8 giugno 1949 - A questo punto si comincia ad avere la sensazione che le parti si vadano mettendo d’accordo per ridurre il numero dei testi. Del resto ormai poche sono le cose nuove che si sentono dire dai reduci che s’avvicendano sulla pedana e, certamente, l'escussione di tutti i 130 testi indotti da una parte e dall'altra non potrebbe portare elementi nuovi in giudizio.
Il primo teste della udienza è il colonnello dei bersaglieri Luigi Longo, omonimo del deputato comunista, già comandante del 3° reggimento. Fu destinato al campo di Susdal e lì conobbe il primo fuoruscito italiano, un certo Roncato, il quale si presentò ai prigionieri parlando in rumeno. Il col. Longo volle conoscerlo personalmente ma sulle prime la cosa fu difficile perché il Roncato finse di non comprendere la lingua italiana. Poi si decise a parlare nella nostra lingua e finì addirittura per esprimersi in dialetto Veneto. Il colonnello fu contento di aver trovato un italiano e sperò che potesse venire qualche vantaggio ai prigionieri. Si rivolse infatti al Roncato per ottenere che il comando del campo, tenuto fino allora dai rumeni, fosse affidato ad ufficiali italiani ma si senti rispondere dal fuoruscito che non lo seccasse con le sue chiacchiere. Non migliore risultato sortì un’altra proposta del colonnello al fuoruscito: quella di ottenere da lui che ai prigionieri italiani venissero restituiti gli indumenti che i soldati russi e quelli croati avevano loro tolto dopo la cattura. Roncato gli rispose che si pretendeva una cosa che «non era democratica».
Nel mese di febbraio scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale e oltre il cinquanta per cento degli ufficiali italiani prigionieri morirono. Anche il Roncato s’ammalò e per un certo periodo di tempo non si vide più. Ma prima di andarsene fece una ispezione alle latrine del campo che, naturalmente, essendo la maggior parte degli internati ammalati, non potevano essere pulite. Andò a cercare il col. Longo e gli disse: «Colonnello, questa... se non la fai sparire subito, te la faccio mangiare...».
Il teste subì un solo interrogatorio dal maggiore russo Nowicoff cui assistette il Roncalo che fungeva da interprete. Una volta sola il fuoruscito intervenne per accusare l'esercito italiano di atrocità e di ribalderie di ogni sorta commesse nel territorio occupato. Il teste ha poi ricordato che nell’aprile del 1943 il Roncato riunì tutti gli ufficiali prigionieri e tenne loro un discorso politico al termine del quale domandò quale fosse il nostro parere sugli avvenimenti italiani. I maggiori Massa e Russo, i quali fecero presentile loro idee contrarie a quelle del Roncalo, si trovano tuttora in Russia.
Presidente: — Lei ebbe occasione di vedere altri emigrati italiani durante il periodo della sua prigionia?
Longo: — Sì. Conobbi il fuoruscito Rizzoli il quale svolgeva fra i prigionieri una attiva propaganda filosovietica. Ricordo con precisione che un giorno il comandante russo del campo, il colonnello Krastin, radunò tutti noi ufficiali per dirci che gli emigrati, nella loro qualità di commissari politici, erano funzionari del governo sovietico e che come tali andavano rispettati.
Fra i prigionieri — ha raccontato — c'era un certo cap. Salvagno, che fu preso particolarmente di mira dal Roncato e sottoposto ad interrogatori estenuanti. Da un ultimo interrogatorio subito il Salvagno uscì talmente disfatto che dette segni di alienazione mentale e tre giorni dopo morì.
A questo punto l'avv. Paone ha voluto sapere dal teste se fosse vero che dopo il 25 luglio egli firmò un appello rivolto al popolo italiano perché ponesse fine alla guerra.
Longo: — È vero.
Avv. Taddei (venendo in soccorso del suo patrocinato): — Sì, ma sarebbe anche bene che si sapesse come il col. Longo fosse indotto a firmarlo dopo quattro giorni di insistenti interrogatori.
Viene chiamato successivamente a deporre il prof. Germano Mancini che durante la campagna in Russia fu ufficiale medico. Egli ha precisato quali fossero le condizioni sanitarie dei campi di concentramento e ricordato come avvenne la sua cattura. Il Mancini cadde in mano russa mentre si trovava in servizio presso l'ospedale italiano di Kantemirovka nel quale erano ricoverati 386 malati. A tutti fu imposto dai sovietici di firmare un documento in cui si attestava che il trattamento ricevuto dalle autorità russe era stato ottimo. Dovettero firmare anche alcuni moribondi in stato comatoso.
Mancini: — In vero soltanto di una cosa dovevamo ringraziare i russi: di non essere stati fucilati. Infatti quando l'ospedale fu occupato, quattro dei nostri, fra i quali il cappellano, furono immediatamente fucilati.
Quanto alla distinzione fisica che si dice i russi facessero fra i prigionieri per la distribuzione di differenti razioni di viveri, la cosa è vera, ma l'assegnazione alle diverse categorie veniva fatta soltanto in rapporto alla apparenza dei muscoli di ciascuno senza altro esame delle condizioni generali del prigioniero.
Ai chiarimenti del prof. Mancini, interessanti anche dal punto di vista sanitario, è seguita la deposizione del capitano di fanteria Ferdinando De Ninni che ha spiegato quale fosse l'attività della scuola di antifascismo aggiungendo, a quanto era stato già detto dagli altri testi, che coloro che la frequentavano avevano diritto ad un supplemento di rancio. Personalmente la ritenne sempre una cosa molto poco seria.
Il teste conobbe D'Onofrio nel campo di Skit e da lui fu sottoposto a numerosi interrogatori durante i quali, essendosi rifiutato di «allinearsi ai nuovi tempi» si ebbe minacce e intimidazioni. Anticipando poi le dichiarazioni che dopo di lui farà lo stesso interessato, il cap. De Ninni ha riferito alcune battute che ebbe occasione di ascoltare, del colloquio svoltosi fra il D'Onofrio e il ten. Sandali. Egli ricorda che l'attuale querelante chiese al Sandali: «Perché lei non si è iscritto al gruppo antifascista?». Al che questi rispose: «Io ho un regolamento da rispettare» avendosi come immediata replica dal D'Onofrio: «Se lei non la finisce di fare il testardo, se ne pentirà».
E finalmente, nell’aula, si è sentito parlare del famoso campo di Elabuga da uno che c'era stato: il ten. Rodolfo Sandali il quale fu compreso, come si ricorderà, nella lista nera di quelli che si opposero apertamente all’ordine del giorno proposto dal D'Onofrio dopo il 25 luglio 1943.
Sandali: — Fui interrogato per la prima volta dal D'Onofrio, appena giunto nel campo convalescenziario di Skit. Nel periodo in cui subii gli interrogatori pesavo meno di 38 chili e anche le mie condizioni morali erano precarie perché da moltissimo tempo non avevo notizie della mia famiglia.
Fummo chiamati nell’ufficio del commissario politico ed io fui interrogato per primo. Mi chiese per quale ragione non mi fossi ancora iscritto al gruppo antifascista e quale fosse la mia opinione intorno alla situazione creatasi in Italia dopo la caduta del fascismo. Risposi che la mia qualità di ufficiale mi impediva di pronunciarmi e che comunque avevo intenzione di rimanere fedele al nuovo governo che in Italia si era costituito. Pregai poi D'Onofrio di desistere dall'interrogarmi perché ero letteralmente estenuato. Fu questo a far andare su tutte le furie il commissario politico. Con tono irato, D'Onofrio mi chiese se amavo la mia famiglia e se avessi il desiderio di rivederla e finì con voce minacciosa: «Se lei vuol tornare in Italia a rivedere i suoi, deve cambiare le sue idee. Altrimenti se ne pentirà». Fui terrorizzato dalla minaccia e ciò peggiorò ancora il mio stato di salute. Per tutto il periodo della prigionia quella minaccia mi perseguitò e non ebbi più pace. Il cap. Magnani, il capomanipolo Ferretti, il ten. Santoro, il ten. Ioli erano con me, quel giorno, e le stesse minacce furono fatte a tutti loro.
Due giorni dopo l'interrogatorio fummo trasferiti in dieci al campo di Elabuga. Appena arrivammo ci isolarono da tutti gli altri prigionieri».
Sandali: — In quel campo vi erano due zone: in una di esse erano raccolti tutti i prigionieri che avevano manifestato tendenze filosovietiche, nell’altra coloro che venivano considerati reazionari. A noi fu vietato nel modo più assoluto di parlare con gli altri prigionieri italiani che si trovavano nell'una e nell'altra zona del campo.
Presidente (interrompendo il teste): — Lei è mai stato interrogato in questo campo?
Sandali: — Sì. Fui sottoposto ad interrogatori di carattere politico, ma da un ufficiale russo e da un fuoruscito tedesco. Mi fu chiesta la mia opinione politica e siccome io risposi che non potevo pronunciarmi essendo un militare, l'ufficiale che m'interrogava replicò: «Questo lei lo ha già detto. Ora sia più preciso nelle sue risposte». Erano le risposte che avevo dato al D'Onofrio. L'Italia aveva già dichiarato guerra alla Germania e in relazione a questo fatto mi fu chiesto se ero disposto a combattere contro i tedeschi. Risposi di sì e che non avevo mai avuto alcuna simpatia per Hitler. L’ufficiale sovietico mi propose allora di riferirgli i discorsi che i miei colleghi tenevano nella baracca che occupavamo. «Ciò, aggiunse, migliorerebbe sensibilmente la sua posizione». Naturalmente io opposi un netto rifiuto a questa proposta.
Avv. Taddei: — Il prigioniero aveva una sua cartella personale?
Sandali: — Sì. Anzi io ebbi occasione di vedere la mia. C erano la fotografia e le mie impronte digitali. Seppi che questa cartella accompagnava il prigioniero nelle sue peregrinazioni attraverso i vari campi.
Avv. Taddei (con manifesta ironia): — Logico, eravate dei criminali di guerra...