Ero ancora in Italia quando nel 1946 la nostra stampa sottolineava la notizia dei giornali comunisti cinesi i quali, a caratteri cubitali, pubblicavano l'accordo avvenuto tra il Presidente della Repubblica Cinese Chiang Kai Shek e il capo delle truppe rosse Mao Tse Tung. Il presidente accettava nel suo Governo il rappresentante dei comunisti a patto che si deponessero le armi per procedere ad una seria e pacifica ricostruzione del Paese.
Ma i comunisti non furono fedeli all'accordo: difatti non passarono alcune settimane che scatenavano un attacco generale su tutto il fronte, immenso ed irregolare.
Quando, alla fine dell'anno dopo, noi Missionari sbarcavamo ad Hong-Kong, alcuni compatrioti residenti in Cina non si capacitavano del nostro arrivo.
— Ma che voi soli — ci dissero — siete nuovi in Israele? Perché volete andare in bocca al lupo? Ma non sapete che tra pochi giorni sarà occupata anche Pechino?
Noi non si diede a quelle parole che il peso di un allarme vero soltanto nella fantasia.
Il grande Impero cinese, iniziatosi fin dal 221 a. C. ebbe lunghissima vita, più di due millenni, fino al 1911, quando anch'esso crollò e nacque la Repubblica.
Ma la Cina non fu e non è terreno per la democrazia tipo occidentale. Subito pullularono dissidi, lotte interne, frazionate in milioni di episodi. Fu una specie di Medioevo; malcontento e ruggine della novità contro la tradizione e della tradizione contro la novità. Il popolo che voleva restare calmo e tranquillo come sempre, fu — come sempre — vittima e complice. Nel 1916 ci fu perfino un tentativo di restaurazione monarchica, ma che fu prestissimo soffocato con la morte del suo «Bruto».
La Repubblica iniziò la sua rivoluzione nel 1921 con a capo un certo Chen Tu Shiou, che nel 1934 veniva sostituito da Mao Tse Tung.
Questi era nato nel Hu Nan nel 1893; diventò marxista convinto nel 1920; capo delle forze rosse nella provincia del Fu Chien nel 1928, e, 6 anni dopo, capo di tutto il partito comunista.
In quello stesso anno, cioè nel 1934, Chiang Kai Shek lo scacciava da quella provincia; fu così che ebbe inizio la famosa «lunga marcia» di seimila miglia delle truppe rosse ammontanti a circa 200.000 soldati; la faticosissima marcia li decimò letteralmente, perché dopo aver attraversato molte provincie del centro e dell'ovest, arrivarono nella provincia dello Shensi appena in 20.000, stanchi e sfiniti.
Ma non dobbiamo dimenticare che, dove passavano, questi spiriti rivoluzionari lasciavano dappertutto promesse e speranze di un prossimo paradiso terrestre per tutto il popolo della Cina. Dove passava Mao, restava Marx.
Al termine della lunga marcia l'astutissimo Mao stese la mano a Chiang, lanciandogli un appello ed un invito alla collaborazione. Chiang dubitò della sincerità di Mao. (Ricorda il 1936 a Sian-Fu: il famoso incidente della sua cattura; poi quasi subito lo liberarono gli stessi comunisti, purché promettesse di resistere a spada tratta all'invadente Giappone). Tuttavia la mano tesa di Mao si strinse con la mano timorosa di Chiang; e le due opposte forze cospirarono, per calcolo bivalente, contro la terza forza del nemico comune
Negli otto anni della guerra antinipponica ognuno cercava di allontanare il Giappone, di respingerlo, di vincerlo. Ognuno — contemporaneamente — si teneva d'occhio e si temeva.
Chiang aveva paura dei comunisti e li accusava di volersi estendere troppo e abusivamente. Mao di rimando rispondeva che aveva il diritto e il dovere di farlo per il bene della Patria.
Bisogna riconoscere che Mao seppe istillare ai suoi uomini un vero spirito di sacrificio e il senso della disciplina; le quali cose gettarono polvere negli occhi delle masse nauseate per le interminabili guerriglie, rappresaglie e disordini causati dagli irregolari; cosicché, a guerra finita i comunisti uscirono rafforzati per il favore del popolo illuso, mentre l'esercito nazionalista di Chiang ne uscì veramente indebolito e corrotto. Questa tabe nell'esercito, l'egoismo, la cupidigia, la burocrazia dei capi e dei signorotti servirono ai comunisti di ottime leve per scatenare la guerra civile che in due o tre anni doveva relegare il Presidente della Repubblica nell'isola di Formosa, a circa 150 Km. dalla costa nazionale.
Io, quando nel 1947 arrivai a Pechino, trovai, sia politicamente che militarmente, la massima calma; ma sull'orologio della sfinge orientale stava per scoccare l'ora della passione. Difatti fu proprio in quell'anno che l'armata rossa, partendo dalla Manciuria, scese verso il sud attraversando il territorio di parecchie missioni cattoliche dove i comunisti devastavano residenze, distruggevano Chiese o le convertivano in grandi stalle, confiscavano proprietà ecclesiastiche, sottoponendo Missionari e cristiani ai tribunali del popolo. La cronaca degli anni 1947-48 registra circa 120 Missionari assassinati... dal «popolo sovrano». E Pechino brulicava di altri scampati alla persecuzione rossa, perché più furbi o più fortunati.
Solo più tardi, verso la fine del 1948, quando la vittoria comunista si delineava inevitabile e quando le direttive di Mosca erano giunte dettagliate e precise, i comunisti cinesi cambiarono tattica: NON FARE MARTIRI MA CRIMINALI!
L'astuzia di questa tattica diabolica non la comprese quasi nessuno e tutti ormai credevano che i comunisti non avessero più intenzione di distruggere la Religione, ma solo purificarla dai suoi elementi sovversivi e deleteri. Tanto è vero che a Pechino si diceva: «I comunisti non ammazzano più i cristiani, perché hanno paura del loro Dio, e rispettano anche i Missionari stranieri, anzi li proteggono e li difendono!».
Agli sgoccioli del 1948 ci fu un esponente straniero che volle andare, ufficialmente, a trovare il Comandante supremo delle truppe nazionaliste del Nord, Fu Tso I, residente nella stessa Pechino, per chiedergli se il pericolo comunista fosse prossimo o ancora lontano. Fu Tso I si dice che abbia risposto: «Posso assicurare la protezione di Pechino fino a Natale, in seguito il pericolo potrebbe essere imminente!»
In questa circostanza alcuni Consoli mandarono ai propri sudditi un invito di rimpatrio a spese del rispettivo Governo.
Allora molti civili cominciarono l'esodo; anche molti esponenti e ricconi cinesi lasciarono Pechino per rifugiarsi più a sud.
I Missionari studenti della nostra Scuola Francescana volevano tutti restare a terminare il corso di lingua, ma i più dovettero ubbidire ai propri Ordinari che li richiamavano nelle rispettive Missioni, la maggior parte delle quali erano situate a sud.
Anche la mia Missione di T'ung-Chow era situata a sud-ovest; ma si sapeva che là il pericolo di una invasione rossa era più grave e più prossimo, per cui scelsi di rimanere a Pechino, per seguitare lo studio della lingua.
A Natale gli studenti erano ridotti appena ad un sesto, tuttavia le scuole potevano dirsi ancora regolari.
Il nuovo anno, 1949, cominciò a farci sentire i primi rumori di guerra. Le truppe nazionaliste ripiegavano senza speranza. Una vera ritirata-lampo! Non restava che la città, gran gente e migliaia di soldati.
Il Comando delle forze armate diede ordine di iniziare le fortificazioni di difesa. Le grandi e numerose porte della città vennero chiuse tutte. L'assedio ebbe inizio.
Intanto i nemici ci tagliavano le comunicazioni elettriche e mandavano ripetutamente inviti di resa.
Fu Tso I volle salvare la bellissima e storica città e dopo averla mantenuta con i rifornimenti aerei per qualche giorno, la sera del 31 gennaio la consegnò pacificamente. Anch'io vidi l'ingresso trionfale delle truppe rosse, le quali forse si aspettavano un'accoglienza più spontanea. Invece, un ingresso silenzioso e quasi privato!
Nessuno avvertì il cambiamento di regime. La vita seguitava il suo corso ordinario.
Solo qualche mese più tardi si cominciarono ad avvertire difficoltà economiche; per cui anche il nostro nuovo Superiore della Casa credette opportuno licenziare quei pochi maestri di lingua che erano restati, dando così alla scuola solo un carattere domestico. Alle vacanze estive del 1949 si chiusero definitivamente i corsi!