Quante volte, nella nostra vita, ci soffermiamo pensosi di fronte al dolore umano! Il fatto della morte ci spaventa, senza il sostegno della fede, che ci dà la certezza di una vita nuova, preparata dal Signore con immenso amore. E molte sofferenze trovano sollievo nella preghiera e nella comprensione fraterna che ci danno la forza di proseguire nel nostro impegno quotidiano di famiglia e di lavoro.
Ma c’è un dolore nella vita più difficile da sopportare e da dimenticare, ed è quello causato dall’odio, fonte di discordie e di guerre.
La storia umana, purtroppo, è costellata di conflitti, e noi abbiamo avuto l’esperienza di due guerre mondiali, la seconda ancor più disastrosa della prima, per le decine di milioni di morti e di feriti. Tale è la potenza dell’odio che può annidarsi nel cuore dell’uomo! Eppure il Signore ci ripete: "Io ho pensieri di pace e non di afflizione" (Ger 29, 11) e c’insegna la via della carità fraterna.
Il ritornello del Salmo che oggi la Liturgia ci presenta, inserito tra le letture bibliche, è un invito e una garanzia: "I precetti del Signore danno gioia» (Sal 18). E sappiamo bene che i precetti del Signore si riducono all’amore di Dio e del prossimo. E per il prossimo vale il duplice comando: "Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te" (Tb 4, 15) e "Fa’ agli altri quello che vuoi sia fatto a te" (Mt 7, 12).
Questo insegnamento sembra del tutto disatteso, se pensiamo agli eccidi che si compirono anche in questa terra 35 anni fa, e che rinnovano nel nostro animo sentimenti di compassione per le vittime di sdegno per tanto sangue versato.
C’inchiniamo di fronte al sacrificio di tanti nostri fratelli: uomini e donne, piccoli e grandi, accomunati in un’unica immolazione, come partecipazione viva al sacrificio di Cristo sulla Croce, e vogliamo impegnarci con tutte le nostre forze perché questi drammi non abbiano più a ripetersi.
Nel ricordo del passato, la nostra attenzione non vuole soffermarsi soltanto sulla tragica violenza che ha fatto tante vittime, ma vuole scoprire il coraggio e l’abnegazione di chi ha vinto l’odio con l’amore, gli atti di solidarietà che fanno rinascere la fiducia nell’uomo, la capacità di perdono da parte dei più colpiti.
Sento il bisogno di ricordare il clero di queste terre, che ha scritto una delle pagine più belle della sua storia e le ha scritte con il proprio sangue, mescolato con le lacrime e il sangue della sua gente. Sono caduti nell’esercizio del loro ministero: mentre imploravano pietà per i condannati a morte, come P. Elia Comini e P. Martino Capelli nell’eccidio della Botte a Pioppe di Salvaro, o ai piedi dell’altare, come Don Ubaldo Marchioni, o mentre davano sepoltura alle vittime rimaste insepolte, come Don Giovanni Fornasini, nel cimitero di San Martino.
Dopo aver difeso e aiutato i perseguitati, le donne e i bambini, dopo aver vissuto le ansie dei rastrellamenti e delle deportazioni, hanno condiviso fino in fondo la sorte del loro gregge (Cfr. Angelo Carboni, Luci di fede e di Martirio, Bologna 1977, p. 98).
Ma questi esempi meravigliosi non ci vengono solo dai sacerdoti; altre persone diedero pure prova di coraggio e offrirono se stessi in olocausto per i fratelli.
I fatti avvenuti in questa zona a noi vicina ci fanno ricordare anche le tragedie accadute lontano da noi: possiamo così comprendere la commozione provata ed espressa dal Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini nella recente visita a Flossemburg e dinanzi al muro di Berlino.
Molti gesti di solidarietà sono noti, altri sono ancora da scoprire, o rimarranno nascosti, ma essi restano il segno che l’amore è ancora più forte dell’odio.
Come ha ricordato il Papa Giovanni Paolo II nella visita al campo di concentramento di Auschwitz, riferendosi al meraviglioso esempio di P. Massimiliano Kolbe e di tanti altri che si sono sacrificati per i loro fratelli, si può affermare: "Sul posto dove è stata calpestata in modo così orrendo la dignità dell’uomo, la vittoria riportata mediante la fede è l’amore". (I discorsi di Giovanni Paolo II in Polonia, in L’Osservatore Romano, 7 giugno 1979, p. XXXIV). Ed è questo amore che rappresenta il messaggio più forte e carico di speranza per tutti, l’amore che ci viene testimoniato da questi luoghi bagnati da sangue innocente e che può assumere anche l’eroismo del perdono.
Quando venni per la prima volta, come Arcivescovo di Bologna, a ricordare i morti della grande tragedia nella chiesa della "Quercia", mi si fece incontro un uomo che, piangendo, mi presentò l’immagine ricordo di tutti i suoi famigliari, stroncati dalla guerra. Era rimasto solo, ma invece di pronunciare parole di odio e di disperazione, mi disse che non aveva mai avuto, neppure nel momento della prova crudele, sentimenti di rancore e di vendetta. Caro fratello, non ti ho più rivisto, dopo quel breve colloquio, ma ti ho sempre ricordato e ho parlato di te in diverse circostanze: tu sei davvero un missionario dell’amore, un messaggero di pace.
Purtroppo però non tutti accolgono questo invito. Dopo l’ultimo conflitto mondiale sembrava che gli avvenimenti così tragici avessero insegnato quanto fosse assurda la via della guerra. Ma poi, gradualmente, si svilupparono lotte locali, dissidi internazionali e continuarono a ritmo serrato la fabbricazione, il commercio e l’uso delle armi. E all’interno dei singoli Stati ed anche del nostro Paese si fece avanti il terrorismo con tutte le sue implicazioni, effetto e causa di nuovo odio, che semina strage.
Per questo il Papa Paolo VI, nel 1964, recandosi in Terra Santa, proprio dalla grotta di Betlemme, volle rivolgere a tutta l’umanità un messaggio di pace: "al momento di lasciare Betlemme, questo luogo di purezza e di calma, dov’è nato Gesù, circa venti secoli fa, colui che noi preghiamo come il principe della pace, noi sentiamo l’imperioso dovere di rinnovare ai Capi delle nazioni e a tutti coloro che portano la responsabilità dei popoli, il nostro appello insistente in favore della pace del mondo" (Insegnamenti di Paolo VI, Pol. Vat., Vol. II, 1964, p.34).
E l’anno seguente, 1965, lo stesso Paolo VI si recava all’Organizzazione delle Nazioni Unite ed esprimeva con forza la celebre frase: "l’umanità deve porre fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità". E continuava dicendo che «un giuramento deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità" (Insegnamenti di Paolo VI, Pol. Vat., Vol. III, 1965, p.520).
E spiegava il suo pensiero con alcune espressioni, che è bene ricordare: gli stati e i popoli si distinguono gli uni dagli altri, ma non devono essere gli uni sopra gli altri, molto meno gli uni contro gli altri, ma invece gli uni con gli altri, gli uni per gli altri. La pace, infatti, non è solo l’assenza della guerra, ma collaborazione fraterna fra tutti i popoli. Si dirà che queste parole si rivolgono giustamente ai capi delle Nazioni, agli uomini impegnati nella scienza e nella tecnica, nella vita sociale e politica.
Ma in realtà sono rivolti anche a ciascuno di noi. Perché la pace alla quale aspiriamo è essenzialmente frutto di una liberazione da ogni forma di egoismo, di oppressione, d’ingiustizia, all’interno delle coscienze e nella vita dei popoli.
In questo rinnovamento morale dobbiamo attingere luce e forza da Cristo. "Non abbiate paura di accogliere Cristo", ha detto il Papa Giovanni Paolo II nel suo primo messaggio. "Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà, aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa cosa è dentro l’uomo". (Giovanni Paolo II, Omelia per l’inizio del Pontificato, in L’Osservatore Romano, 23-24 ottobre 1978).
Questo pressante invito e il ricordo del sacrificio di tanti nostri fratelli ci siano di stimolo per un concreto impegno di amore, di giustizia e di pace.