Nelle vacanze estive, trascorse alla Cappellania dell'ex Ambasciata italiana, svolsi un'attività molto scoperta, per cui i comunisti, vedendomi spesso tra i loro piedi, cominciarono ad insospettirsi e infastidirsi, tanto più che spesso mi mostrai irruento fino al punto di rinfacciar loro di non essere abbastanza progressisti...
La sera del 17 agosto 1951 i margini della grande arteria di Pechino Morrison Street brulicavano di gente che aspettava curiosa o contrariata qualche cosa.
È secondo lo stile comunista quando si tratta di dimostrazioni popolari, per lo più propagandistiche e spettacolari, convergere nel punto scelto e nell'ora stabilita tutti i quadri degli attivisti, dei simpatizzanti, degli anonimi curiosi.
Ogni famiglia riceve l'ordine di mandare almeno uno o due dei suoi membri per assistere alla parata «spontanea». Si bloccano traffico e passeggeri che abbiano la mala ventura di capitare in quei paraggi. Aggiungi poi l'innata curiosità dei cinesi, ed avrai un'idea di quanta folla si fosse ammassata nella Morrison Street.
La Polizia si affannava a gridare ordini alla gente, quando in capo alla via spuntarono due autocarri con sopra due uomini: erano l'italiano Antonio Riva e il giapponese Francesco-Antonio Yamaguchi, condannati ambedue alla fucilazione.
Al loro apparire, il concerto accuratamente preparato esplode nelle più clamorose urla degli slogans a catena: morte agli imperialisti, abbasso l'imperialismo americano, abbasso il riarmo del Giappone, viva il Governo liberatore!
Il popolo «esige giustizia!»
Da notare che prima di ogni provvedimento poliziesco del Governo, la stampa si preoccupa perché sia il popolo a chiederne l'esecuzione e con grande abilità gli impartisce ottime dosi di potenziale accusatorio. Questo popolo, a forza di gridare cose che non sente e spesso non capisce, se ne fanatizza; e quando scocca il verdetto, prova la sensazione di essere lui il sovrano della piazza, a comandare e condannare.
Ho detto che ci si preoccupa di coniare falsi motivi, e se ne stampano a bizzeffe per coprire quello vero, sempre subdolo e poco presentabile.
La ragione vera di quel «duetto fucilando» portato alla morte in autocarro era: dare una dimostrazione tangibile a tutto il mondo che finalmente il popolo cinese aveva ritrovato la sua forza per reagire alle pressioni dell'imperialismo, e lo provava il fatto che si sbarazzava senza timore delle creature del capitalismo e del guerrafondaismo.
Erano state emesse quindi per l'occasione sette sentenze: le due suddette fucilazioni; l'ergastolo per l'italiano Mons. Tarcisio Martina; dieci anni per il francese Henri Vetch; sei anni per l'italiano Quirino-Vittorio Gerli; cinque anni per il tedesco Walter Genttrner; nove anni per il cinese Ma Hsin Ghing, il quale ultimo perdeva i diritti civili per quindici anni.
Questo clamoroso processo, che diede esca alla stampa di tutta la Cina per mesi interi, andava sotto il nome del martire Antonio Riva.
Costui, di puro e nobile sangue italiano, era andato in Cina molti anni prima in qualità di Capitano e Istruttore dell'Aviazione. Giovane ufficiale nella prima guerra mondiale, si guadagnò, oltre a numerose decorazioni, la commenda dell'Ordine Militare di Savoia. Di animo pronto e forte, scese senza titubanze nelle piazze di Firenze per lottare, nell'immediato dopoguerra, contro i sovversivi di allora e quindi fin da quei lontani giorni fu certamente segnato nel libro nero di Mosca!
Trasferitosi in missione militare nella lontana Cina, si distinse subito per le sue capacità tecniche e fu di valido aiuto al governo di Chiang Kai Shek nel ricacciare i rossi di Mao sulle montagne del nord-ovest! Nel 1948, quando la valanga delle armate comuniste precipitava sulla Cina Nazionalista, sperò di arginarne l'avanzata ed escogitò nuovi e originali piani di resistenza. Ma invano! Occupata Pechino, si ritirò a vita privata, ospite del nuovo Governo, illudendosi che i comunisti cinesi fossero davvero «più cinesi che comunisti». L'eterno inganno di tutti gli ottimisti di ogni nazione! Fu tanto riservato nei confronti dei nuovi padroni che non si azzardò mai di scrivere una riga «sovversiva» neppure alla sua sorella in Italia, ben conscio che qualunque apprezzamento o indiscrezione sarebbe stato interpretato come un atto di sabotaggio o di spionaggio. Ma a nulla valse il suo comportamento ineccepibile! I comunisti aspettavano soltanto di avere un pretesto per agire contro di lui. E finalmente l'ebbero! Ispezionando la sua abitazione, la Polizia rinvenne la canna di un vecchio lanciabombe e una collezione di proiettili e cartucce, praticamente inservibili per il loro svariato calibro!
Parte di questa collezione fu scovata in casse depositate negli appartamenti di Mons. Martina, inconsapevole delle stravecchie e dimenticate cartucce, per cui tanto Martina che Riva furono imprigionati sotto l'imputazione di aver ordito una congiura contro Mao per la mattinata del 1° ottobre, quando il Dittatore e tutta Pechino si sarebbero dato convegno nella piazza rossa del Cremlino!... Pensate! Attentare a Mao con la sola canna di un lanciabombe di fronte o in mezzo a una massa di trecentomila!
Che i comunisti non ne capissero l'assurdo? Certamente, si! Ma per la propaganda e per velare i propri misfatti, tutto fa brodo. Per tranquillizzare la loro scrupolosa coscienza tenerella esigevano pure la «confessione» dei «criminali» con la promessa di un immediato piede libero; ma la confessione degli innocenti tardava; gli agnelli non hanno nessunissima voglia di farla da lupi!
Alcuni giorni prima della fucilazione, il Riva fu condotto nella sua casa per essere fotografato assieme «al corpo del reato».
Meraviglioso!... I comunisti si permettevano il lusso di lasciare ancora nella casa del «criminale» un'arma così micidiale! Ah, quella canna!!!
Ridotto in forma pietosa e quasi irriconoscibile, s'incontrò con la sposa sulla soglia di casa. Forse allora vinto dalla speranza — nella disperazione — di ridare l'aiuto alla sua compagna e il papa alle sue quattro creature, si indusse a confessare l'inesistente complotto. E la stampa — naturalmente — spaccò le trombe; mentre il plotone faceva il resto. Che vigliacchi!
La vedova Caterina Riva scriveva, sulla via del ritorno in Italia, al figlio maggiore studente a Milano: «Pensa, Marino, che Popi (Papà) riposa a Chala, nell'angolo vicino alla grande croce; riposa in tanta pace e in tanta serenità; pensa che è morto per noi, si è offerto per noi, e non dimenticare che il Vangelo dice: Nessuno ha più amore di colui che da la vita per gli altri. Popi ha fatto questo!».
Un testimone (che non vuol essere nominato perché ancora a Pechino) presente sul posto della esecuzione presso l'antico tempio dell'agricoltura, afferma che la «claque» radunata apposta sul luogo perché urlasse e gridasse contro gli imperialisti, in quel momento solenne e crudele rimase nel più assoluto e quasi riverente silenzio, trasgredendo apertamente le istruzioni ricevute.
La Signora del martire, interrogata dal rappresentante del Ministero degli affari esteri di Cina quale fosse il suo parere (!) sull'operato del Governo nei riguardi del marito (gentile e opportuna domanda anzicheno!) rispose: «Se mio marito ha sbagliato non dichiarando di avere in casa i pezzi di un vecchio, lanciabombe e la collezione sparpagliata delle cartucce, poteva essere punito, ma non con la sentenza di morte! L'imputazione per la quale è stato fucilato è falsa o per lo meno sproporzionata! Se poi è stato ucciso per la sua attività in collaborazione con Chiang Kai Shek (ed era questo che vi scocciava) si sappia che mio marito lavorava per quel Governo riconosciuto, una volta, anche dai comunisti!».
Il giorno dopo l'esecuzione, la Riva mi telefonò, pregandomi di accompagnarla al Comune per ritirare il permesso di riavere la salma del marito, già chiesta tramite un ufficiale del Ministero degli Esteri.
Al Comune furono molto gentili nel consegnarci tale permesso e ci spiegarono anche il modo come saremmo potuti giungere più facilmente al luogo della sepoltura!
Se non trovammo difficoltà presso il Governo, le trovammo e non indifferenti presso i custodi del Cimitero cristiano di Chala: vollero ad ogni costo un permesso scritto del Vicario Generale. Il mattino del 19 agosto, domenica, mi recai in Cattedrale, ma trovai sparsi un po’ ovunque una infinità di soldati armati. Dissi alla sentinella che dovevo vedere il Vicario per un affare urgente. Fui presentato ad un «papavero» della Chiesa progressista:
— Adesso i Canonici stanno in Chiesa, ritorni domani.
— Ma il mio affare è urgente, non posso aspettare, per favore mi chiami il Vicario.
— Il Vicario quando è in Chiesa, non vuol essere disturbato.
— Gli dica che sono io, e farà un'eccezione!
— Ma sa che lei è petulante!?
— Mi scusi tanto, — replicai acceso e deciso — ma questo non è il modo di trattare il popolo; lei ha ancora la vecchia mentalità burocratica, sfacciata e reazionaria; non sa che adesso siamo stati «liberati» e che tutti dobbiamo respirare la nuova aria democratica? Adesso non si parla più così! Capito?!
Un ufficiale che era stato presente al colloquio mi indicò gentilmente una stanzetta vicina e mi disse:
— Aspetti pure, Padre, adesso andiamo a chiamare il Vicario!
Avanti alla porta si piantò un soldato che io da principio credetti soltanto un curioso, ma quando vidi che non partiva più, cominciai ad insospettirmi. Di lì sentivo molto bene l'organo della Cattedrale; quando finì la Messa pazientai ancora per qualche minuto, poi domandai al mio «picchetto»:
— Ma non viene il Vicario? Io ho fretta.
— Io non so nulla.
Allora mi decisi a partire, ma il soldato mi fermò dicendomi:
— Ho l'ordine di non lasciarti partire.
— Ma io debbo celebrare la Messa nella Chiesa delle Suore Francescane!
— Il tuo caso, Padre, è più serio della Messa. Questa volta a nulla valse la mia parlantina né la mia furberia. Sfilarono in processione interminabile, tanti soldati che curiosavano ridacchiando sulla sventura di questo nuovo pesciolino europeo. Uno di essi domandò sottovoce alla guardia:
— Che cosa ha fatto questo straniero?
— È stato imprudente nel parlare!
Dopo un po’ di tempo mi alzai bruscamente e dissi a bruciapelo:
— Chiedo di telefonare al Governo !
— Che cosa gli vuoi dire?
— Lo sentirai quando parlo.
La guardia fece cenno ad un altro soldato e dopo cinque minuti venne un capo ufficiale a tempestarmi di domande: — Che casa sei venuto a fare? Perché cerchi il Vicario? Chi sei tu e come lo conosci? Dove abiti? Che cosa fai?, ecc. — Poi aggiunse, con tutta calma e solennità, che avrei dovuto avere pazienza e aspettare qualche minuto e mi avrebbe portato subito la risposta.
— Ma io ho fretta e non posso più aspettare; voglio telefonare al Governo!
— Io rappresento il Governo: parla a me!
Allora mi decisi a mostrargli il documento rilasciatomi dal Comune, per riavere la salma di Riva.
— Se voglio vedere il Vicario, non è certo per mio divertimento!
— Con il Vicario è impossibile parlare.
— Allora gli scriverò un biglietto o gli telefono.
— È proibita qualsiasi relazione.
— Ma allora cosa debbo fare?
L'ufficiale uscì; tornò dopo qualche minuto concedendomi la grazia di farla franca.
— Ma non è questo che son venuto a chiedere: io voglio parlare con il Vicario!
— Ma ringrazia il Governo se vieni rilasciato così presto e non metter più piede in questo luogo!
Mentre risalivo in bicicletta dissi un po’ irruentemente alla guardia:
— In che modo sono stato imprudente nel parlare? Rimproverare ad un «compagno» i principi della vecchia mentalità è forse un errore?
Egli restò interdetto e quasi confuso; l'ufficiale però mi prese gentilmente per un braccio e mi fece andar via. Fu così che il mio nome cominciò a risuonare negli ambienti comunisti. Ritornai dal superiore dei custodi del Cimitero per ottenere il suo beneplacito, raccontandogli l'episodio della Cattedrale.
Il giorno dopo portammo la salma del Riva a Chala. Ma il custode volle da me una dichiarazione scritta, dove mi assumevo direttamente ogni responsabilità di fronte al Governo.
Fu scavata la fossa, pregammo... Stavamo per ripartire, quand'ecco tre poliziotti. Ci salutarono. Seppi il giorno dopo che i custodi s'erano buscate molte noie...
I Padri Stimmatini, saputa la mia andata in Comune con la signora Riva, mi pregarono di ritornarci per chiedere informazioni sul loro Prefetto Apostolico Mons. Martina.
Mi assunsi l'impegno molto volentieri, e quasi con orgoglio. Del Monsignore si sapeva con certezza che prima della sentenza era detenuto nella stessa prigione di Riva. Quindi tentai di chiedere informazioni colà. Mi feci dare l'indirizzo preciso dal servo di Riva. Andai alla prigione con la scusa di portare un pacchetto di dolci ed alcuni pezzi di sapone; mi si disse che Mons. Martina, dopo la sentenza, non era più lì, ma era stato trasferito alle carceri del Palazzo di Giustizia (Fa Yuan).
Un primo passo era fatto; mi recai al Comune di Pechino a chiedere una raccomandazione per recarmi al Fa Yuan.
L'ufficiale mi rispose che avrei dovuto scrivere l'esposto in forma ufficiale. Feci scrivere la lettera in cinese, e tre giorni dopo ritornai per la risposta che non fu consolante: il Comune non poteva interessarsi di ciò! Andai direttamente al Fa Yuan.
Uno dei factotum mi spiegò come non fosse possibile vedere i prigionieri. Scrivere ad essi, sì, anche mille lettere al giorno, ma i prigionieri non possono scrivere più di una lettera al mese. Ogni quindicina è permesso portargli danaro e vestiario, senza alcun limite, non cibi, però, non tabacco, non scarpe di gomma! Il 1° settembre andai, da buon cristiano, a visitare il carcerato Monsignore portandogli danaro e vestiario. Vidi soltanto le mura; lui no.
Qualche giorno dopo gli volli scrivere una lettera in cinese, domandandogli alcune cosette, incoraggiandolo ed assicurandolo del nostro ricordo e della nostra preghiera. Dal fatto che egli, scrivendo poi ai suoi Padri, non fece nessuna allusione alla mia, né mai rispose direttamente, ne deduco che molto probabilmente la mia lettera finì chissà dove...
Intanto i comunisti andavano ammucchiando il materiale per il mio futuro processo; ed io non lo sapevo.