo di non aver misurato con giusto metro i diritti del popolo e di essere stato troppo sciamannato, per colpa del mio apriorismo, nello studio dei principi democratici.
Brontolavo pure di qualche Missionario fattosi strumento servile degli imperialisti, commettendo azioni non permesse neppure dai canoni di Cristo, sebbene per ciò non ne scapitasse affatto la purità della dottrina, ma solo il cattivo operaio della vigna.
La guerra di invasione imperialistica e batteriologica in Corea non esitavo affatto a battezzarla «orrenda mostruosità».
Esaurito ogni argomento, misi un sospirone lungo come le Ande e feci punto all'alta impresa. Venne l'ufficiale... Una rampogna:
— Se non c'erano novità da scrivere, anziché sprecare la carta era meglio carta bianca.
A sera del 9 giugno tornò pure il giudice. Un'altra rampogna:
— Il tuo progresso (Chin Pu) è tutto falso e non credere di pigliarmi in giro.
Mi domandò poi se avevo notato sul giornale il resoconto delle elezioni in Italia, dove i comunisti erano saliti dal 28 % al 32 %, mentre i democratici cristiani erano discesi dal 49 % al 28 %!...
Dopo questa mia bocciatura, (e sì che avevo sudato sette camicie più sette!) fu la volta di Wang. Anche lui bocciato! Io a giugno, Wang a luglio: ambedue rimandali ad... ottobre!
Quando Wang uscì dall'interrogatorio era rosso come un papavero; c'era stata battaglia in... Parlamento. A me fu possibile sentire le scariche del giudice, ma non capirle. Fu Wang a darmi il bollettino ufficiale. Pure per lui, come per me, la minaccia, qualora non avesse «completato la sua confessione».
Wang cadde dalle stelle; per vari giorni non fece altro che parlare e gesticolare da sé; si sfogava perfino con le mosche.
— Pure tu, mosca del diavolo!
Io avevo preso da uno spigolo del cortile un grosso ragno e lo avevo convinto di costruirsi il suo «belvedere» sopra il mio capo, mi divertivo un mondo a buttargli le mosche che Wang ed io uccidevamo senza misericordia.
Ma quel giorno e poi, anche questo ragno dava fastidio a Wang. Non lo freddò per non darmi un grosso dispiacere...
Il 25 luglio la donna tedesca veniva espulsa.
Due giorni dopo, l'ufficiale si presentò a Wang. Che anche per noi suoni la campana?
Dopo un menù di imprecazioni e di minacce gli avanzò una proposta:
— Che cosa sei disposto a fare tu per il Governo, dopo tutta questa generosità che esso ti ha mostrato? Pensaci bene! Scrivi tutto e consegnalo alla guardia; intanto per fartici pensar meglio ti proibisco di parlare con il tuo compagno di prigionia.
Vidi Wang tutto sconvolto e mi mancò il coraggio di domandargli le novità. Solo più tardi mi accennò qualche cosa, e, tra l'altro, che gli era stato proibito di parlare con me!