La notte seguente, fui richiamato di sopra per l'interrogatorio. Avevo già perduto «la bussola e l'alfabeto».
E solo infine, all'atto della firma, seppi che era il 9 novembre.
L'interrogatorio di quella notte non fu né molto lungo né molto animato.
Il Giudice mi domandò a bruciapelo:
— Conosci tu il P. Lebrun?
— Sì.
— Ebbene adesso mi devi dire che cosa hai fatto con lui nei riguardi del Vicario Generale di Pechino.
L'allusione non poteva essere più chiara; d'altra parte quella lettera che scrissi d'accordo con il P. Lebrun per chiedere al Vicario una direttiva comune, non poteva disonorarmi, tutt'al più avrei compromesso quella quarantina di Sacerdoti stranieri che l'avevano firmata! Se il giudice lo sapeva, (e lo sapeva!), ad guid la mia ostinatezza? Evidentemente, qualcuno aveva parlato; cosi io decisi di dire tutta la verità, nient'altro che la verità.
Il P. Lebrun che era stato imprigionato a casa fin dal 25 luglio 1951, fu liberato qualche giorno dopo di me. Incontrandolo qui a Roma gli chiesi di questa lettera; mi rispose che fin dal mese di settembre il suo giudice sapeva tutto.
Il mio, furbescamente non volle credere alla mia sincerissima confessione e mi rimandò in basso. Laggiù, ancora e sempre in piedi.
Nella stanza trovai un altro prigioniero coricato. Non potei osservarlo bene, perché dovevo stare con la faccia verso la lampadina.
Fu allora che mi si oscurò la vista per qualche secondo; poi con chiarezza d'allucinato vidi, nel corridoio attraverso la porta divenuta miracolosamente trasparente, una interminabile processione di prigionieri cinesi, a fila, uno dopo l'altro, con le mani legate di dietro. Riconobbi alcuni Sacerdoti Trappisti che mi guardavano con compassione, ed altri cristiani, uomini e donne, che piangevano; infine alcuni giovani e bambine (di mia conoscenza) che saltarellavano e mi guardavano sorridenti.
— Ma dove andrà tutta questa gente ? pensavo; che in fondo al corridoio ci sia una porta di uscita? — Avrei voluto parlare, ma non ne ebbi il coraggio. Mi trovai improvvisamente con gli occhi pieni di lacrime; allora chiesi alla guardia se mi permetteva di chiudere gli occhi, pur senza dormire; magari avrei preferito reggermi sulla punta dei piedi, in prova della mia veglia, ma volevo chiuderli questi occhi aperti e martoriati da più di nove giorni e nove notti, o almeno toglierli dalla luce. Un categorico «no» condito di cento imprecazioni e di cento rimproveri. Offrii tutti i miei sacrifici per quei cristiani che erano sfilati pochi minuti prima, per il loro coraggio e perché fossero fortissimi nella fede. Ma, come li vidi se la porta era chiusa? Eppure li avevo visti! 0 miracolo o delirio; certo, delirio!
Quando il mattino dopo diedero il segnale della sveglia, mi accorsi che il prigioniero, trovato nella stanza la sera prima, era una giovane cinese, con lunghissime trecce.
Le guardie venivano spesso dentro a parlare sottovoce con lei, come se dessero o ricevessero ordini, e la trattavano molto meglio di me: mangiava pane bianco e, dopo aver mangiato, poteva girare in quei quattro metri quadrati della nostra stanza; quando ci davano la tazza di acqua calda, a me la davano per terra, a lei sulle mani.
Dall'insieme di queste cose io pensai: quella non è una prigioniera, ma una maga o una indiavolata, messa lì apposta per ipnotizzarmi e farmi cantare !
Camminando, da principio andava svelta, poi sempre più adagio, ed infine lentissima.
Io vedevo che le sue lunghe trecce s'indurivano e si alzavano, la sua testa fumava come quella di un cavallo in corsa. Prima di mettersi a sedere sfiorava almeno due o tre volte la porta e bisbigliava qualche cosa con la guardia. Mi appariva terribilmente sofferente, come una vera ossessa; i miei dubbi si radicavano sempre più.
La notte del 10 il giudice seguitò l'argomento della sera precedente, costringendomi a riconoscere che la lettera scritta al Vicario Generale assumeva tutte le caratteristiche di un complotto segreto contro il Governo!
— Quali erano le tue intenzioni?
— Quella di pregare il Vicario a volerci dare una direttiva comune, in quei momenti di confusione, perché egli era il Pastore e noi volevamo che parlasse.
— Che cosa desideravate che dicesse?
— Noi nella lettera non indicavamo niente, soltanto che si pronunciasse in proposito.
— Volevate forse che vi invitasse ad entrare tutti nel Partito Comunista?
Abbozzai un sorriso senza rispondere! Ed egli:.
— Era forse questa la vostra intenzione?
— Dalla lettera non appariva nessuna intenzione contraria al Governo.
— Sei troppo intelligente nel nascondere la tua perfidia.
Io dichiarai apertamente, che la nostra aspettativa era che il Vicario si pronunciasse a favore della dottrina cattolica. Allora la faccenda assunse proporzioni nazionali e m'accusò di aver tentato la rovina della triplice indipendenza proprio nel cuore della Capitale.
Le cose peggioravano.
Il giorno di S. Martino venne nella mia prigione quel gerarca al quale avevo fatto da interprete verso il P. Mascolo. Con la sua sarcastica astuzia mi sussurrò: — Mi riconosci? Ah... tu credevi che il Governo fosse all'oscuro di tutto, vero? No! Al Governo del Popolo non sfugge niente. Quindi è tutto nel tuo interesse il confessare. Come mai adesso non preghi più? Non ti viene a liberare il tuo Dio? Credo che ora non solo il corpo, ma anche il tuo spirito soffra! Bravo, bravo... seguita pure a pregare, che ti sentirai meglio!...
Quando questi partì, attraverso una finestra immaginaria del muro interno, vedevo alcuni soldati che si stavano tagliando i capelli e ogni tanto qualcuno di essi si affacciava in quella finestrella e sputandomi in faccia mi scherniva: — Tu te li dovrai pistare i capelli e la barba, prima che noi te li tagliamo!
Qualche altro veniva semplicemente a ridacchiare e a curiosare. Uno mi disse: — Tu vorresti questa sedia per dormire, eh?! Ma l'esperimento su di te non è ancora finito; io ti ho visto recitare da diavolo, adesso non reciti più? Facci sentire qualche canto! Vuoi questa caramella?
— Non la voglio! — risposi tutto calmo.
La finestra disparve; ma si aprì la porta ed entrò la guardia inferocita.
— Che cosa hai detto?
— Ho detto che non voglio la caramella.
— Non sai ancora che qui non si può parlare?; — e, rivoltosi alla donna con tono smorzato le disse: — Perché gli vuoi dare la caramella?
— Io non ho caramelle e non ho parlato affatto.
Allora la guardia per punizione mi fece ripetere fino allo svenimento quell'orrendo sport dell'accoccolamento.
Le gambe erano gonfie all'inverosimile fin sopra le ginocchia. Nei minuti di lucido intervallo, mi andavo meravigliando di quella finestra sul muro che non vedevo più e di tutti quei cristiani in processione...
Nell'interrogatorio della notte dell'11 scongiurai il giudice che mi diminuisse quelle insopportabili sofferenze o col togliermi le manette o col farmi sedere o col farmi dormire. Non ne potevo più! Il perfido gongolò di gioia per questa mia supplica. Pensò: l'ora è vicina, il blocco si sfascia; e da bravissimo manigoldo mi rincarò la dose. Via le manette! e di nuovo i ferri che mi avevano spezzato le spalle e segato i polsi. Questa volta, sarà proprio l'ultima!
Ritornato in basso, caddi per terra, senza un'oncia di forze; la guardia urlava che mi alzassi, ma io ero di sasso; neppure gli spintoni con i ginocchi, né i calci possono rimettere in piedi un asino morto!
Venne lo stesso giudice. Mi disse che mi permetteva di sedere purché avessi confessato!
Per tutta la notte la donna fu sempre seduta ad un tavolino a scrivere! Ogni tanto mi fissava attentamente, come se volesse prendere ispirazione da me. Che voleva? Anch'io la fissavo truce e cipiglioso!.
Mi tormentava un pensiero fisso: ero certissimo che i comunisti possedevano l'ultima lettera da me. scritta all'Internunzio, in modo cifrato, ed ero in dubbio se confessarlo o no! Sapevo bene che la mia confessione avrebbe stuzzicato un vespaio: questa l'ultima: quale e quando fu la prima? E la seconda? E la penultima? E tutte le altre?...
Eppoi... crederanno? Certamente, no! E quel cifrato, ma perché? Ecco una vera spia segreta di Riberi! D'altra parte che fare? Questo tormento mi assaliva da vari giorni, tanto che una volta avevo tentato di confessare dicendo: —...Poi ho scritto a Mons. Riberi! — Ma il giudice: — Chè, scrivere lettere è contro la legge? Devi confessare le tue opere contro la legge e non queste sciocchezze !
Ma dunque, che sia ancora nell'ignoto la mia lettera cifrata? Posso tranquillizzarmi oppure mi si sta giocando una delle carte più fatali?...
Certo, quand'io la scrissi, l'Internunzio era già prigioniero a domicilio. Sì, sì, è meglio confessare tutto. Che male c'è? Eppoi, già sanno...
La sera 12 novembre tra la penombra dello spigolo della stanza, intravidi un tavolo rotondo e il mio giudice che vi sedeva sopra con le gambe incrociate alla cinese e intorno a lui molti spiriti maligni che da piccoli, come nani rachitici, si ingrandivano fino a sembrare dei giganti, poi si rimpiccolivano di nuovo.
Salivano sul tavolo saltellando da un asse all'altro di un trespolo inclinato, poi danzavano attorno al giudice tenendosi per mano, e di tanto in tanto facevano piroette e capriole e altre strane bravure acrobatiche. Mi schernivano con boccacce e mosse oscene; poi riprendevano la danza e mi sfidavano a battaglia.
La donna mi si avvicinò e, accarezzandomi la barba, mi disse in purissimo italiano con tono ironico: — Ah... tu non vuoi confessar niente dell'ultima lettera che hai scritto all'Internunzio il 28 giugno, ma credi che il P. Mascolo non abbia la bocca per parlare?! Credi che tutti siano stupidamente ostinati come te?! Il P. Mascolo mi ha detto tutto; se tu non confessi, non potrai più rivedere la luce del sole! —
Qui io mi scossi: riecco il giudice nell'identica posa; e, seduti su dei pezzi di legno, altri ufficiali che davano ordini ai diavoli di ritornare nell'inferno, perché io mi ero «svegliato!».
Svegliatomi davvero dal mio delirio, vidi che nella stanza non c'era più nessuno; la donna dormiva placidamente e profondamente... Neppure un'ora dopo, venni chiamato per l'interrogatorio! Avevo già deciso: dire tutto e prepararmi a qualunque finalissima. Confessai quindi la mia ultima lettera scritta all'Internunzio. Poi narrai, in breve, la storia di tutta la mia relazione con Mons. Riberi e con il P. Tarcisio Benvegnù, residente in Hong-Kong, al quale ero solito inviare le mie lettere dirette in Europa.
Il giudice, quella sera, mi spianò la fronte e mi promise che, confessando così il resto dei miei «misfatti», sarei volato in libertà.
Approfittai della fronte spianata per chiedergli di farmi dormire. Dormire ancora no, mi fece cambiare i ferri con le manette. Chi si contenta gode! Al mattino quando la mia coinquilina cominciò a girare, come al solito, nella stanza, io, di scatto e a gola piena gridai: «Christus vinciti Christus regnat! Christus imperati». Le guardie spalancarono immediatamente la porta e si precipitarono sopra di me, con le rivoltelle spianate volendo sapere che cosa avessi detto; risposi la verità che per essi fu bugia, e poco dopo ne vennero tanti altri da riempire quel bugigattolo. Uno dei più feroci mi gracchiò: — Tu preghi il tuo Dio! Ma dov'è il tuo Dio? Dopo tante preghiere non ti si fa ancora vedere; come mai? Io ti dico in verità che il popolo è dio, e se tu vuoi essere liberato, devi rivolgerti al popolo!
Dopo di che mi fecero ripetere quella funzioncina dell'accoccolamento, ingiungendomi di pregare il popolo! — Io prego il mio Dio, risposi, e non il vostro!
Vollero che mi battessi il petto gridando di aver meritato quella penitenza per aver infranto la legge del silenzio. Dissi: — Io ho meritato — e mi lasciarono in pace.
Quando, post prandium, la donna compiva il suo giretto per la stanza, io, in latino e a voce bassa, facevo gli scongiuri contro l'indiavolata! Io la schernivo con boccacce e lei tracciava i segni di Croce. Anziché calmarmi, mi avvelenavo di più, gettando forse fiamme dagli occhi, perché interpretavo quel segno di Croce come un'astuzia diabolica.
Quel giorno la sua passeggiata, fu più breve; e non osava più guardarmi; appariva afflitta, umiliata, mortificata!...
Poco dopo vidi di nuovo nello spigolo alcuni altri spiriti che uscivano dal pavimento, mi facevano sberleffi, danzavano e poi sparivano! Chiamai la guardia per avvertire che nella stanza c'erano i diavoli. Egli entrò e andò direttamente a vedere con la pila allo spigolo, poi disse:
— Dove stanno questi diavoli? Alzati, vieni a vedere! Dov'è il buco?
— Io non ho detto che c'era il buco, ho detto di aver visto dei diavoli!
— Ma dove?
— Qui!
— È questo che deve dire un sacerdote?
— Ma se io li ho visti?
— Bene, adesso resta in piedi qui, così li vedrai meglio !
Mi fece restare nello spigolo; egli uscì senza chiudere la porta. Da lì, non visto dalla guardia, minacciai con le gambe e con l'atteggiamento del volto, la malafemmina che avrei mangiato dalla rabbia. Quando la guardia rientrò, la trovò a piangere; io ebbi un brivido e mi credetti perduto!
— Cosa piangi?
— Ho paura anch'io dei diavoli! — rispose singhiozzando.
— Anche tu li hai veduti?
— No, ma ho paura lo stesso!
Chiese di essere trasferita nella stanza attigua dove venne mandata la sera stessa; ed al suo posto venne subito un vecchio giapponese.
Io pensai: avrà paura di Cristo e non del diavolo! Invece, povera donna, lei aveva pienamente ragione, ma avrà anche compreso che io, in quei momenti, non ero io, e quindi non potevo credere di essere nel torto!...
Se qualche mese dopo non avessi saputo con certezza che quella donna era una semplice cristiana, il cui marito stava in carcere per «cose serie» e lei per essere sfruttata dai comunisti ai danni dello stesso marito, io, anche ora metterei la mano sul fuoco per provare che lei era un'indemoniata.