Palazzo di Giustizia di Roma - Lunedì 16 maggio 1949. - La tragedia dei nostri soldati in Russia aveva bisogno di una cornice più vasta che non fosse la solita, piccola aula dove quotidianamente i magistrati amministrano giustizia. Per questo, forse, è stato deciso che il giudizio si tenga nell’aula della 1a Sezione della Corte d'Assise; la stessa, per la cronaca, nella quale per sette mesi si svolse il processo a carico dell’ex Maresciallo d'Italia, Rodolfo Graziani.
Ore 9,10 precise: entra il tribunale. Tutti gli imputati sono presenti al loro banco. D'Onofrio, invece, siede ad un tavolo situato al centro del pretorio. La parte dell'aula riservata al pubblico è affollatissima. Curiosità? No! Non è la morbosa curiosità che porta le folle sotto le gabbie e i plotoni di esecuzione. Sono reduci che vogliono rivivere le sofferenze trascorse, attraverso il racconto, che qui dentro si andrà facendo, della loro triste odissea; sono soldati che sperano di ritrovare il commilitone perduto; sono spose, madri, sorelle, fidanzate, amici di chi non è più tornato; è una folla sulla quale il tempo è passato senza riuscire a lenire dolori e sofferenze. È l'Italia che piange ì suoi figli perduti e si erge severa e solenne contro i traditori della patria e della civiltà.
Breve e precisa, la messa a punto del «responsabile» del numero unico «Russia», Giorgio Pittaluga, dà il via al dibattito, dopo che il Presidente ha dichiaralo aperta l'udienza. Egli permise la pubblicazione dell’articolo riguardante il sen. D'Onofrio perché ebbe assicurazione dagli autori stessi che tutti i fatti specificati nello scritto erano perfettamente rispondenti alla realtà. Si trattava di un riferimento obiettivo senza alcuna intenzione diffamatoria, fatto col puro e semplice animus narrandi.
Ugo Graioni, il direttore del numero unico, ne dà conferma aggiungendo che molti reduci dalla Russia con i quali ebbe occasione di parlare gli ribadirono l'esattezza dei fatti riassunti nello scritto.
Il primo a narrare quello che accadde ai nostri soldati è l'imputato Domenico Dal Toso, tenente del IV artiglieria alpina della Divisione Cuneense, caduto prigioniero nel gennaio del 1943, trasferito al campo di Krinovaia con una lunga, estenuante marcia forzata.
Dal Toso: — «Partimmo in tremila, arrivammo in millecinquecento. Ci nutrivamo di semi di girasole. Avevamo avuto come viveri per il viaggio, soltanto un filone di pane da 500 grammi. Giunti nel campo di Krinovaia venimmo distribuiti a seconda del rango, in alcuni box simili a quelli dove, nelle scuderie, si rinchiudono i cavalli: in ognuno dei quali eravamo stipati in ventisei persone. Lo spazio era così limitato che era impossibile perfino sdraiarsi. Vi rimanemmo per quattro giorni, senza acqua, prima che ci fosse acconsentito di attingerne da un pozzo. Ci legavamo le gavette alla cintura e ci si spenzolava giù per poter arrivare fino in fondo. Molti, nel tentativo, caddero nell'acqua ed annegarono. L'acqua s'inquinò e non potemmo più berne.
Nel campo, insieme al Dal Toso, si trovava un cappellano militare, padre Turla, il quale era a conoscenza delle tristissime condizioni in cui versavano i prigionieri negli altri campi. Egli disse al Dal Toso che in alcune sezioni riservate ai soldati semplici erano avvenuti addirittura casi di cannibalismo...
— ... Cannibalismo? — interrompe qualcuno nell'aula su cui grava una atmosfera di dolore e di morte.
Dal Toso: — Sì. Cannibalismo. Aspettavano che un commilitone morisse e poi ne mangiavano il cuore ed il fegato.
Un giorno venne al campo un uomo, che dimostrava una quarantina di anni d’età. Nessuno osò domandargli il nome, né lui si preoccupò di dircelo: era un italiano e noi aspettavamo da lui almeno una parola di conforto, in nome di quel vincolo fraterno che dovrebbe unire tutti coloro che sono nati entro gli stessi confini. Rudemente egli ci disse invece che dovevamo ringraziare Dio se ancora non ci avevano fucilato. Più tardi si presentò una commissione russa per trasferire coloro i quali fossero in grado di camminare, in un altro campo di concentramento. L'accertamento per la idoneità consisteva nel fare venti passi davanti alla commissione. Ma tanto era lo sfinimento che molti caddero prima di aver compiuto il percorso di prova.
Il ten. Dal Toso fu tra i prescelti.
Dal Toso: — Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campoconvalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili.
Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri.
Presidente: — Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?
Dal Toso: — Voleva conoscere la nostra opinione politica. Egli teneva ad informarci che in Italia le cose andavano molto male. Poiché il Fiammenghi fece capire chiaramente che a coloro i quali si fossero dichiarati antifascisti sarebbe stato concesso un miglioramento del rancio, qualcuno aderì alle nuove idee di cui veniva fatta ampia propaganda.
È chiaro che, secondo la prassi del partito bolscevico, per antifascismo doveva intendersi, adesione alle dottrine marxiste. L'imputato narra poi come alla fine di luglio arrivò il signor D'Onofrio, il quale radunò gli ufficiali italiani proponendo loro che sottoscrivessero un appello al popolo italiano di incitamento ad abbattere il governo Badoglio e la monarchia.
In Italia, come è noto, si era verificato il colpo di stato che aveva rovesciato il governo fascista il 25 luglio 1943.
A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D'Onofrio, comunista, si qualificò di professione «cospiratore».
Presidente: — Come, come?...
Dal Toso: — Sì, sì, professione «cospiratore». Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D'Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D'Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D'Onofrio aveva detto: «Al capitano Magnani ci penso io».
Come tutti gli altri anche l'imputato dovette subire un interrogatorio, alla presenza di un ufficiale russo, il quale annotava tutte le risposte, al termine del quale il D'Onofrio lo minacciò di non riveder più sua madre se avesse coltivato certe idee di italianità perché in Russia ognuno era controllato e dalla Russia non era facile tornare indietro... In Russia vi erano regioni ancora più fredde, con chiaro riferimento alla deportazione in Siberia.
La lunga deposizione del primo imputato è finita: Dal Toso ha parlato con voce bassa che tradiva una visibile commozione interiore.
Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L'imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D'Onofrio, che richiamavano all'ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico.
Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L'atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione.